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venerdì 26 ottobre 2012

Historia brevis racalmuthensins - Racalmuto e la mafia





Racalmuto e la mafia

L’eloquio di don Mariano Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni persino folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava. Il Giorno della Civetta esordisce, icasticamente, con un brumoso paesaggio racalmutese:  «La piazza era silenziosa nel grigiore dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è codesta descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale dalla finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide. Tra lo spiazzo della Matrice e lu Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo echeggiano i luoghi comuni del Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia non ci crediamo  [voi]… non siete siciliano e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. » Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può anche indulgere alla macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto relativo a un comizio dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della mafia locale, alla sua destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua sinistra il Marchica, era apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un cero punto del suo discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere rapporti coi mafiosi, e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora riuscito a capire che cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta coscienza di cattolico e di cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai conosciuto un mafioso” al che dalla parte di via La Lumia, al limite della piazza, dove di solito i comunisti si addensavano quando i loro avversari tenevano comizio, venne chiarissima la domanda “e questi che stanno con lei che sono, seminaristi?” e una risata serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole, come non avesse sentito la domanda, si lanciava a esporre un suo programma per il risanamento dell’agricoltura.» E tanto non è forse la prosecuzione delle Parrocchie di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano Arena è una silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo Novecento (e i figli di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha anche culturale del paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal moralismo di Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed anche ricambiato) si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del romanziere per il suo personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è sarebbe stimabile. Il suo linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il picciouttu, feroce e traditore (noi a Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia” disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando … Dico con rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un cornuto … » .
Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960 linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.

Ma don Mariano, se deve incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se sbirro – reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che è un vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”. Quando il capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spegne in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi rapporti mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine motteggiare, salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego Marchica.  («Diventa filosofo, a volte, pensava il giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di pensieri e distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo in un giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano, la iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo aggiungere la coda di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta non erano cadute scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose erano venialità perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima  il discorso diventa grifagno, acido, senza indulgenza, lontano da ogni epos e da ogni  pietas. Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente intervistato (da uno intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro sia stato censurato.

Se crediamo a Michele Porzio, ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia avrebbe risposto: «non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in lotta con i rivali che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli occhi quello che proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto: sangue, morte, faide, conflitti a fuoco come in certi film western americani. E muoiono persino estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di starsene in  Piazza Castello, tentando di vendere qualche cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili delle sofisticate pistole dei mafiosi della nuova generazione  - li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed apportano morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun codice di onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro genitori illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi, addirittura capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco di lupare per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don Mariano è davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi capi-cosca in lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico Porzio, e Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un malato terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto ritiene il giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono diverse cupole, insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un accordo tra loro. La cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non c’erano né cupole né organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a Canicattì qualcuno ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli conventicole era stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia tradizionale. Ne sancì la morte. E la morte venne spietata, disumana, senza precauzione atta a salvare la vita di innocenti, di donne di bambini, che un don Mariano non avrebbe giammai consentito. Ma don Mariano era personaggio letterario; il vecchio col bastone, sporco fetido per i denti putrefatti, che attorno al feretro in casa del morto ammazzato racalmutese, uomo d’onore di antica schiatta, tutti scrutò e subito comprese chi, pur presente ora in veste di amico inconsolabile, aveva deciso lo strappo micidiale, quel vecchio era invece vivo e reale, nel suo criminale e tragico strapotere. Erano gli affari della droga che ormai comportavano mari di valute pregiate e la vecchia organizzazione era palesemente impari: i giovani se ne fregavano dei limiti, dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano (anche i loro padri illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava che il capobastone del nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i politici, fiutando voti, promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango che si reputavano sapienti vanificavano condanne appena discrepanti da sottigliezze pandettistiche, s’intende se annusavano accessi ad incarichi vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi pare che al morente Sciascia questo nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era andata ad immergersi) sfuggisse e la sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamente, anche per gli infortuni in cui i nuovi amici o i vecchi compagni di scuola elementare l’avevano coinvolto.

Se ci si domanda com’era la mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere a Sciascia e soprattutto al suo Il giorno della civetta. Quel libro un grande merito lo ebbe: costringere la intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal parlamento alle iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso siciliano per contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana – diciamola tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione della prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo, la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella, il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia della moneta, “figliu miu semmu consumati: grana nun nni camminanu”. C’era poco da taglieggiare. Non c’erano lavori pubblici; non c’erano imprenditori edili; non c’erano ricchi commercianti e non c’erano possibilità affaristiche. Che mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non c’era. Solo qualche rito residuo; magari atteggiamenti più boriosi che criminali. Per il resto, qualche guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana, non so quale plaga siciliana riguardasse, quale economia di mercato insulare, quale misterioso organizzarsi a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva alimentato loschi affari con compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati locali era divenuto impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame più o meno allo stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini avevano lasciato la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari guadagnavano benino e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai capimastri di Gibillini. Ma poteva chiamarsi mafia?

Piluccando da “il giorno della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed aggiungiamo subito, non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga lontana, mettiamo Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita poteva averne?] in questa provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a Racalmuto non ce n’era nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era sì e no lo sgangherato autobus dell’esordio del romanzo],i suoi materiali, nafta, catrame, armature, ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul posto. Vero è che vicino al materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta con uno o due operai che vi dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e c’è gente invece, voi mi capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a questa gente che non dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi è stata subito offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettarla Si capisce che ci sono i testardi: quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello alla gola si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del Bellodi sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa, aggirante: «Ci sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione. Ma sarebbe una associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo, se dovesse limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate guardianìa: la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene per voi, per le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti a licitazione privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con asta pubblica; vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscirne per sempre annientandola…»
Quel Sciascia lì, di sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il nome, meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on. Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri catanesi et similia, abbiamo avuto modo di appurare che le cose stavano sulla lunghezza d’onda del giorno della civetta, ed in termini ancora più aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente perniciosi, in totale evasione di imposte, in concertazioni oltremodo mafiose. E pare che un morto ci sia scappato, nientemeno quello del generale della Chiesa. Lo Stato s’industriò con leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di banche, intercettazioni, prove appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti trust, discipline degli appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai ripari. Non credo che oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli descritti da Sciascia. Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di prima. Genesi e cause sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente infestanti.

Per Sciascia il fenomeno della mafia è inestirpabile. Se  Domenico Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il prefetto Mori?, la risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle repressioni notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la mafia continuò ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel prefetto. Se Porzio domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato assassinato? La risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva il carabiniere, il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo scrittore qui abbia dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi nel Giorno della Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio e Sciascia:
Porzio: Infatti quando c’era don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò in vita a lungo.
Sciascia: Allora la mafia era la mafia.
Porzio: Era una mafia per bene?
Sciascia: Per bene no, non lo è mai stata.
Porzio: Ma di che cosa viveva allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai commercianti?
Sciascia: Sì, imponeva le tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i ricavati delle tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No, no, no.


Sulla mafia durante il fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e con il solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella dissertazione. Dicevamo.

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