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mercoledì 30 gennaio 2013

L'avvento dei Del Carretto a Racalmuto


L’avvento dei Del Carretto

 

 

PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO

 

 

 

Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese.  Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»

Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.

Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.

L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con approssimazioni e topiche: diradarle o correggerle alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.

 

*   *   *

 

Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:

1.    Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([2]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([3]) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli denegato le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([4]); e contro la parte abbiente del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una terrificante scomunica.

Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([5]), dunque, non è mai esistito.

2.    Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([6]) - il Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che  nel maggio del 1622  sarebbe stato perpetrato insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([7]).

3.    Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([8]) dal conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).   

Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di  vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.

 

*   *   *

 

Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI,  il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante famiglia d'origine ligure.

Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ([9]):

In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine  è soprattutto da vedere la forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi  quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso signor Re Martino  a fare la detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto,  ha pienamente il fondato diritto di chiedere all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori affinché si dipani la totale verità.

Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale»,  nel qual caso è di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore deve presentare e la sua investitura  e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia curia.

Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che, nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del Carretto.  Nel processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?

Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto. 

In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.

Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II  Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.

Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([10]) aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:

La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.

Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere  per ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo  suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.

Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal  fratello Gerardo,  per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.

  E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra  in un diploma ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.

      E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.

      E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.

      Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.



 

      E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il  padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del  proprio genitore. ([11])

 

Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa  per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.

I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([12])

Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([13]) Il Di Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.

In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri  fossero quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.

 

Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione della  storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura tutt’altro che accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però,  è del tutto incolpevole, giusta quanto abbiamo prima illustrato.

 

 

Allo spirare del secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,  il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]

 Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.



Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.



Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.

 



Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.



Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.



Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.



 

Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([14])

 

Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).

La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata  la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([15])

Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).

Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.

 

Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([16]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei  Del Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.

Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 [17]  e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino.   Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria araldica. [18] ( E questo già si disse).

 Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte  è il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.

 

Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.[19] Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [20]

Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano.[21] Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria [22]  che poi segue passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.


 

 

PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE

 

Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Baronio è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, o non esiste o fu scialba figura di comprimario, con tendenza al mendacio.

 

ANTONIO I   DEL CARRETTO

 

Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. E forse è proprio così che è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.

 

ANTONIO II  DEL CARRETTO

 

Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.

In quel documento emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era solo millantato, comunque inconsistente.

A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.

Non sappiamo quando e dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.  Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:

«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»

In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:

«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in

«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris canonicorum  civitatis Agrigenti, .... et eciam in  quoddam   hospitio magno existente in civitate Agrigenti  iuxta hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti  Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis viam publicam ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis, et in omnibus  et singulis bonis stabilibus castris villis baronijs feudalibus et burgensaticis  sistentibus in toto regno Sicilie.»

Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da questo passo del citato documento:

«dominus Gerardus promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum Matheum et heredes suos.»

Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.


 

GERARDO  DEL CARRETTO

 

Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.

Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Baronio e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente fantasiosa congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.

Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano.  Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.

In un atto dell’anno prima [23]  era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.


 

MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto

 

Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.

Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.

Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo [24] ne fornisce indubbia testimonianza;

 

 

[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.

 

«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli   quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente defrodaru  e fichiruli  assai dispiachiri; per la quali cosa si ita est  la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che  cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu  procuraturi di la presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria  [si occupi] plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.

Dirigitur Matheo di Carrecto»

 

Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore straniero spietato ed ingordo.

Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.

Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.

 

La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([25]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([26]): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:

"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio  de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”

Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.

Il diploma prosegue:

"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.

Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.

Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.

E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.

Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.

Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.

Remictimus et gratiose relaxamus Matteo preditto omnem penam, culpam et offensam, dolum, delictum, fraudem, malitiam et omnem crimen et spetialiter crimen lese maiestatis in omnibus suis capitulis, depradationes, dampna homicidia et robberias et omnem culpe causam que prefatus Mattheus commiserit hactenus et perpetraverit, quesiverit et ordinaverit motu proprio vel alieno, tam contra personas quam contra statum nostrarum maiestatum, nec non contra consiliarios nostros atque fideles et vassallos atque extraneos et loca fidelia serenitatis nostre, parcentes et indulgentes ipsi Mattheo eius uxori et filijs, familiaribus et domesticis suis ac restituentes eosdem ad statum pristinum et honores et famam integram tam quo ad personam quam etiam ad baronias et omnia bona feudalia et burgensatica ubique existentia mobilia et immobilia, et specialiter ad terras et castra predictorum Rachalmuti et ad jura et actiones sibi hactenus competentes et ad bona omnia quocumque nomine censeantur, que omnia etiam si opus est de novo conferimus, concedimus et donamus prefato Mattheo et suis heredibus in perpetuum, eo modo et sub illis oneribus et servitijs quibus ea tenebat et possidebat ante perpetrationem criminis supraditti; donationibus, concessionibus et alienactionibus  quibuscumque  de bonis ipsis aut alterius ipsorum alicui per nostras serenitates factas quas de certa nostra scientia plena concientia et absoluta potestate pro bono pacis  et beneficio publico revocamus, irritamus et penitus anullamus, obsistentibus nullo modo posito etiam quod in prefatis nostris concessionibus sit adietta clausula remissionis fatta et fienda non obstante, vel eciam si in illis nostris concessionibus diceretur quod quecumque remissio non  preiudicet illis nisi in ea ponantur forma dittarum concessionum de verbo ad verbum vel forte alia formula verborum sub quacumque  conceptione verborum sit in illis [3] apposita, quibus clausulis derogamus expresse  de conscientia nostra et plenitudine potestatis regie annullamus etiam et irritamus omnes sententias, editta de certa etiam  iuditia contra ipsum Mattheum edita, lata et promulgata per magnam regiam curiam de crimine lese maiestatis ac si contra eumdem numquam prolata fuisset.

Questa la formula assolutoria, ampia, faconda, omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?

 Insuper confirmamus, laudamus et approbamus ditto Mattheo omnia et singula privilegia per nos seu predecessores nostros eidem Mattheo vel suis concessa seu indulta sub servitijs et conditionibus contentis in eis et quolibet eorumdem  ac etiam expressatis iuxta modum et formam capitulorum predittorum et responsionum per nos fattarum eisdem ut superius continetur, nostris tamen et alterius iuribus semper salvis.

La chiosa finale è ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.

Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria [27] che ha modo di narrare:

«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...

Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.»

[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]

Rex Siciliae etc. Consiliare noster, La nostra maiestati ha gran plachirj di exercitarj et legirj lucanu in franciscu, maxime per mectirini a menti alcunj di li storj; et, certificati ki vui vi haviti unu bellu et utilj, per li presentj vi pregamu effectuare ki nj dijati complachirj et mandarinj lu dictu lucanu, et di zo plachiriti la excellentia nostra.

Data Cattanie sub nostro sigillo secreto quinto Junij, quinte indictionis. Post datam. Vi diclaramu ki per portari lu dictu libru vi mandamu lu purtaturj di la prisenti, cum lu qualj nj mandiriti lu dictu libru. Data ut supra.

Dirigitur matheo de carrecto.

Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.

(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)

 

Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto


 

GIOVANNI I DEL CARRETTO

 

Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto impero. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del ’Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.

Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo dati alquanto biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:

 

dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..

 

 

Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà l’erede nella baronia Federico del Carretto.

Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) genera incertezze, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni da parte di un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore delle proprie fortune.

Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una lettera ([28]) da Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.

Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto:  v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione è stata sistemata come segue:  30 once in contanti e dieci a compensazione  di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.

Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.

Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte.

 

 

 

Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». [Per ACA  Canc. s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria.  Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto  affidata a Gispert d’Isfar.

Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).


 

FEDERICO  DEL CARRETTO

 

 

Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.

Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).

“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto; non manca del requisito della primogenitura maschile come imposto dal diritto feudale dell’epoca [29].  Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:

«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » [30]

Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenze della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:

n presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;

n renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;

n restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;

n e del pari restino riservate  alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;

n resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.

Per il resto possesso assoluto sino al mare.

Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di forward in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850

Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi,  Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».

 

 

GIOVANNI II  DEL CARRETTO

 

La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.

Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna  ... memoria. Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore  [natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto [31].

Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli [32] che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio

Quando sia avvenuta quella vendita non sappiamo; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. e 7 Ind. et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua[33]

Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto  - la fa a ridosso degli anni della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:

«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»


IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO


Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400([34]) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente interesse noi in questa sede.([35])

Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.

Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino ([36]): «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..

I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai  grati riconoscimenti. E così  apprezziamo quelli che sappiamo essere  i morigerati vostri costumi di vita  di cui v’è generale stima e nei quali noi siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda, l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità apostolica.

Ai nunzi ed agli incaricati presso il venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti termini giuridici.

Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.

Dato in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.

.... Re Martino - »

Il documento fu ben presente a Gian Luca Barberi che gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. ([37]) Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?

Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

GLI EBREI  A RACALMUTO


La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. ([38])

Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento  interessante e che va qui riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra.

«Il Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei

«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo  diabolico  spiritu ducti  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu  gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  la qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi doro farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta laltra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono. et trovandoli cum ydonia  et  sufficiente pligiria de restituirili ad omni simplichi requisicioni di la  regia  curia li restituiriti a li heredi di lu  dictu  iudeu. preterea  perche multi audachi et temerari persuni li quali  poco timino  la iusticia presummino in la chitati di girgenti  parlari et  usari  alcuni prosuncioni et adminanzi ac iniurij  contra  li iudei  di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti  et scandalu  non  senza disservicio di la regia curti.  a  li  quali inconvenienti volendo debitamente providiri actento chi li  iudei sono servi di la regia cammara  et non si divino lassari  indebitamente   vexare ne molestari. vi comandamo chi eciam vi  digiate conferiri  in la dicta chitati di girgenti per li lohi soliti  et consueti  farriti voce preconis emictiri banno puplico  sub  pena vite et publicacionis bonorum et altri a vui meglo visti chi  non sia  persuna  alcuna  digia ne persuna  cuiusvis  condicionis  et gradus  chi digia palam vel oculte de die nec de nocte intus  nec extra civitatem offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.  ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli  ne  loru beni re facto verbo et opere. et  chi  lo  capitaneo iurati  gubernaturi di li iudei et altri officiali  digiano  ipsi iodey  favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite  li volissi offendiri et molestari. lu quali banno post eius  pubblicacionem   farriti reduchiri in scriptis ut appareat in  futurum. et si alcuno volissi dimandari iusticia  oy incusari alcunu iudeu digia  compariri davanti di nui et farrimo debito complimento  di iusticia.  in modo chi cui havira commissu malificio et delicto sarra debitamente castigato. Nam in  premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per  presentes.  per  li  quali comandamo a tutti et  singoli  officiali  et persuni  di  la chitati nec non a lu nobili baruni  officiali  et persuni di lo dicto casali chi in la execucioni di li  sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano obediri  et assistiri  ac  prestari omni aiuto consiglio et  faguri  et  loro brazo  si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti  nec contraveniant auti aliquem contravenire permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco applicandarum. vui vero  in la execucioni di li dicti cosi vi haviriti et  portariti in tali modo et omni quilla diligencia  chi pozati  meritatamente essiri  inanzi  nui comandatu. Dat. panormi die VII  Iulij  VIIe Indicionis  M° CCCCLXXIIII°. post datam. constituimo a vui  dicto nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis  octo pro  quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat.  ut supra.

Lop Ximen Durrea» ([39])

In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.

Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro  - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -  e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.

L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga. La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che  gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento  con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.

E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.

RACALMUTO NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400

 

Poco abbiamo sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale emerge dalle carte dei del Carretto. Un truce episodio di antisemitismo getta sinistra luce sull’intolleranza razziale di Racalmuto a ridosso dalla tristemente nota cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di fine secolo. Il medioevo si chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di morte, con misfatti e depredazioni letali che richiamano il biblico Caino, sotto un’intermittente signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed insediata al Cannone oppure dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte della opulenta sede dei vescovi agrigentini.

Pochi tratti della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in cui visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.

Sino al 1412 i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto in guerra per un empito di personale orgoglio -  mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione siciliana. Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità indipendentista  - per unione personale del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita morale – catoneggia il De Stefano [40] -  congiunto al mancato ricambio della vita economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città non avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano. Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che centotrent’anni, perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a maturità la crisi interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi della mutata situazione internazionale.»

La Sicilia perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni furore, di ogni empito vuoi ribellistico vuoi di generosa dedizione. Il parlamento  del 1413 si limita a chiedere che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito. Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il governo.

Tralasciamo qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni rifiutò.  

Sotto Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico che può abbagliare, ma la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente – sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta straordinaria che si aggiungeva al reticolo fiscale, specie a livello locale, con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e strutture parrocchiali esigevano puntigliosamente.

Migliora l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause  - scrive sempre il De Stefano [41]   - l’impedì: la concessione del mero e misto impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione, dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le cause riguardanti i singoli cittadini che il comune; […] la dilatazione del foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»

Con fermezza Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione regia nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel trapanese. Fu arrestato il minorita visto che propalava «multa enormia concernentia contra catholicam fidem.»

Alfonso (1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue anni: morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata alle Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia spagnola. Con nobiltà d’intenti, ma con palese faziosità, il De Stefano [42] crede che la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con un’anima e un pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella appartenenza nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale. La cultura giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue istituzioni particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali con la grande nazione italiana.»

Giovanni d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau, sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno anni  di regno aragonese.

Nel 1475 fu creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso rappresentare dai loro delegati.

Succede a Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).

Il Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes, nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione  degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi per l’economia e la cultura.

In tale contesto, Racalmuto fa raramente capolino, come si è detto. La sua vicenda storica, in questa congiuntura, si fonde e finisce per coincidere con quella tutta baronale dei Del Carretto. Almeno per la prima metà del secolo, occorre mutuare le ricerche di Henri Bresc[43] per capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).

 

Con lo storico francese dobbiamo convenire che gli  anni 1390-1416 introdussero nella storia del feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie sono domate e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [44] Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona ormai ogni infrazione della legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente in mano agli spagnoli. La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa; la Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara ogni sua elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni eccellenti. [45] La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e fortemente contrassegnata dall’elemento catalano ad opera dei Martino, deve fronteggiare l’avversa congiuntura che caratterizzò la fine del XIV secolo: una rendita decrescente che non compensa più le usurpazioni facili delle rendite del Patrimonio reale,  ora difese da un’amministrazione castigliana strettamente legata alla casa d’Oltremare ed un indebitamento cronico in crescita insopportabile a causa degli sperperi per doti insufflate. Nel servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i profitti ed i posti prestigiosi riservati all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme al modello ispanico. [46]

Questi ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una classe di notabili della piccola borghesia comunale, determinano un ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.

Una buona gestione patrimoniale, il consenso generale della pubblica opinione e della monarchia che vedono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e dello Stato, la ripresa economica dopo una pausa di più di 50 anni,[47] permettono al feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto di svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di questo raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi dell’interno. [48] Nel 1513, Giovan Luca Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che riportano la  rendita – sulla quale poggia l’imposta feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al 193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di questi due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale sono, in effetti, numerose.

L’interesse  dell’aristocrazia feudale e delle famiglie della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai  “latifondi” che riesplode, dopo la fase di stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo una dozzina di donazioni di feudi ai monasteri aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere una investitura di beni ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi spogliano puntualmente vescovadi e monasteri delle relative rendite e si adoperano per la risoluzioni di antichi contratti.[49]  Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed estendono la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando a proprio beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato feudale terriero.

Del pari, dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre” abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende il potere feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio di finanziamenti della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene sempre più perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la parentesi della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta alla difesa dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento della terra, un incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più redditizia gestione della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il sacrificio di qualche salma di terra, per giardini o per le infrastrutture sociali occorrenti ai nuovi abitanti.

Questa nobiltà che accetta la pace col re, non rinuncia né al prestigio della cavalleria né al dominio violento. Se, nella mischia feudale, le grandi famiglie cozzano fra loro, la nobiltà terriera tiene comunque al suo stile di vita, alla sua autorità, ai propri vassalli, altera del suo rango. Ma non si lascia andare alle “serrate”: questa aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, distinzione, prestigio attirano, affascinano. E il rinnovamento delle famiglie permette la mobilità del capitale feudale e, spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e l’aristocrazia fondiaria.

 




[1]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[2]) Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982, pag. 182.
[3]) Anche se non disponiamo dell'atto di nascita, siamo quasi certi che Girolamo, ultimo di tal nome dei Del Carretto, sia nato nel 1648. Lo desumiamo da un documento della Gancia  (Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)  che vuole: «Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte; figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000; inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382  e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.» La moglie di Girolamo, Melchiorra Lanza di Trabia, era più vecchia di quasi 18 anni. E ciò se crediamo all'atto di morte che si custodisce presso la Matrice di Racalmuto (libro dei morti 1694-1707), ove si annota: Die 10 Aprilis 1701 ind.nis  9^  Ecc.ma Domina D. Melchiora Lanza uxor ecc.mi Principis comitis Racalmuti Hieronimi del Carretto annorum 70 circiter, in communione s.  matris eccl.ae, in sua propria domo h.t. Racalmuti, animam Deo reddidit. Cuius corpus sepultum in Ecclesia sanctae Mariae de Jesu in venerabili Cap.a Sanctissimi Rosarii huius terrae Racalmuti  et praesidio omnium sacramentorum munita, et roborata, per me D. Fabritium Signorino Archipraesb. huius  matricis Eccl.ae terrae praedictae.
[4]) Ampia è l'esenzione fiscale dell'ultimo barone come può vedersi da questa disposizione del testamento del 1560:
Item dictus dominus testator voluit et mandavit, ac retulit et refert spectabili domino D. Hieronymo de Carrecto eius filio et successori in dicta Baronia et pheudis, quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint et esse debeant immunes, liberi et exempti ab omnibus et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.
 
 
[5]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[6]) F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[7]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[8]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[9]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - a cura di Giovanna Staleri Ragusa - Università degli Studi di Palermo - Facoltà di Giurisprudenza - Dipartimento di Storia del Diritto - Palermo 1989, pag. 445 (f. del ms. 528v).
[10]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[11]) G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel 1491. Gli viene quindi affidato il compito di svolgere le inquisitiones che gli serviranno per la compilazione dei Capibrevia.
Le sue indagini sono svolte prevalentemente sui registri della Cancelleria. Scrive G. Staleri Ragusa: «E dai polverosi archivi vengono fuori i personaggi di due secoli di storia siciliana, dei quali il Barberi non manca di interpretare i caratteri....  La morte di Ferdinando nel 1516 - soggiunge l'A. (pag. 14) -  poneva fine alle preoccupazioni di feudatari, ecclesiastici e ufficiali del Regno, che sentivano il loro potere insidiato dal Maestro Notaro: la sua opera alla quale, pure, andava facendo piccole aggiunte annotandoci le ulteriori successioni nei feudi o nei benefici ecclesiastici, non pare avere sortito l'effetto che Ferdinando aveva sperato nel suo disegno.
Ferdinando, in effetti, aveva affidato quelle ricerche d'archivio ad una persona di sua fiducia qual era il Barberi per avere materiale di scambio - ed anche di ricatto - per ricostituire il patrimonio della Corona.» Il terribile e puntiglioso Inquisitore non è certo tenero verso i nobili, specie con le sue allegationes.
Quella che stila contro i Del Carretto poteva, invero, procurargli una scopettonata. Si vede che a quel tempo i baroni di Racalmuto non avevano raggiunto l'alterigia del secondo conte, quel Giovanni del Carretto IV, mandante nell'omicidio di La Cannita.
[12]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[13]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[14])  Archivio Segreto Vaticano - SACRA CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI  - Anno 1599 - pos. C-L
[15]) D. Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.
[16]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[17]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
 
[18]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[19]) Diario della città di Palermo dai mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869  pag.  136.
[20]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869  pag.  283.
[21]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e ss.
 
[22]) Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6, 7 e 8, in  Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[23] ) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[24] ) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[25] ) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[26] ) Rosario Gregorio fu storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso  delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[27] ) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[28] ) ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 39 - (Anni 1401-1402) pag. 232 recto.
[29] ) Invero nella conferma della baronia del 1453, il maggiorascato sembra certo se crediamo al seguente passo di un documento facente parte del fondo Palagonia:
« Quo Joanne mortuo, dictus Fridericus tamquam eius filius legitimus et naturalis, ac mayor natu de eius patre in dicto Casali, et bonis aliter feudalibus successerit, et succedere voluerit, et vult, et ab eo tunc tenuerit,  et possiderit, et de praesenti tenet, et possidet fructus, redditus, et proventus percipiendo et percepi faciendo, [viene posta istanza] ut dignaremur dicto Friderico, et suis heredibus, et successoribus dictum Casalem, et alia bona feudalia quae dictum eius praesente posessa confirmare, eiusque supplicationi benignius inclinati nec non considerantes servitia tam praedecessores eiusque Friderici serv. Dominis Petro principibus divae recordationis quam  quod ipsum Fridericum Domino Regi praestita, queque prestat ad praesens, et in antea speramus volente Domino meliora Et quia nobis de possessione, filiatione, successione et morte, ac mayornatu praedictis constitit quod testes numero competenti super hoc seré productos eidem Friderico et suis heredibus, et successoribus cum debito tamen consueto militari servitio, .. videlicet unciae viginti pro qualibet equo armato juxta usum et consuetudinem dicti Regni secundum annuos redditus et proventus/ quod servitium dicto Friderico in vim praesentia constitutus se et heredes, et successores suos curiae dicti Regni Siciliae sponte obtulit praestiturum  Praestans pro inde fidelitatis debitum juramentum faciensque homagium manibus, et ore comendata juxta sacrarum constitutionum dicti Regni Siciliae continentiam, et tenorem Casale praedictum Racalmuti, et alia bona feudalia superius expressata juxta formam praeinserti privilegij confirmamus, itaque ipse Fridericus et heres  sui Casale, et feuda praedicta in capite à Regia Curia teneant, et cognoscant, et ipse Curiae et Militari servitio teneantur Vivantque jure francorum, videlicet quod mayor natu minoribus fratribus, et coheredibus suis, ac masculus foemenis praeferatur, temptis tamen et reservatis, que à praesente confirmatione omnino exstendimus juribus lignaminum seque sint in pertinentijs dictorum casalis et feudorum, que Curie debentur, nec non minerijs, salinis, solatis forestis, et defensis antiquis, que sunt de regio Demanio, et dominio et ... ... ex antiquo ispsi demanio spectantia eisdem Demanio, et dominio volumus reservari, si vero in pertinentijs dictorum casalis, et feudorum  sint aliqui barones, et feudatarij, qui pro baronis et feudis eorum servire in capite Regiae Curiae teneantur eidem Curiae serviant, et tenentur, quodque illi quibus in pertinentijs dictorum Casalis et feudorum habent aliqua jura possessionis et bona que Petro regis divi recordij aut dominum Regem concessa fuerint in dicta pertinentia dictorum casalis et feudorum, vel aliquis ipsorum pretenderent usque ad mare jus, dominium, et proprietas, locis littoris, et maritime pertinentiarum ipsarum in quantum à mari intra terram per factum ipse pertinentia praetendaretur, tamquam ex antiquo ad regiam dignitatem spectantiam eisdem demanio, et dominio volumus reservari, et quod ad ea omnia, et singula occasione praesentis confirmationis ipse Fridericus, et heredes sui non extendant aliquatenus manus suas, et quod animalia omnia et equitature arariarum, massariarum, et marescallarum regiarum in pertinentijs dictorum casalis et feudorum libere sumere valeant pascum, et quod ipse Fridericus, et heredes et successores sui sint  .. Regni Siciliae et sub regia fidelitate, et dominio habitent, et morentur d. domini nostri Regis heredum et successorum suorum, nec non constitutionibus, et capitulis serenissimi Domini  [12] Regis .., olim Aragonum, et Siciliae Regis, dum eidem Regno prefuit editis, aliorumque Retroregum, et domini nostri Regis ... militari servitio, juribus Curiae, et cuiuslibet alterius semper salvis in cuius rej testimonium paresens privilegium fieri jussimus Regio magno Sigillo impendenti munitum.»
(Datum in Urbe Felici Panormi: Die XI mensis februarij V^ ind. 1453. Simon Archiepiscopus Panormitanus Dominus Praesidens mandavit mihi Gerardo Alliata Procuratori et vidit illud Joannes Chominus Adnotatus Fisci.
Ex Cancelleria Regni Siciliae extratta est.- Coll. Salva. Franciscus Grassus Panormitanus Not.)
 
[30]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE N.    1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[31] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro dei Vescovi 1512-20  - f. 284v 285r
Documento datato 17 maggio 1512 - XV^ Ind., riguardante la consegna di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di Racalmuto Vito de Grachio, Francesco de Bona, Jacobo de Mulé, Philippo Fanara, Salvatore Casuchia, Grabiele La Licata, Orlando de Messana, presbitero Franesco La Licata e Stephano de Santa Lucia, a seguito di istanze avanzate alla Gran Regia  Curia. L'incarico promana dal Vicario Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto. Emerge l'interessamento del magnifico  chierico Paolo del Carretto. Di risalto il rito della consegna delle singole copie degli atti vescovili ai sindaci racalmutesi.
[32] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e segg.
[33] ) Il conto venne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentatus Pan. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[34]) Ci riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401)  pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
 
[35]) Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In particolare, ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
 
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e Marchisia PREFOLIO,  ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato. Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione.  [XI IND.]
 
2. - Costanza CHIARAMONTE,  come figlia unica di Federico suddetto, successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze, Antonino del CARRETTO, M.se di Savona e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti ... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania, agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine Siciliana, f. 228-229).
 
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre, per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli; i beni di Sicilia li cesse al fratello.
 
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R. Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata. Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è segnalato in modo impreciso]. .»
[36]) Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398 [Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone]
[37]) Il Pirri a pag. 730  "AGRIGENTINAE ECCLESIAE" della sua SICILIA SACRA scrive:
«18. can. S. Margaritae [10° Canonicato di Santa Margherita in Racalmuto], di ejus fundatione in oppido Rhalmuti vide supra ad ann. 1108. an. 1398. ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex Martinus dedit Gerardo de Fimio in lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib. f. 316. habet mediam decimam oppidi unc. 56.»
 Espliciti  in questo passo i richiami ai documenti della Cancelleria e dei Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi si può consultare l'opera pubblicata 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi - BENEFICIA ECCLESIASTICA - a cura di Illuminato Peri - G. Manfredi Editore Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi si legge: «CANONICATUS AGRIGENTINE SEDIS PREBENDA SANCTE MARGARITE RAYALMUTI - [316] - Cum ob rebellionem et nephariam proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum contra serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus agrigentine sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine dioecesis vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte sufficienter impensa canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio patronatu presbitero Gerardo de Fino contulit et concessit, quemadmodum in ipsius domini regis Martini provisione in regie cancellarie libro anni 1398. VI. inditionis in cartis 137 registrata diffusius est videre.
Unde per verba illa, scilicet: 'Auctoritate apostolica in hac parte nobis sufficienter concessa' notandum est quod Sicilie reges a summis pontificibus perpetuam habuerunt prerogativam et potestatem conferendi omnia regni beneficia. invenitur enim reges ipsos non tantum beneficia regii patronatus, verum etiam alia ad prelatorum et aliarum personarum collationem spectantia contulisse, prout superius pluribus in locis expositum est.
Nunc autem anno 1511 currente.»
 
[38]) CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA  - edito  dalla SOCIETA' SICILIANA PER LA STORIA DI SICILIA -  Documenti Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°  12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX - Palermo 7 luglio 1474,  Ind. VII.)
 
[39]) Cancelleria, vol. 130, pag. 332 - R. Protonotaro,  vol.  73, pag. 160.
[40] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, UL Bari, 1977, p. 68.
[41] ) ibidem, p. 73.
[42] ) ibidem, p. 83.
[43] ) Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile – 1300-1450. – Palermo 1986 p. 865 e ss.
[44] ) Nel 1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re, e, verso il 1459, quella del feudo Taya  ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[45] ) Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454, accorda a pagamento permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella per la mano della figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo). Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32 sono catalani, 5 napoletani, e solamente 12 siciliani (più un rabbino siciliano); quasi tutti sono nobili, o per lo meno in carriera militare o sono addetti alla corte. Le giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui 9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate, qualche volta successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea!; ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[46] ) I dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV secolo, da cavalieri urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello, Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo). La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[47] ) Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per un’alleanza matrimoniale con il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La conquista del regno napoletano ha così permesso di ridurre in Sicilia la concorrenza, all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf. E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[48] ) Nel 1446 la locazione del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826, 17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17 once: 58% d’aumento in 5 anni.
[49] ) Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato, i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150 salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.

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