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mercoledì 30 gennaio 2013

RACALMUTO PROTOFASCISTA (Appunti)

PARTE PRIMA

RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO




 

Verso il periodo podestarile




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Criteri periodizzanti



L’oggetto della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale, organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda l’istituto podestarile.



Per convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia, ormai sterminata, sul fascismo.



Sono criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista definendola «funesto regime che è stato una triste parentesi nella .. storia» d’Italia (), non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la "rivoluzione fascista".



Per l’Ercole (), ad esempio, è da parlare di due "tempi della rivoluzione fascista": A) dalla "marcia su Roma" al discorso del 3 gennaio 1925; B) da predetto "discorso" alla legge 5 febbraio 1934 sulle "corporazioni". Vi era stata prima "la vigilia della Rivoluzione Fascista - dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23 marzo-28 ottobre 1922.



Ma nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un succedersi di due "ondate" prima della marcia su Roma e dopo la "sosta d’autunno" imposta a seguito del delitto Matteotti. Il ricorso ad "una seconda ondata" era stato a dire il vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata "insurrezionale", ‘violenta’, che non è da escludere poteva scoppiare se il re avesse "dimesso" Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la reiterata minaccia della cosiddetta seconda ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed effimeri» (). Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura antifascista del dopo guerra. ()



In campo cattolico, Gabriele De Rosa () adotta la data del 3 gennaio 1925 per una svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre 1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).



Quanto allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ()



In campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi del "fascio della borghesia" giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag. 2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito "regime reazionario di massa". Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 - cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri decisivi del potere economico, finanziario e politico». ()



Quanto alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36, 1936-39, 1939-43.» () Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936 viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).



Il Lupo, () un affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del fascismo siciliano come "utopia totalitaria". Teorizza un’iniziale «(breve) trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e verticale dove le autonomie e i conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi incoffessabili» (v. pag. 429). Un "totalitarismo", dunque che a partire dal 1927-1929 viene messo "alla prova" fino al 1939, quando esplode «l’ultima impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».



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Il segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti. Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», "sosta estiva-autunnale", discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926 il motto "incipit novus ordo" che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione dei poteri del governo a scapito del parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata, istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori ad organi indiretti della pubblica amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del tempo "seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo" () L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n. 1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che consentiva ad un proprio capo-popolo uno scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di "referendum" (solo sì oppure no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929 e nel 1934.



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Il 1931 viene assunto come dies ad quem scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al 1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per impieghi pubblici di qualsiasi genere o per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag. 2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica Racalmuto. Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’ - come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire ‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ().

Le cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.

Il 24 gennaio 1924 (), con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria, quanto all’ammonistrazione comunale), che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un decennio.

Per un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il 18 maggio 1936 (). Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura, praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese sono in effetti cinque:

1°) la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli amministratori demo-liberali del 1924;

2°) il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo podestà del dott. Enrico Macaluso;

3°) il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;

4°) la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata in guerra nel 1940;

5°) il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto dell’esercito americano.()



 

Racalmuto prefascista



Dal 1860 al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato da alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare titoli persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio baronale, ma si era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di Gibillini da parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il Settecento e l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I Tulumello, già ricchi per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto e Montedoro, locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale del secolo scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei Savatteri e si insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio, dal 1889 al 1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero economicamente e sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella gestione della cosa pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi che avevano fatto fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque gli ottimati locali, i cosiddetti "galantuomini", con la loro boria di nuovi ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà - trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.



Racalmuto si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi Agrigento) il dott. Raffaele Rocco () partecipa al Ministro degli Interni che l’associazione «Racalmuto - Lega di miglioramento fra zolfatai» aveva pochi giorni prima cambiato titolo in «Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al fascismo. () Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla "marcia su Roma": avvedutezza degli zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata dominata dal socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati appartenenti alle famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma entrambe le cose sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta costituita a Racalmuto il 26 dicembre 1926. ()



Racalmuto si affaccia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale del Regno" del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.



Il quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63 esercenti di miniere di zolfo (per converso solo 4 esercenti di miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma molti sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, "agrario" ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento.



Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani ( accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.

«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»



Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese () fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento fascista. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.

«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]

«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda. [...]

«Qua e là, tra le distese grige del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!

«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»



Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola (): «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»

L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ()

Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti. () Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ()

Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali: Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» ()



Racalmuto si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è quello demografico che è bene qui segnare:

Abitanti di Racalmuto


Anno

N.ro abit.

Indici 1825 =100

1825

7.170

100

1831

7.806

108,87

1852

9.030

125,94

1869

12.252

170,88

1894

13.384

186,67

1901

16.029

223,56

1911

14.398

200,81

1921

13.045

181,94

1931

14.044

195,87

1936

13.061

182,16

1951

12.623

176,05

1961

11.293

157,50

1980

10.000

139,47




In quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:

Comune di Racalmuto


       
       
Periodi


Incremento totale

incremento naturale

saldo migratorio

1861 -1 871

3,6

8,86

-5,26

1871 - 1881

20

18,43

1,55

1881 - 1901

09,65

13,26

-4,64

1901 - 1911

-10,8

11,32

-22,12

1911 - 1921

-14,6

4,19

-18,79

1921 - 1931

11,4

9,93

1,47

1931 - 1951

-06,72

9,97

-16,69






Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del 18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951). ()

Rispetto alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:

Anno


abit. Racalmuto (A)


N.ro ind.
(B).


abitanti prov. Ag. (C)


N.ro ind.
(D)


Rapporto %
A/C


Rapporto % B/D


1901


16.029


100


371.638


100


4,313


100


1911


14.398


89,825


393.804


105,96


3,656


84,77


1921


13.045


90,603


369.856


93,92


3,527


96,47


1931


14.044


107,658


398.886


107,85


3,521


99,82


1936


13.061


93,001


407.759


102,22


3,203


90,98


1951


12.623


96,647


461.660


113,22


2,734


85,36


1961


11.293


89,464


447.458


96,92


2,524


92,30


1980


10.000


88,550


449.699


100,50


2,224


88,11





Rispetto al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza. Eugenio Napoleone Messana (, uno storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al 1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece, come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine dell’Ottocento.



La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.



Scrive in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a Racalmuto è nato: «Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto è solo uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» () Quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali ricercatori che a Sciascia.

Leonardo Sciascia, nato nel 1921, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.

Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare con devozione quasi filiale la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.

Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace (): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama "gli anni del consenso": un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la "carta del lavoro" aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse "una strana quanto benefica mancanza di rispetto": verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine, l’esilio»


Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un lavoro di Christopher Duggan () «L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi "risorgimentali" - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange "rivoluzionarie" per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come "mafioso". Morale che possiamo estrarrre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.)» ( )

Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene chiamato "garantismo" - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato (e si può anche riconoscere che c’è riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in certe pagine di Brancati () la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ()

In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «"avanti che cambia bandierà"! Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa che "cambiasse bandiera", nel senso di un rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando [...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la Kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero.» ()

A voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:

1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di fascismo nel paese per quella "specie di sillogismo" mutuabile dalla "favola (documentatissima)" del giovane studioso di Oxford, Duggan;

2°) in loco l’antidoto al socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto "è già fascismo";

3°) ma il fascismo, come la mafia, "era .. anche altre cose";

4)° "era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti"... che trasmigrano al fascismo "non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici". (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come si è visto, al fascismo):

5°) ma il fascismo "volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti) per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia". Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo degli ex-nazionalisti;

6°) degli ex-nazionalisti il fascismo "se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti"; "ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco". Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;

7°) giunto il fascismo al potere, "ormai sicuro e spavaldo", nel liberarsi delle sue frange "rivoluzionarie" chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti le zolfare di "liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti". Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da considerala inesistente;

8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse nell’agrigentino ("non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione"). A noi risulta qualche elemento di stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto racalmutese, che in piazza osasse andare "cu lu tascu tuortu" (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli "ex-clericali" Nalbone);

9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe stata "strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile". Tesi invero letterariamente suasiva; storicamente dubbia;

10°) vengono quindi "gli anni del consenso dei più": Sciascia ne è convinto sia perchè l’afferma "lo storico" sia perché lo sa "non soltanto per aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo";

11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la "carta del lavoro" aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;

12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.



La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda locale prima del 1925.



Quando il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La Giustizia sociale», di «Riscossa» e di certi «opuscoli editi dal Comitato Regionale della Federazione socialista Ligure» .() Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste dei governi liberali.

A noi pare che la lezione di Ernst Nolte () abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori () del fascismo e i suoi coevi esaltatori(): non sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’ «Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca, permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ... ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è divenuta insostenibile.»

«Non viene addotto alcun motivo di natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre, Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»

«Mussolini non era uomo da sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione. Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.

«Pare che alla fine di ottobre, Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il 15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’ perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento», che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini, ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui, egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si siano assunti il compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del partito socialista. Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale, divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il
motivo per il suo passaggio in campo interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo, immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a decidere in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un uragano di ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un linciaggio morale nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti italiani si schierò dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua parte neppure una minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e insieme quella che avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»

Da qui «prese le mosse una polemica della massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini era adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo gruppo di individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava con se stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci interventisti, sotto la guida di Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria», la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto, Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione dei fatti» [...]».

Ma tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa alla biografia di Mussolini» (op. cit. pag. 226).

Le vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a 33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei "galantuomini" erano riusciti quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo). Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto limitata, anche a credere a quello storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il diabete.» ()

In ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.

Ben diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19 marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato nientemeno che un "sansepolcrista". Il personaggio, sul quale sono disponibili alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a Milano per esercitarvi la professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano e vi morì». () Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel giornaletto locale del maggio 1993 () « ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla fondazione dei fasci di combattimento, dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere "eliminato per diserzione". [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.° 6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il 15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il 24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo (fasc. 17912) nato a Grotte il 2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente, all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti, antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato. Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI. Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il 24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... "comunico che l’avv. Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879 (e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.

«Coniugato con Passoni Maria di Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).»
( )

Fino al 1937, il Pedalino è dunque ancora un "regolare fascista" che può vantare la prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi. Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si erano arruolati nelle "milizie rosse" della guerra di Spagna.

Ma davvero il Pedalino partecipò a quella adunata tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio di combattimento? Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. () Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla di cinquantadue che "giurarono che la lotta che avevano intrapresa - quella sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria", ed altra volta rettifica in cinquantatre (12 febbraio 1925) () Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale, finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata primogenitura politica.

Ma il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono spingerlo in tal senso. Con il Nolte () bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti di sinistra, vuole essere inteso come l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze, almeno sino al congresso di Roma del 1921. () Non è questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si inseriscono i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento del 1920; l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta manovra di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio 1921 (elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i socialisti il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma (7-10 novembre 1921); la trasformazione in partito del "movimento fascista"; la professione mussoliniana della "tendenza repubblica", etc. Dalla sera di San Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921 la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali (salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima della marcia su Roma.»

Ma che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921? A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri (). «Non era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa», afferma lo storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale era in foldo rappresentata dal fatto che esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per l’avvenire».

Sarà stato per la mancanza di quei "gruppi superiori degli industriali"; sarà stato per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria coscienza di ceto egemone).

Nell’agosto del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).

Nulla troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale, di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più vasto, regionale) erano avviati verso uno scialbo tramonto.

Racalmuto, invero, era troppo in periferia, persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le sue Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che «il primo atto concreto dei socialisti unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» () Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio "Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema del pane" (op. cit. pag. 40 e segg.) e con quello del 24 febbraio "ed ora all’opera!" (op. cit. pag. 44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti, anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921 (op. cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro, i quali hanno paura di essere detti "nemici del popolo o del proletariato" e son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti. Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva essere solo «liberali» (op. cit. pag. 118 e segg. Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di "liberale". Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa per doverla qui commentare. Quel blocco "liberale" apriva irrimediabilmente la porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non voleva (op. cit. pag. 766 e segg.). Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.

Cert, a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per ampi stralci.

«Lo spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le agitazioni continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate hanno avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in una parte notevole dell’opinione pubblica una parola: "dittatura". Si parla da molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri, alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana; mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.



«Contro questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di Cavour: la peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel anticamere:; noi non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio degli impotenti e degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]



«Lasciamo pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione pubblica? Degli uomini chiamati negli ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena considerati degni di essere presidenti costituzionali di un consiglio; intorno a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da farli ritenere capaci di governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa quando si parla di un dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?



« [..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male fino a ieri: è il governo per mezzo di decreti-legge.



« [ ...]



« [ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori. Chi può immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via. [...]



«La verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e non si acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana.
Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando gli uomini, discutendo con gli avversar, cercando di convincerli del loro errore e rimanendo anche persuaso dagli avversari della necessità di mutare parzialmente la propria strada. [...]



«Insistiamo oggi su queste considerazioni fondamentali perché le vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come si diceva in principio, di render popolare presso una parte del pubblico l’idea di forme più o meno larvate di governo autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di colpi di stato, di dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito fascista si è affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non impedirà che certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice» immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on. Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito fascista si riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.



«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci correnti possano corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere possano trovare il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento fascista.



«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese. Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la facile arma della dittatura. Attraverso alla discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un parlamento di neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a gabinetti di guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la guerra. Domani, il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in cui entri come uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche altro fascista sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se stesso e dei suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole ai fascisti perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla follia e dalla tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie legali l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo. Sinora sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista. Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro grati.



«Ora si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida della dittatura, via brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno vaglio di giornali avversari ed infidi.



«Ma la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla tirannia ed alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di fedeltà alla costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario di sperimenti politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata; vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali, un consiglio dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti. A che scopo, quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?



«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia e la formazione di uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali, alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali sentono che in politica le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma che ogni più audace novità può essere innestata nel vecchio tronco e suggere dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono contrastare l’avvento della dittatura! [..]»



Einaudi raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla vigilia della "marcia su Roma". Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista. In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva accordato loro «causa vinta» «contro ai casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922 (op.cit. pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si sapesse aliunde della capitolazione del re di fronte agli ultimatum di Mussolini del 28 ottobre. (). Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista? Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III, improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia, ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse neppure percepita.



Attorno al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi finanziaria del settore zolfifero.

Nel settembre del 1922 una commissione degli esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per 120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.

La crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana» al quale il produttore era obbligato di consegnare il minerale estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30 aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo. Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata vendita della nuova produzione. ()

Einaudi era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag. 887) - si arrangi. Può darsi che il modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’ accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma - si obietta - il consorzio fu creato dallo stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci ha messo bocca e non osa metterci bocca, per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi, in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare, temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali. Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»

Quel numero del Corriere della Sera sarà arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore. Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta politica!



Lo storico locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti antifascisti del dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando storicizza le sue personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al circolo degli Amici. Qualche do’ esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.



 

Il biennio 1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava, specie in Sicilia.

Per il pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione; ma è da credere allo stesso Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del 1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai di fronte a questo quesito: creare una nuova legalità o innestare la Rivoluzione nel tronco, che io non ritenevo affatto esausto, della vecchia legalità? Fuori la Costituzione o dentro la Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la Costituzione. Questo vi spiega la composizione del mio primo Ministero, e vi spiega la serie dei successivi atti politici». Il 12 giugno del 1924, in un altro discorso al Senato, Mussolini aveva ancor più puntualmente aveva ben raffigurato questo processo di «normalizzazione costituzionale» del primo fascismo: «Si trattava di riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di rimettere grado a grado ... nell’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini. [...] Chiamai al governo uomini di tutti i partiti. Riapersi il Parlamento, e ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga ... Vi rinunciai. Non avevo proposte leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla strada della legalità .... Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini prescritti dalla legge, indetti i comizi elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila voti ... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi capisaldi fondamentali:

«1° far funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del potere legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini, alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava «Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...». ()

Siamo propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del Valiani e del Ragioneieri () - ben diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale se non ci fosse stato il delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento aventiniano. Ciò - s’intende - tenendo presente che la storia non ammette ipotesi.



Come veniva ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto Matteotti, all’interno del fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole () i seguenti passaggi:

«Mussolini pareva esser riuscito ... «a ristabilire i termini necessari di quella convivenza politica e civile che è più necessaria fra le parti opposte della Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «"mentre nel Paese si era diffusa la sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per iniziarsi [si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on. Matteotti" (IV, 24 giugno al Senato p. 195). Quella sciagurata beffa del giugno, come Egli la chiamerà in Gerarchia, in uno articolo scritto alla fine di ottobre ‘25, "diventa orribile tragedia indipendentemente, anzi contro la volontà degli autori", la quale determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la "sosta di un semestre" (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»

«Perché dal delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter trarre il pretesto per tentare di "annullare tutto quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il Regime che è uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre" (IV, 25 giugno 1924, alla maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la secessione parlamentare cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente eccessiva libertà di parola e di stampa, per chiedere, e per proprio conto iniziare, il processo al regime, alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione ... (‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV, 22 luglio ‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio Nazionale del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui non si nascondeva che la speranza di potere agganciare Mussolini, isolare materialmente e moralmente, disarmandolo, il Fascismo e i Fascisti nel Paese, creare una situazione tale da permettere il ritorno alla paralisi parlamentare, sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse arrivato al potere per la via ordinaria, e questo gli fosse stato dato da un ordine del giorno: come, cioè, se esso potesse considerarsi "alla stregua di tutti i Partiti e considerare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro soluzione ordinaria e regolare" (IV, all’Associazione Costituzionale di Milano, 4 ottobre ‘24, p. 290).»

«Alla quale speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il 29 ottobre 1924, al Popolo di Cremona:

«"Noi siamo qui a dire che .. non siamo dei vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna, e la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato; non a coloro, che ad ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro ridicolo processo, mentre sono gli esclusie i condannati dalla nuova storia" (IV, p. 335): onde la dichiarazionedel 5 dicembre in Senato: ... "Si è detto: voi voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande piazza di Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che riconoscevo i diritti della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà il Re. Se Sua Maestà al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che bisogna andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto militare e obbedirei. Dico Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si tratta di Sua Maestà il Corriere della Sera, allora no" (IV, p. 411).»

«[ ...] "La maggioranza cominciò a perdere alcuni dei suoi elementi in margine: liberali, democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16 dicembre - la seduta di tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai margini abbia toccato il punto estremo" (V, Elogio ai gregari, p. 23)».



Il tentativo parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo «perché dall’altra parte stava il Fascismo "con i suoi ottomila grusppi in ogni angolo d’Italia, con le sue forze politiche, sindacali, amministrative, sempre imponenti": il Fascismo che era stato "percosso, non abbattuto", e a cui il colpo aveva finito per giovare, facendogli perdere "le scorie funeste" (IV, p. 197). [..] "Se il Regime rapidamente potè essere in grado di sferrare il contrattacco - il che avvenne il 3 gennaio di quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali del Fascismo, che non si sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non disperò dell’avvenire" (V, Elementi di Storia, p. 179).»



Non crediamo che fra quelle "masse rurali" era da includere il ceto contadino racalmutese. Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che agrari locali, esercenti delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti, contadini e braccianti ed il piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto ebbero modo di disaffezionarsi ai loro referenti politici sia della Democrazia Sociale di Guarino Amella e Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito democratico-riformista di Enrico La Laggia, cui ultimamente aveva aderito una frangia degli ottimati racalmutesi. Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio dello stato demo-liberale. Non cìera cultura greca a Racalmuto bastevole per apprezzare l’immagine classica. Vi era molto buon senso (ed pressanti interessi del quotidiano) per dissentire dai loro deputati eletti nel listone "nazionale" del 1924 che ora facevano l’«Aventino». In definitiva, nepppure Gramsci mostra di apprezzare questi rappresentanti degli agrari siciliani con i quali, inopinatamente, si trovava in sodalizio.

«Ho visto in faccia la "piccola borghesia " con tutti i suoi tipici caratteri di classe - scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924 commentando i primi lavori dell’Aventino (). - La parte più ributtante di essa era costituita dai popolari e dai riformisti (per non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia andata a male; i più simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga dell’opposizione costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio alla lotta armata e disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti, se questi fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato democratico-sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e contadini) che è duca Colonna di Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e all’appello alle masse proletarie ... ».



Colonna di Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare "il terrore individuale contro il fascismo", a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero disorientarsi non poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi agli ordini dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava associarsi con i bolscevichi del 1921.



A livello locale il problema centrale restava sempre quello dei finanziamenti per lo zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata ancora. I più avvertiti avevano l’odiato senatore Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne del Corriere della Sera. Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato sotto Facta (D.L.n. 202 dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano dunque riporre attese meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie provvidenze del decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi remunerativi dello stock e si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su obbligazioni dell’ente garantite sugli esercizi futuri. «Insomma - scrive Salvatore Lupo - a pagare sarebbe stata la futura produzione». Vi era - è vero - chi come Carlo Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di che ridire su quanto si riusciva a conbiare in provincia di Agrigento e di Caltanissetta. «Io posso spiegarmi che un’accolta di maffiosi ignoranti delle province di Girgenti e di Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo sull’amministrazione del Consorzio [...] ma non posso ammettere che essa potesse allungare i suoi tentacoli fino a Roma o piegasse il Governo alle direttive di quegli organi del Consorzio che subivano la sua azione». () In quel di Racalmuto, ove gli interessi zolfiferi passavano trasversalmente per tutti i ceti sociali, vi fu soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del gennaio 1923 ed iniziava quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà penetrantemente, in profondità, in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non approvare, da rimuovere.



Il delitto Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità civica racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si diede da fare: «Fu lui - scrive il Messana () - che in seguito all’uccisione di Giacomo Matteotti si presentò con la guantiera a raccogliere il contributo per la corona. Entrò nel salone di Salvatore Rizzo, Paparanni, e là Luigi Scimè, giovane figlio del Dr. Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o meno. Contribuirono molti racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il comm. Giuseppe Bartolotta consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè, Pio Messana, Salvatore Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono segnati a dito e perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo dell’esercito, non avanzò più di grado.»

L’emozione per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione, non coinvolgente la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più ampio raggio, ancor oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità storica. Troppi risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di settant’anni, in riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene così rievocata, passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:

«Giacomo Matteotti - leggesi nell’editoriale del n. 1-2 del 1994 di Storia e Civiltà ( ) - segretario del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola - dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [Ad eseguirlo, c’erano] una brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e suoi quattro complici.



«Come sarebbe emerso, dal memoriale Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini non era stato il diretto mandante, vi aveva dato il suo tacito consenso. La commozione popolare fu così profonda, che avrebbe dovuto avere per sbocco, con quale vantaggio per l’Italia è inutile dire, l’immediato tracollo del fascismo. Mancò una forza organizzata a dirigere la rivolta. Non vi fu, da parte della Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del dovere. Al governo venne lasciato il modo, con pochi ritocchi alla sua compagine, di sopravvivere, e al fascismo di consolidarsi, più per l’altrui debolezza che per virtù propria, profittando anzi dell’irrimediabile errore delle opposizioni, di astenersi dalla presenza in Parlamento (l’«Aventino»), che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne deliberare la decadenza. Non mancò la "trahison des clercs", in un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un altro, redatto dal Croce.



«[Il processo venne trasferito] alla lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe] l’arrogante difesa di Farinacci (cui si consentì di dichiarare di assumerla "prima come segretario del partito, e poi come avvocato" e che il processo non si sarebbe fatto "né al regime né al partito"). Esclusa dalla stessa pubblica accusa, la premeditazione ed ammessa la preterintenzionalità, la sentenza, del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli imputati a cinque anni, undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben quattro anni per una opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione preventiva, li rendeva, di fatto, liberi.»



 

L’avvento del fascismo nell’area provinciale di Agrigento.



Nella Sicilia - scrive Salvatore Leone () - in cui il fascismo ebbe "natura ricettiva e non radiante", schematizzando possiamo dire che l’aristocrazia agraria aderì al regime nei tardi anni ‘20, quando si renderà contodella sostanziale convenienza ad appoggiare il nuovo gruppo di potere. La piccola borghesia cittadina darà il suo consenso agli inizi degli anni ‘20 con uno spirito fortemente protestatario nei confronti di quello Stato liberale che l’aveva schiacciata al basso al livello contadino. L’adesione al nuovo regime della media borghesia e degli intellettuali, parecchi dei quali avevano alle spalle una consistente tradizione autonomista, avvenne mediante comportamenti incerti e talora contraddittori che si protrassero fino ai primi anni ‘30».



La provincia di Agrigento (allora Girgenti) rispecchia grosso modo siffatta diversa datazione del consenso al fascismo, anche se è difficile rinvenire intellettuali di spicco che tardino nel concedere il loro accondiscendimento al nuovo regime. Luigi Pirandello aderisce tempestivamente al fascismo; Enrico La Loggia se ne mantenne sempre fuori; ed anche Giovanni Guarino Amella. Francesco Renda vuole come nemico del fascismo padre Michele Sclafani «che diede filo da torcere ai fascisti dell’Agrigentino [..] seppure anche lui non fu alieno dal cercare l’intesa e la collaborazione con essi e addirittura dal proporre soluzioni impossibili, come la costituzione di un grande partito siciliano clerico-fascista». () Per non parlare dei socialisti rimasti coerenti, è difficile inquadrare figure come i fratelli Ambrosini di Favara, o l’avv. Cesare Sessa, o l’avv. Bonfiglio. Fortemente caratterizzata in termini di pronta adesione al fascismo è la figura dell’on. Abisso, che alla fine, però, si guarda bene dall’aderire alla Repubblica sociale di Salò. Analogo discorso potrebbe farsi per il narese on. Riolo.



Francesco Renda ha ben ragione quando dichiara che le origini dei fasci di comattimento di Girgenti (e di quei radi della provincia nel periodo 1919-20) sono «avvolte nella nebbia». () Nell’agrigentino, il fascismo ebbe davvero, dai suoi esordi sino al consolidamento del Regime, "natura ricettiva, e non radiante."



Quando nel 1942, in piena guerra, vari autori - spesso maldestri, o ingenui o disinformati - redassero i «Panorami di realizzazioni del Fascimo» che dovevan essere una ricerca delle primissime origini del fascismo delle varie province, non avevano molta carne al fuoco, per quanto riguarda il Meridione e la Sicilia. L’autore agrigentino - tal Vincenzo Agozzino - deve proprio arrmpicarsi sugli specchi per reperire esaltanti «cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento» ()

«Agrigento sempre più bella e suggestiva», aveva detto Mussolini al popolo di Agrigento il 15 agosto 1937. E’ frase lapidaria che l’Agozzino invoca in premessa. Ci racconta poi del fascio di Agrigento nel 1919. «..La Camera del lavoro di Agrigento, - narra - aderente al Partito Socialista Ufficiale, con rapida azione agganciò le masse delle zone industriali prima e poi delle zone minerarie ed agricole, creando una forte organizzazione che presto si mosse alla conquista delle amministrazioni comunali. Così in Canicattì, Ravanusa e Palma Montechiaro si ebbero maggioranze socialiste e quasi ovunque le minoranze furono rosse. [..] In questi ambienti [..] solo un manipolo di giovanissimi intese il richiamo dei valori spirituali della stirpe fondando nel maggio del 1919 il primo Fascio dell’agrigentino. La riunione avvene in una stanza dell’Albergo Centrale dove si costituisce un nucleo di azione contro il sovversivismo locale di vario colore, dal rosso, al nero e al verde, che assume il nome di Fascio Futurista di Azione [..]

«1920- 21 - 22

«Si forma poi il Fascio di Combattimento che in un secondo tempo viene intitolato al Caduto Pierino Del Piano. Solo il 20 novembre 1920 avviene il riconoscimento ufficiale del Fascio di Combattimento di Agrigento. Viene anche ad Agrigento la propagandista rossa Maria Giudice. Migliaia e migliaia di persone sono adunate all’Arena Bonsignore [..] La propagandista non doveva parlare e non parlò. Aveva appena pronunciato la parola ‘Compagni’ che ebbe inizio una fitta sassaiola [da parte di piccoli bene appostati sulla terrazza di villa Garibaldi]. [Ne seguì] un fuffi fuggi generale, mentre la stessa oratrice veniva colpita al viso. Legnate da orbi furono distribuiti agli uscenti dalla arena, mentre la lotta si spezzettava in singoli episodi dai quali però risultava la coraggiosa fuga dei rossi e il primo assalto alla Camera del lavoro [..] [Si trattava] di pochi squadristi, circa quaranta, che [cominciarono a] sgominare le forse rosse, nere e verdi.

«[Altra aggressione.] La Camera del lavoro viene assalita e devastata, mentre mobilio e carte son dati alle fiamme fra il canto di Giovinezza. Successivamente dopo un comizio tenuto dai combattenti, vien dato un nuovo assalto alla Camera del lavoro con la completa distruzione del mobilio, delle carte e di una bandiera rossa che è poi bruciata in piazza Gallo. La stessa sera avviene un conflitto con un gruppo di guardie regie, risoltosi con una brillante fuga degli agenti di Cagoia [Nitti, n.d.r.]. [..] Altre azioni repressive, di ritorsione e di propaganda vennero eseguite in tutta la provincia: vengono impediti alcuni comizi; venne incendiato il circolo ferroviario; [talora] vengono a dar loro man forte i camerati dei fasci di Porto Empedocle, Canicattì, Palma Montechiaro e Sciacca. Il 24 aprile del 1921 una squadra agrigentina partecipò alle azioni di rappresaglia in Caltanissetta in occasione dell’uccisione di Gigino Gattuso. Alla Marcia di Roma [..] partecipò una squadra, mentre le altre rimasero mobilitate in sede.

«In provincia agirono in periodo ante marcia i fasci di Canicattì, Licata, Palma Montechiaro, Porto Empedocle, Ravanusa, Raffadali, Naro, Sambuca, Grotte, Bivona. Il fascio di Canicattì venne riconosciuto il 4 dicembre 1920; il Fascio di Licata, il 1° febbraio 1921; quello di Montechiaro fu fondato il 1° marzo 1921; quello di Porto Empedocle fu riconosciuto nel marzo 1921; quello di Ravanusa, il 15 ottobre 1920. Altri fasci venero fondati nella seconda metà del 1922 e fra questi Raffadali, Sambuca di Sicilia, Naro, Grotte e Bivona. Naro soprattutto, fondatosi il fascio nel luglio del 1922 e riconosciuto il 18 ottobre successivo, si segnalò in vivaci interventi locali contro i sovversivi, che culminarono con la devastazione della sezione socialista.»

Il volume dei "Panorami" riporta a questo punto un’altro squarcio del discorso che Mussolini pronunciò "dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo - 5 maggio 1924": "C’è forse una pietra del Carso, pietra di quelle doline dove non abbiano sofferto e dove il popolo è diventato grande, c’è forse zolla di tutto l’arco di trincee che andava dallo Stelvio al mare che non sia stata bagnata da stille di purissimo sangue siciliano?»

Prima della marcia su Roma, il quadro del fascismo agrigentino è rado e sfilacciato. Iprefetti del luogo non vedevano di buon occchio il nuovo movimento politico; lo tolleravano appena e se potevano lo disperdevano. Rivelatrice è questa missiva al Ministero degli Interni del sostituto del prefetto Vergara del 20 giugno 1922 (): «Significo che al 31 maggio 1922 esistevano in questa provincia le seguenti sezioni del Fascio di combattimento: Girgenti con 50 aderenti; Canicattì 20; Ravanusa 80; Sciacca 80. A Palma Montechiaro la sezione è stata sciolta, ma esistono tuttavia una diecina di simpatizzanti del partito fascista. La sezione di Naro, segnalata con mia nota dell’11 maggio 1921 n. 225, è composta da ex-combattenti e non fascisti. Anche la sezione di Porto Empedocle è stata sciolta».

 

Con la marcia su Roma, l’atteggiamento dei prefetti ovviamente cambia, anche perché giungono prefetti di evidente ispirazione fascista. Più che con il Ministro dell’Interno Benito Mussolini, i rapporti (improntantati alla più deferente fiducia) sono con il sottosegretario Finzi (almeno sino alla caduta di costui per il delitto Matteotti). In questa congiuntura fu prefetto di Agrigento il dott. Ernesto Reale. Già vice prefetto, fu nominato nella carica il 16 marzo 1923 ed il 22 ottobre 1924 lasciò Agrigento per la prefettura di Potenza. Era nato a Sassari il 30 giugno 1875 (morirà a Roma il 30/12/1947). Era dunque un uomo di 58 anni, ma evidentemente aveva fiutato il nuovo corso e vi si era prontamente adattato. Non è da credergli quanfo afferma: «Escludo nel modo più formale che io abbia imposto la costituzione di Fasci nei comuni dove non esistono sotto minaccia diretta o indiretta di scioglimento dei Consigli Comunali o pressioni di qualsiasi altro genere.» () Era una risposta ad un perentorio telegramma dell’11 luglio 1923, a firma Mussolini, che reclamava seccamente una giustificazione. « S.E. Cesarò - diceva il testo - comunicami che V.S. avrebbe invitato costituire fasci dove non esistono sotto minaccia scioglimento consiglio comunale. Voglia V.S. notiziarmi in propoisto.»

La puntualizzazione del prefetto è abile come emerge dal seguente "rapporto dimostrativo":

«
Dal marzo, quando assunsi in questa provincia le funzioni di Prefetto, ad oggi furono istituiti cinque nuove sezioni del P.N.F. nei seguenti comuni:

  1. Castrofilippo - dove l’Amministrazione comunale era già sciolta ed il Comune retto da un R.Commissario;

  2. S. Giovanni Gemini - Amministrazione Comunale Popolare;

  3. Alessandria della Rocca - Amministrazione Comunale Riformista;

  4. Raffadali - Amministrazione Comunale Socialista;

  5. Montaperto - Frazione di Girgenti - Amministrazione Comunale Popolare.




Per la costituzione di Tali Sezioni non ci fu affatto bisogno di intimidazioni o minaccie né da parte mia né da parte della Federazione Provinciale. Fu l’effetto di una attiva propaganda Fascista.



Faccio osservare a V.E. che fra i Comuni sudetti non ve n’è alcuno amministrato da Democratici-Sociali. Sto esaminando personalmente la posizione del Comune di Raffadali dove àavvi il feudo di S.E. il Ministro Colonna Duca di Cesarò, il quale intende porre la Sua candidatura in quel Mandamento, e mi riservo fare le proposte del caso.



Restano tuttora da costituirsi le sezioni del P.N.F. nei comuni seguenti:


Aragona

Montallegro

Villafranca

Comitini

S. Angelo Muxaro

Calamonaci

Favara

Cianciana

Burgio

Lampedusa

Lucca Sicula

 



 

Ad eccezione degli ultimi due, dove l’Amministrazione Comunale è Riformista e Popolare, e di Lampedusa, lontana, sperduta nel mare Africano, tutti gli altri comuni sono amministrati da scritti alla Democrazia Sociale. E per questi, non solo non fu fatta da me alcuna pressione per la costituzione di Sezioni del P.N.F., ma dovetti mostrarmi a ciò risolutamente contrario almeno per ora. Invero quei Comuni - specialmente i maggiori - Favara e Aragona - sono talmente infestati dalla mafia, che è necessario procedere ad un’accurata chiarificazione e selezione, per evitare che nelle costituende Sezioni Fasciste venga ad annidarsi la forma più subdola della delinquenza Isolana.



Nei detti Comuni pertanto, che come ho detto, sono amministrati da Demo-Sociali, nonché esercitare pressioni, è stato invece necessario a me ed al Fiduciario Provinciale resistere alle vive e ripetute pressioni che ci vennero fatte per la costituzione di Sezioni Fasciste da elementi di altri partiti troppo interessati e troppo malfidi.



Si addiverrà certamente a costituire anche lì Sezioni Fasciste, ma solo quando il lavoro - delicatissimo - di selezione sarà ultimato. E le Sezioni dovranno essere formate da elementi puri e sicuri. E senza bisogno di minaccie di scioglimenti di Consigli Comunali.



A proposito dei quali debbo fare presente alla E.V. che gli scioglimenti da me proposti furono sempre effettuati per ragioni di ordine pubblico o per disordini amministrativi e riguardano i seguenti Comuni:

Canicattì - Palma Montechiaro - Ravanusa - già amministrati da socialisti ufficiali;

Sambuca Zabut - Campobello di Licata - S. Margherita Belice (quest’ultimo in corso), già amministrati da riformisti (La Loggiani).



Faccio osservare che nessuno di questi comuni è amministrato da democratici Sociali.



Concludendo:

  1. Nessuno dei Consigli Comunali sciolti dal marzo in poi era amministrato da Democratici Sociali.

  2. Non solo non ho fatto minaccie per la costituzione di Sezioni Fasciste nei Comuni dove mancano (quasi tutti amministrati da Demo-Sociali) ma ho dovuto e devo tuttora resistere, per le ragioni suesposte, a pressioni che vengono fatte, anche da elementi Demo-Sociali, per la costituzione di talune Sezioni stesse».




Nel successivo luglio il prefetto Reale sembra più un federale fascista che un dipendente del Ministero degli Interni. Ecco quanto scrive il 10 luglio 1923:

«Alla vigilia della riunione della Giunta Esecutiva del P.N.F. credo doveroso inoltrare il seguente rapporto riassuntivo sull’andamento del Fascismo in questa Provincia.



Dal Marzo in poi si è verificato un considerevole sviluppo ed una notevole chiarificazione.



Sviluppo
: in quanto sono numericamente cresciuti gli iscritti alle Sezioni dei Fasci (4568) e dei Sindacati (4382). L’entrata nel Fascismo dell’on. Abisso ed una parziale fusione, da me caldamente patrocinata, delle forze migliori degli ex-combattenti, hanno contribuito a tale sviluppo. Occorrerà lavorare ancora per assorbire nei Fasci almeno un altro migliaio di ex-combattenti che ora sono fuori perché non possono e non credono di distaccarsi da altri partiti.



Chiarificazione
: in quanto, dopo mie vive insistenze, si è proceduto alla epurazione di talune sezioni, mediante eliminazione di elementi indegni.



In proposito debbo rilevare di avere dovuto superare non poche resistenze da parte del Fiduciario Provinciale e della Federazione Provinciale che non vedevano con eccessiva simpatia l’ingerenza del Prefetto in questo campo.



Questo processo di epurazione si è accentuato maggiormente nei riguardi della M.V. i cui iscritti avevano raggiunto il numero di 1800, mentre ora sono ridotti a poco meno di 1500. Ma è un bene.



Attualmente la situazione, tenuto conto delle difficoltà ambientali, e dei personalismi da superare, e specialmente dei numerosi elementi malfidi infiltratisi nelle sezioni, e che debbono man mano eliminarsi, può dirsi abbastanza soddisfacente.



Però la mia opera assidua di sgretolamento delle camarille locali, dei vecchi ed agguerriti partiti, e specialmente del partito riformista (La Loggia), di quelle Social-Comunista e popolare - opera che ha portato allo scioglimento di sette Amministrazioni comunali, e che intendo continuare - dovrebbe essere più attivamente fiancheggiata dalle Autorità Fasciste di questa Provincia. Dovrebbe soprattutto essere ripresa l’azione di propaganda fascista che ora languisce in una stasi apatica.



E’ d’uopo riconoscere che il Fiduciario Provinciale attuale Ing. Narciso Dima, se pure non eccessivamente energico, ha finora fatto il possibile per lo sviluppo del Fascismo, sacrificandosi anche finanziariamente, contribuendo del proprio, trascurando la sua professione. Le sezioni Fasciste non gli dànno che un aiuto finanziario scarsissimo.



Occorre, è anzi urgente, che l’On. Giunta Esecutiva stabilisca un congruo aiuto finanziario.



Nessuna preparazione ha potuto fare la Federazione per le lezioni Provinciali appunto per mancanza assoluta di propaganda. Occorrerebbe istituire nuove sezioni nei Comuni dove ancora mancano (18 su 41)), ma occorrono mezzi sopraluoghi locali ecc., mezzi che mancano.



Se si dovessero fare le elezioni provinciali ora, alla scadenza dei poteri della Commissione Reale, sarebbe una
débacle dal punto di vista fascista. Mentre gli altri partiti, soprattutto i Democratici sociali e i popolari, si vanno organizzando e preparando alla lotta, che ritengono imminente, e dispongono di mezzi finanziari cospicui, i Fasci poco o niente hanno potuto fare. Occorre, ripeto, finanziarli.



Ho detto
débacle se i fasci dovessero lottare da soli, chiudendosi nella più assoluta intransigenza nei riguardi degli altri partiti.



Ma occorre esaminare la situazione nei riguardi della Democrazia Sociale: situazione che in questa Provincia è estremamente delicata.



La Democrazia Sociale si mantiene qui in piede di guerra pronta ad una lotta, come pronta ad un accordo coi Fasci, per una eventuale collaborazione.



Senonché qui si presenta una difficoltà.



I Deputati Demo-Sociali sono gli On. Pancamo e Guarino-Amella; binomio indissolubile. L’On. Pancamo è elemento puro, inattacabile. L’ideale sarebbe poter scindere il binomio, e accordare i Fasci cogli elementi migliori della Democrazia Sociale che fanno capo all’On. Pancamo. Ma questo è impossibile.



Non poca parte degli elementi che fanno parte all’On. Guarino-Amella - che ha largo seguito - sono bacati dalla mafia che sino a poco tempo addietro ha imperato in questa provincia, e che ora è smontata, disorientata. Effetto dei provvedimenti energici di P.S.- Accordarsi cogli elementi demosociali che fanno capo all’On. Guarino Amella, vorrebbe dire accordarsi anche in certo modo con la mafia. E allora si ricadrebbe nel vizio delle elezioni precedenti che si facevano appunto con l’aiuto della mafia.



D’altra parte il partito Guarino Amella vuol dire S.E. Di Cesarò, del quale il primo è il più fido e autorevole luogotenente in questa Provincia.



I fasci risentono di questa situazione.



Il Fiduciario Provinciale Ing. Dima, sembra contrario a qualsiasi accordo coi Democratici Sociali. I suoi avversari - e ne ha anche in seno ai Fasci - dicono che ciò dipende dalla sua origine La Loggiana.



Comunque questa situazione non può risolversi se non si conoscono in modo preciso e in tempo utile le direttive del Governo al riguardo.



Concludo:

  1. Occorre finanziare la Federazione Provinciale perché eserciti una più attiva azione di propaganda;

  2. Occorre procedere alla nomina del Fiduciario Provinciale. L’attuale Ing. Dima, in conseguenza della ritardata conferma ha perduto un po’ di autorità e prestigio. Urge quindi o confermarlo o nominarne uno nuovo, che possa esplicare con autorità e energia l’azione Fascista, e fiancheggiare la mia azione politica e amministrativa.»




 

Il prefetto di Agrigento è, peraltro, quello che è in grado di fornire ragguagli precisi e dettagliati sulla "situazione del Fascismo in Provincia di Girgenti al 27 ottobre 1923". Val la pena di riportare integralmente la sua relazione al ministero:

«In mancanza di fascismo puro, limitato a pochissimi elementi, i Fasci della Provincia di Girgenti sono costituiti necessariamente da elementi tratti da altri partiti politici.



Il partito politico finora predominante in questa Provincia era il partito Demosociale, imperniato sui Deputati Grarino Amella e Pancamo, (agli ordini di S.E. Di Cesarò) e Abisso. Col passaggio di quest’ultimo al Fascismo, avenuto nell’Aprile, questo partito cominciò a sgretolarsi. Gli elementi migliori passarono anch’essi, in buon numero al Fascismo. E se è vero che il partito personale Abisso si va sempre più rafforzando, è pur vero che il Fascismo sta prendendo uno sviluppo sempre più grande e più saldo - anche perché questi elementi ex-demosociali sono assai più sinceri degli altri.



In sostanza non deve credersi che sia il partito Abisso che si faccia sgabello del Fascismo per rafforzarsi, ma è il Fascismo che acquista realmente forza e compattezza dai numerosissimi elementi che staccatisi come ho detto dalla Democrazia Sociale facente capo all’On. Guarino, Pancamo e Di Cesarò, si sono appoggiati all’on. Abisso.



Al Ministero è noto come io abbia visto con una certa diffidenza il passaggio dell’On. Abisso al Fascismo.



E’ per me doveroso ora dopo diversi mesi di vigile esperienza porre in rilievo la disciplina e l’ossequio non solo apparente, ma effettivo alle Direttive del Duce, dell’On. Abisso verso il quale ora convergono le forze migliori della Provincia, forze che Egli dirige e orienta risolutamente verso il Fascismo.



Il Fiduciario Provinciale, d’intesa con lui ha potuto sistemare la posizione prima equivoca, ora chiara di parecchie sezioni Fasciste, ha potuto costituirne delle nuove, e rafforzarne delle altre.



Non è quindi vero che il Fascismo non abbia presa in Provincia di Girgenti. Questo forse poteva dirsi alcuni mesi addietro, quando si verificò una stasi - da me segnalata - che avrebbe dovuto preludere ad una grave crisi, dovuta sopratutto all’azione allora scarsamente efficace del Fiduciario Provinciale, il quale era rimasto per oltre due mesi quasi privo di autorità. Causa il ritardo della sua conferma. Ma la crisi fu superata e la minaccia di essa, in certo modo, fu anche benefica. L’attività del P.F. fu da me e dall’On. Abisso galvanizzata; molte opposizioni più o meno interessate furono smontate. Il susseguirsi di importanti avvenimenti patriottici, che riunivano in un solo patriottico sentimento importanti forze Fasciste, valsero a guadagnare anche le simpatie della grande massa della popolazione la quale prima diffidente, segue ora con vivissima simpatia, gli spettacoli sempre bellissimi di giovinezza di forza di disciplina che le adunate Fasciste hanno dato modo di apprestare. A questo aggiungasi la continua, dirò quasi sistematica, valorizzazione dei veri combattenti, mutilati e decorati di Guerra, ai quali spesso per mio personale intervento si sono aperti i Fasci, portandovi una cospicua forza morale.



Concludendo la situazione nei riguardi del Fascismo è molto migliorata in confronto al passato, e non credo di peccare di soverchio ottimismo, se affermo che essa migliorerà ancora di più e più si chiarificherà.



Personalità cospicue di cui non si può mettere in dubbio l’alto patriottismo e che hanno sempre combattuto palesemente il sovversivismo mascherato da riformismo e da popolarismo, come l’On. La Lumia ex Deputato assai molto stimato nella importante zona di Licata, e l’On. Parlapiano Vella, altro ex Deputato, nella zona di Ribera e Bivona, hanno sinceramente aderito al Fascismo.



Degli altri partiti anche in conseguenza dell’azione da me svolta; il Socialista è ormai morto; il Riformista è ridotto ai minimi termini, il popolare è in continua dissoluzione.



Gravi incidenti tra Fascisti, per l’urto di tendenze diverse, in questa Provincia non sono mai avvenuti. Incidenti non gravi, sono stati risolti tempestivamente, anche pel mio intervento diretto, senza strascichi di ire e di odi.



La situazione, quindi, può dirsi veramente buona, specie se si raffronta con quella di altre Provincie Siciliane. E diventerà migliore se si potrà continuare nell’attuale indirizzo, se questo non verrà modificato per l’intervento, per ora non necessario, di elementi che, per quanto autorevolissimi, non sarebbero forse in grado di valutare, per la scarsa conoscenza di questo ambiente, le condizioni specialissime di esso in rapporto ai partiti ed alle persone. Unisco un prospetto riguardante i sindoli Comuni della Provincia.»



 

La relazione - un vero e proprio resoconto di un propagandista del fascismo - è comunque perspicua per chiarezza, esaustività, penetrazione dell’ambiente socio-politico. Il Reale doveva avere entrature preferenziali a Roma - anche in ambito della direzione del P.F. - se può accennare, in conclusione, alla eventualità - che poi si verificherà appieno - della venuta ad Agrigento di "elementi autorevolissimi". E saranno costoro a cambiare il volto del fascismo agrigentino.



Frattanto, valga il prospetto del prefetto Reale, ai nostri fini molto significativo perché stranamento vi è omesso totalmente il paese di Racalmuto che in questa ricerca è il nostro oggetto di studio.



«Provincia di Girgenti



1°) - Comuni nei quali i
Fasci hanno una posizione dominante: (su un totale di 41)
Casteltermini - Siculiana - Porto Empedocle - Sciacca - Caltabellotta - Santa Margherita - Sambuca - Menfi - Montevago - Calamonaci - Campobello di Licata - Camastra - Ribera - Licata - Naro - Canicattì (n.° 16)


2°) -Comuni nei quali esistono dei Fasci, sui quali non è ancora possibile fare sicuro assegnamento, ma la cui situazione migliora giornalmente:
Cammarata - S. Giovanni Gemini - Castrofilippo - Grotte - Bivona - S. Stefano Quisquina - Villafranca - Palma Montechiaro - Ravanusa - Realmonte - Montallegro - Alessandria Rocca - Favara - Cattolica - S. Biagio Platani - Raffadali (n.° 17:
in effetti sono sedici: il dattilografo omise di battere forse Racalmuto per mero errore. Se aggiungiamo questo paese torna il totale di n. 41 centri dell’agrigentino, n. d.r.)

3°) - Comuni dove il Fascismo non ha ancora presa, specialmente perché combattuto dalla mafia:
Comitini - Burgio - Lucca Sicula - Cianciana - S. Angelo - Aragona A Lampedusa, data la grande distanza, e la difficoltà delle comunicazioni marittime (una volta alla settimana) nulla si è potuto ancora fare.

4°) - Girgenti - Situazione non buona, ma discreta, a motivo della esistenza degli Stati Maggiori - attivissimi - dei partiti Riformista (che fa capo all’On. La Loggia), Popolare (che fa capo al prosindaco Gr. Uff. Sclafani e all’On. Fronda), e dei residui del partito Demo-Sociale (On. Pancamo e Guarino). I primi due, specialmente difendono ostinatamente le proprie posizioni.


Fra giorni si verificherà la crisi nell’Amministrazione Comunale Popolare-Riformista.

Molto vi sarà da guadagnare pel Fascismo se il R. Commissario che verrà prescelto saprà lavorare bene e risanare moralmente e finaziariamente il Comune.»



 

Il prefetto Reale, alla fine dell’anno, diviene un vero e proprio fiduciario del fascismo. Ecco, a dimostrazione, quanto scrive all’On. Avv. Francesco Giunta - Segretario Generale del Partito Naz. Fascista - in data 11 dicembre 1923:



«Situazione del Fascismo nella Provincia di Girgenti



Ottemperando allo incarico da V.S. On. Affidatomi a Siracusa di vigilare e seguire da vicino il Fascismo in questa Provincia, pregiomi riferire quanto segue:

E’ continuata più attiva che mai la ingerenza del Grande Uff. Sacerdote Sclafani, capo del Partito Popolare nell’organizzazione del fascismo Provinciale.



Alla lettera originale a firma sac. Sclafani in data 25 ottobre, da me mostratale a Siracusa, con cui egli offriva l’incarico di costituire un Fascio in Comitini (dove non era stato possibile finora la sua costituzione trattandosi di un comune infestato dalla mafia) ad un tale Dr. Bongiorno, congiunto di un capo della mafia locale, si sono aggiunti altri gravi elementi.



E’ infatti in mio potere una dichiarazione del Maggiore Cav. Orestano R. Commissario di Palma, con cui attesta che il Sac. Sclafani inviò una lettera analoga al Sac. Zimmili per richiedere "il nome di persona fidata al P.P. da far passare subito al Fascismo e da incaricare della ricostituzione di quel Fascio".



E’ pure in mio potere un rapporto del Colonnello Sindico, R. Commissario di Raffadali, col quale mi informa che a costituire il fascio di Joppolo "fu incaricato certo Onorio Sacco,
alter ego del Sac. Camilleri, capo del P.P. che egli dirige secondo gli intendimenti di Padre Sclafani".



E non più tardi di ieri ho potuto constatare
de visu perché mi trovavo sul posto, un abboccamento tra il Sac. Sclafani e il Sindaco di Porto Empedocle. Da informazioni certe mi risulta che lo Sclafani d’accordo col detto Sindaco intende di riorganizzare quella Sezione Fascista, per asservirla ai suoi fini.



E non posso passare sotto silenzio un episodio che non conferì certo serietà all’azione del Fiduciario nella riorganizzazione del Fascio di Sciacca.



Giova premettere che egli anziché seguire le direttive opportunamente dategli da V.S. On., di "lasciare in disparte gli elementi dei vecchi partiti" incaricò della costituzione del fascio di Sciacca, fra gli altri l’avv. Giuseppe Imbornone di oltre 60 anni che mai era stato Fascista, bensì era in quest’ultimo periodo, riformista tanto che aveva nello scorso anno partecipato ad un banchetto in onore dell’On. La Loggia.



A prescindere dal fatto che l’Imbornone era stato candidato politico bocciato per due volte, la sua scelta era inopportuna perché
cognato e suocero rispettivamente di Corrado Turano e vella Gaetano, l’uno detenuto nelle Carceri di Sciacca, come capo di una vasta associazione a delinquere; l’altro espluso dal Fascismo perché affiliato alla maffia consenziente il Fiduciario Provinciale.



L’Avv. Calogero Guarino, capitano degli Arditi, decorato e ferito, essendosi dimesso dalla Commissione di reggenza per protestare contro l’infiltrazione popolare, voluta dagli altri due membri riceveva da Girgenti un telegramma a firma Dima con cui si accettavano le sue dimissioni, e quasi simultaneamente ne riceveva un altro da Roma, a firma dello stesso Ing. Dima che gli riconfermava lo incarico.



Tali provvedimenti contraddittorii, oggetto di salaci commenti, valsero a dimostrare che a Girgenti qualcuno sostituisce il Dima, e dà importanti disposizioni senza neanche interpellarlo. Inutile ripetere chi possa essere questo qualcuno.



E così a Sciacca in luogo della Sezione sorta nel 1920 esiste ora un piccolo Fascio trucco composto prevalentemente di popolari.



A Menfi, altro centro dove i combattenti e i mutilati, organizzati sin dal 1919, si erano trasfusi nel Fascismo, fu incaricato della reggenza, insieme ad altre figure insignificanti, il Gr. Uff. Bivona, di 75 anni, il quale nelle elezioni del 1919 distribuì i voti di cui disponeva fra la lista di Nitti e quella di Don Sturzo; nel 1921 li diede alla lista Verderame, voti annullati dalla Giunta delle Elezioni per corruzione. Nel 1922, il Bivona fu successivamente riformista (La Loggiano) e popolare (Sturziano). Ora è a capo del Fascismo di Menfi, dove fece nominare Segretario Politico Berto Ravedà, intimo congiunto del Segretario Provinciale del P.P. Sturziano Avv. Molinari.



A Licata il Fiduciario Provinciale dopo avere tolto l’incarico al signor Ettore Sapio amico e parente dell’On. Verderame lo affidò ad una Commissione di Reggenza alla quale pure lo tolse per riaffidarlo al Sapio.



Ciò, nel giro di pochi giorni, ha arrecato grave pregiudizio al partito anche perché è notorio che l’Ing. Dima aveva chiesto al Generale Starace, l’espulsione del Sapio per indegnità.



La Sezione Fascista di Licata è ora una succursale del partito riformista, che, è bene si sappia, in questa Provincia fa causa comune coi popolari.



Analoghe repentine metamorfosi si verificarono a Bambuca di Sicilia.



In taluni Comuni della Provincia, refrattari al Fascismo perché completamente asserviti alla maffia (Cianciana - Burgio - Aragona - Comitini - Favara) non era stato possibile - anche perché io mi ero opposto risolutamente - costituire dei Fasci. In queste ultime settimane, all’unico scopo di procurarsi segretari politici disposti a votare per la sua rielezione il Fiduciario fece sorgere per incanto delle sezioni Fasciste, composte di elementi apertamente devoti all’On. La Loggia, o al partito popolare.



Il Fiduciario Provinciale, sapendo della mia opposizione ad un Fascismo così impuro ed equivoco, non mi avvertì neppure della costituzione di questi Fasci.



Le elezioni compiute per la ricostituzione dei direttorii, tranne che a Girgenti nella prima votazione durante la mia assenza, sono procedute ordinate, senza dar luogo a incidenti o proteste. Specialmente la seconda votazione a Girgenti si svolse calmissima.



I risultati finora furono i seguenti:

1°) A Girgenti riuscì la lista dei vecchi fascisti con carattere di opposizione al Fiduciario Provinciale.

2°) A Canicattì riuscì una lista ostile al Fiduciario Provinciale composta quasi tutta di ex Ufficiali combattenti e decorati con a capo il valoroso Generale Gangitano più volte decorato al valore e ferito.

3°) A Porto Empedocle riuscì una lista degli elementi uscenti, fascisti di vecchia data, contrarii al Fiduciario.



Vi furono anche elezioni in comuni di minore importanza: Casteltermini, Bivona, Siculiana e Palma con risultati varî . In complesso però si è creata una situazione artificiosa specie in queste ultime settimane per effetto della sovrapposizione degli elementi popolari, riformisti, alla gerarchia Fascista.



I maggiorenti demosociali si mantengono per lo più inattivi nella incertezza dell’atteggiamento da assumere di Fronte al Governo Fascista. Una organizzazione veramente forte e seria del Fascismo, ne potrebbe diminuire di molto l’efficienza. Le Sezioni di vecchia data, in gran parte ostili al Fiduciario Prov. Intendono affermarsi sul nome del predetto Generale Gangitano, come Segretario Politico Provinciale, il quale ha sempre combattuto apertamente la Democrazia Sociale. Per evitare questo pericolo si minacciano nuovi scioglimenti da parte della Federazione Provinciale.



Per conto mio, ho ritenuto conveniente mantenermi del tutto estraneo al movimento fascista di quest’ultima fase. E ho pur dato disposizioni affinché i funzionari dipendenti si astenessero da qualsiasi ingerenza.



Tali direttive sono state rigorasamente osservate.



Date le circostanze di fatto sopra riferite e delle quali potrei occorrendo dare la documentazione, ritengo di dover confermare la proposta che ebbi l’onore di farLe a Siracusa e cioé lo scioglimento della Federazione Provinciale, con la nomina di una Commissione di Reggenza che proceda ad una rigorosa revisione delle Sezioni ed il rinvio delle elezioni.



In linea subordinata ritengo che si debba negare il riconoscimento alle Sezioni di Comitini, Favara, Cianciana, Burgio, Bivona, Joppolo e Aragona.



Infine per la ricostituzione delel Sezioni di Licata, Sciacca, Menfi e Sambuca, dove le condizioni sono favorevoli allo sviluppo di un forte e sincero Fascismo, propongo che vengano rigorasamente seguite le direttive opportunamente dalla S.V. On. Date coll’ordine del giorno emesso a Siracisa, affidandone la riorganizzazione a elementi estranei all’ambiente, e non asserviti ai vecchi partiti locali.»






La peculiarità di Agrigento di un fiduciario a capo della federazione fascista provincila si trascinò sino al 26 gennaio 1924. Sotto tale data venne incaricata di regge il fascismo agrigentino una Commissione Straordinaria, come aveva proposto il prefetto Reale in via principale. Tale Commissione si resse sino al 17 aprile 1924, quando venne eletto tal Girolamo Galatioto, che durò sino al 4 aprile 1925. Dopo abbiamo un certo Paladino Raffaele, che a diverso titolo, fu capo del fascismo agrigentino sino al 13 settembre 1925. Quindi è il tempo del celeberrimo Achille Starace che fu commissario straordinario del federazione di Agrigento dal 13 settembre 1925 al 17 maggio 1926. Il 17 maggio 1926 subentra l’On. Angelo Abisso: esso è il federale di Agrigento sino al 29 dicembre 1927.

Questi sono i suoi successori:

  1. D’Andrea Calogero dal 29 dic. 1929 sino al 14 gennaio 1931;

  2. Basile Carlo Emanuele dal 14 genn. 1931 al 17 aprile 1931 (Commissario Straordinario);

  3. Morello Vincenzo dal 17 aprile 1931 all’ 11 giugno1932;

  4. Puccetti Corrado dall’11 giugno 1932 al 6 febbraio 1933;

  5. Gaetani Alfonso dal 6 febbraio 1933 al 1° aprile 1937;

  6. Guggino Emerico dal 1° aprile 1937 al 4 aprile 1940;

  7. Di Marsciano Ermanno dal 4 aprile 1940 al 3 maggio 1943;


Candrilli Manlio dal 13 maggio 1943 sino all’entrata degli americani. ()


Ufficialmente, la Federazione fu costituita il 15 novembre 1922. I personaggi che si sono succeduti alla sua guida non sono tutti di grosso risalto. Alcuni dati biografici aiutano a comprendere l’altalenare di personalità a vario spessore che si registra nella direzione del fascismo agrigentino.



Dima Narciso

Laurea in ingegneria - assicuratore. Iscritto ai fasci sin dal 1919. Fiduciario della Federazione dal 15 novembre 1922. Agente generale dell’INA per Girgenti.

Galatioto Gerolamo

nato a Ravanusa (Ag.) il 10 agosto 1894. Partecipò alla guerra del 1915-18 con il grado di tenente di fanteria. Ebbe due medaglie di bronzo.



Paladino Raffaele

nato a Floridia (Sr) il 10 gennaio 1884. Laurea in lettere, insegnante. Figlio di Esattore Comunale. Socialista rivoluzionario; interventista; nazionalista. Iscritto al Fascio nel 1920. Espulso dal PNF nel marzo 1926 «quale elemento disgregatore», fu riammesso nel maggio successivo. Non aderì alla RSI.



Starace Achille

«"Buttatelo giù per le scale", fu l’urlo di Mussolini che scacciava definitivamente Starace dal’anticamera della Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia. Il "duce" lo aveva privato di ogni carica e di ogni onore in breve tempo. Nel ‘39 Starace dovette dimettersi da segretario del partito fascista e nel ‘41 da capo di stato maggiore della milizia: la sua stella era tramontata per sempre. Cominciarono per lui gli anni delle umiliazioni e della misera che non ebbero più termine fino al giorno della sua esecuzione in Piazzale Loreto a Milano, il 29 aprile 1945.»



«La sua vicenda personale non si chiude in se stessa, maè il riverbero di un costume che andava mutando, la sua biografia è anche il racconto della vita esemplare d’un gerarca fascista assai potente, di una sacra autorità del Ventennio. E’ uno specchio in cui si riflettevano gli italiani del Littorio irreggimentati in una coreografia alienante di cui Starace era regista discusso e irriso ma ubbidito.



«La condanna del fascismo è nelle cose di tutti i giorni e negli eventi della storia. Rovesci e sciagure furono addebitati al regista, come conseguenza d’un’apparente organizzazione del partito che non poteva reggere alla prova del fuoco. Di lui si fece un capro espiatorio. Misero tutto sul suo conto. Lo distrussero, e forse lo meritava. Mussolini lo scacciò, e forse aveva buone ragioni per farlo. L’ingranaggio ormai lo stritolava e nessuno poteva riabilitarlo. Cercò di risollevarsi da solo, con una morte dignitosa davanti al plotone d’esecuzione.»
()



 

Nel "carteggio riservato" della Segreteria particolare del Duce, custodito nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ben tre voluminosi fascicoli riservati () sono destinati allo Starace. Vi è di tutto. Mussolini lo seguiva in tuttto. Dalle cose pruriginose (pederastia, tradimenti tra fratelli, orge) a quelle invereconde (le celebri avventure galanti) ai latrocinii, alle concussioni. La parentesi agrigentina di Starace vi emerge per gli aspetti più inquietanti: la sua amicizia con Abisso fu molto interessata. Non è provato, ma niente smentisce la miserevole vicenda dei tanti soldi spillati all’on. La Lumia di Licata dietro promessa di una resurrezione politica.

Un anonimo faceva al "duce" in data 28/5/1932 questa delazione ()

«A S.E. Benito Mussolini - Ministro degli Interni, Roma - Dopo un lavoro faticoso e pericoloso di spionaggio, ho potuto appurare i dati di fatto che vengo ad esporVi, nell’interesse generale del Fascismo e particolare della Provincia di Agrigento.



«Da parecchi anni l’On.le La Lomia, politicamente di Licata, corrisponde la somma di lire cincquantamila annue all’On.le Starace.- Detti pagamenti, che ad oggi ammontano a £. 350.000 sono stati fatti direttamente con vaglia bancari girati dallo stesso all’attuale Segretario del Partito, oppure a mezzo del Senatore Abisso, difensore della delinquenza siciliana. Per detta somma l’On. Starace, fin dalla sua gestione commissariale nella provincia di Agrigento, si è impegnato di difendere l’associazione Abisso-La Lomia fino alle estreme conseguenze. In conseguenza di questo fatto l’On. Starace ha inviato come Questore di Agrigento il Comm. Papa, che appena arrivato in sede si è premurato di chiamare al telefono il Comm. Lo Dico, ex Preside della Provincia di Agrigento, al quale comunicava un discorso cifrato, in seguito al quale, dopo pochi giorni, avveniva nei pressi di Porto Empedocle .. nel villino campestre del detto Lo Dico , una riunione segreta alla quale partecipavano, il Questore, Lo Dico, il senatore Abisso, il dott. Di Leo Calogero sanitario del comune di Sciacca e fratello del Segretario Federale Agrigentino
in pectore, il dottore Venezia medico chirurgo dentista di Sciacca, fervente propagandista repubblicano, l’nsegnante Castellana Alfonso di Lucca Sicula, il cav. Liborio Friscia di Ribera, il Capo Manipolo Friscia Gaetano di Ribera, il Marturana Salvatore di Agrigento, alcuni rappresentanti dell’On.le La Lomia ed altri Abissiani della Provincia.



«Scopo della riunione fu di impartire disposizioni perché fosse fatto molto rumore in Provincia per la promessa dell’On. Starace del rovesciamento imminente della situazione politica provinciale.



«In seguito a tale riunione infatti in vari paesi della Provincia furono sguinzagliati degli agenti provocatori che tentarono dappertutto di sollevare incidenti. A prova della veridicità della promessa dell’On. Starace in quella riunione l’On.le Abisso riferì per comunicazione avuta dall’On. Starace che il ritardo del provvedimento di rovesciamento si doveva al fatto che presso la magistratura di Sciacca giaceva una pratica per la riesumazione di un processo di associazione a delinquere per stabilire se il padre del futuro Segretario Federale di Agrigento fosse stato a suo tempo coinvolto in detta associazione. Al che il Questore Papa prese la parola assicurando ‘in ogni caso la Segreteria Federale sarà data a persona che pur sembrando neutrale tuttavia sarà al completo servizio del Senatore Abisso’».



Nella permanenza ad Agrigento, l’On. Starace ebbe modo di incontrarsi con due uomini politici: l’on. Abisso e l’on. Cucco; del primo ne consolidò la fortuna, del secondo ne stabilì l’umiliante radiazione dai ranghi (almeno sino al 1939). La lotta alla mafia non c’entra affatto. Diversamente la sorte dei due politici siciliani doveva esse parallella, identica essendo la radice mafiosa.

L’on. Abisso fu tanto camerata dell’On. Starace da seguirlo in scandalose frequentazioni di donnine romane. Le spie di Mussolini riferivano. Ma senza effetto.



Abisso Angelo

E’ figura centrale dell’agone politico agrigentino, almeno dal 1913 sino al 1933 quando il nobile Gaetani diviene federale di Agrigento. Equilibrismi polticici, repentine conversioni, tradimenti, trasformismo determinano un effetto alone sul personaggio, che resta equicoco, indefinibile, moralmente opaco. Ciò trascende l’angusta economia di questa ricerca per il doveroso approfondimento.

Al nutrito partito di fiancheggiatori - sprezzantemente chiamati abissisiani - si contrappone quello dei denigratori ad oltranza. Nelle carte di archivio abbondano le denunzie, le calunnie, le insinuazioni. L’on. Abisso finisce nell’osservatorio della Segreteria particolare del Duce che apre a suo carico un folto fascicolo informativo. () Il potente amico Starace riesce, in ogni caso, a parare i fulmini mussoliniani. La stella politica di Abisso potè appannarsi alla fine, ma non si oscurò per tutta la durata del fascismo.

D’Andrea Calogero

Nato a Campobello di Licata (Ag) il 30 maggio 1877, si laureò in giurisprudenza. Fu avvocato ed insegnante. Partecipò alla guerra del 1915-18 col grado di capitano, poi maggiore di fanteria. Iscrittosi al fascio il 20 novembre 1922, fu preside dell’Istituto Tecnico di Agrigento. Rivestì anche la carica di Vice Preside dell’Amministrazione Provinciale di Agrigento. Non aderì alla R.S.I.



Basile Carlo Emanuele



nato a Milano il 21 ottobre 1885, morì a Stresa il 1° novembre 1972. Barone plurilaureato (giurisprudenza e lettere), giornalista e scrittore, era figlio di un prefetto. Fu nominato senatore. E’ autore di romazi e novelle. Aderì alla R.S.I. e fu quindi prefetto di Genova dal 25 ottobre 1943 al 26 giugno 1944. Ebbe l’incarico di sottosegretario alle FF.AA dal 27 giugno 1944. Venne ad Agrigento come commissario straordinario di questa federazione per consentire una svolta in termini di affrancamento dalla influenza dell’On. Abisso. Vi restò dal 14 gennaio 1931 fino al 17 aprile 1931. Passò le consegne alla scialba figura di Vincenzo Morello di cui sappiamo che fu fascista fin dal 1920. L’11 giugno 1932 viene sostituito da Corrado Puccetti: da questo momento la vicenda della federazione agrigentina esula dai limiti della presente investigazione storica.



Quale giudizio può formularsi sul primo quindicennio del fascismo agrigentino (1921-1926)? Ci pare illuminante, pur nel suo settarismo e nella passionalità per il ribollire delle passioni del tempo, la sguente anonima delazione che si rinviene nella carte ministeriali romane ():

«La storia politica della provincia di Girgenti, [
Girgenti cambia denominazione in Agrigento durante il fascismo, nel 1927, con il r.d. 16 giugno 1927, n.° 1143, n.d.r.] specie nell’ultimo quindicennio, rappresenta quanto di più deplorevole possa esservi nella vita pubblica italiana. Sparitò l’on. Nicolò Gallo, che dal 1884 ne fu quasi ininterrottamente il dominatore, il suo posto venne assunto dall’on. Domenico De Michele. Costui, ch’era stato del Gallo il luogotenente fedele non aveva di lui né l’ingegno né la dottrina né l’ascendente, ma seppe mantenersi al potere col favore di S.E. Giolitti, del quale fu seguace fedelissimo, e creando attorno a sé una rete di interessi e di interessati. Contro questa oligarchia, bollata col nome di cosca, insorsero le forze nuove della Provincia ch’ebbero come principale loro esponente Giovanni Guarino Amella. Sono ancora ricordate le polemiche, spesso virulente, dell’organo dell’opposizione "IL MOSCONE", nel quale al De Michele ed ai suoi seguaci si fecero le accuse più atroci e più infamanti.



«In tali consizioni di cose venne l’allargamento del suffragio e vennero le elezioni del 1913, nelle quali le forze dell’opposizione riuscirono vittoriose e furono eletti deputati Giovanni Grarino Amella, Antonino Parlapiano Vella e Angelo Abisso. Costui, fino a pochi mesi prima semplice segratario al Ministero dei LL. PP., aveva compreso l’enorme capovolgimento che il suffragio universale avrebbe prodotto nelle imminenti elezioni e , dimessosi, si era lanciato a capofitto nella lotta, aggregandosi alle file dell’opposizione, ma proclamandosi "individualista e simpatizzante per i socialisti (discorso politico del 1913 a casa Gerardi)"



«Ma l’opposizione, divenuta maggioranza ed impadronitasi del potere politico ed amministrativo in provincia, non credette di meglio che di .... seguire i metodi dei precedenti padroni, anzi di perfezionare e incrementare tali metodi. Il nepotismo più sfacciato, il favoritismo più aperto furono regola di vita per essa, e poichédopo pochissimo tempo scoppiava la guerra, se ne trasse motivo per inaugurare in provincia il più sconfinato dispotismo. Messo da parte l’on. Antonino Parlapiano, che per temperamento e per tradizione non era adatto a seguire in tutto e per tutto i metodi della nuova cricca, questa s’imperniò sul binomio Guarino-Abisso, i quali durante la guerra furono i dominatori incontrastati di tutti gli organi amministrativi, statali e parastatali della provincia. Non solo l’amministrazione provinciale propriamente detta e quella dei varii comuni passò nelle loro mani ed in quelle delle loro creature; non solo per avere più incontrastato dominiol’on. Abisso ad es. Tenne a Sciacca, malgrado il Consiglio comunale - pu da lui eletto - non fosse sciolto, un Commissario prefettizio di sua scelta per ben 5 anni; ma Consorzio granario, Commissione esoneri, Consiglio d’amministrazione del Banco di Sicilia etc. etc. Commissioni militari di requisizione furono accentrati nelle loro mani direttamente o a mezzo di persone parenti od amiche. Quello che fu fatto al Consorzio granario, gli scandali delle varie Commissioni di requisizione, nelle quali era magna pars il comm. Lo Dico odierno alter ego dell’on. Abisso in quel di Girgenti, non hanno bisogno di illustrazione, perché ancora se ne occupano le cronache dei tribunali con i varii processi, ancora non chiusi, di truffe, falsi e malversazioni a carico dello Stato, commesse tutte sotto le grandi ali dei due grandi patroni della provincia. E mentre i due facevano a Roma professione d’interventismo, e l’on. Abisso indossava la divisa di tenente del genio ma, sebbene appena trentenne, non andava al fronte pur facendosi bello dell’amicizia di Valentino Coda (dove mai l’ebbe a conoscere resta sempre un mistero!); a Girgenti e Palermo si cooperavani per imboscare il maggior numero di gente, fratelli, cognati e cugini; per esonerare come agricoltori barbieri e murifabbri, e per difendere avanti ai tribunali militari il maggior numero di disertori o di falsificatori di esoneri. La cronaca del tribunale militare di Palermo informi. Si cominciava così da parte dell’on. Abisso a creare quella leggenda d’irresistibile avvocato penalista, che, stabilitosi pieno ed intero il suo dominio politico, gli doveva assicurare il monopolio delle Assisie di Sciacca e Girgenti e la fama di "detentore delle chiavi del carcere".



Appartiene a questo periodo la persecuzione inflitta dall’on. Abisso, attraverso a tre inchieste tutte quante negative, ad un capitano - Gravina - reo di aver preso in contravvenzione lo zio di lui Friscia per vendita illecita di grano requisito; contravvenzione sfumata per il tempestivo intervento del Commissario dei Consumi che svincolava "a posteriori" il grano venduto. Ed appartengono a questo periodo i contorcimenti politici dell’Abisso e la smargiassata della "messa in stato di accusa dell’on. Giolitti per altro tradimento" da lui chiesta a S.E. Salandra e da questi qualificata come una semplice "sciocchezza" del deputato di Sciacca. Ciò che però non impediva, all’on. Abisso, al feroce interventista del ‘15, di divenire, appena Giolitti tornò al potere, di divenire un giolittiano ferventissimo, anzi il luogotenente generale dell’uomo di Dronero in quelle famigerate elezioni del 1921, e di chiedere e di ottenere da lui, alla vigilia dell’elezioni istesse, la nomina a commendatore motu proprio, affissa poi subito alle cantonate di Sciacca e provincia col relativo telegramma di S.E. Giolitti.



«Venne il dopoguerra e venne di moda il bolscevismo. Ed allora Guarino ed Abisso, ma questi più del primo, entrambi però sempre in combutta tra di loro, provvidero a dare alla provincia di Girgenti il saggio migliore e maggiore del’opera bolscevica. Le occupazioni delle terre di Ribera e Menfi, ma sopratutto quelle di Ribera, col tentato sequestro del Duca di Bivona e con i vandalismi conseguenziali, furono opera diretta, ispirata, suggerita e talvolta predisposta dall’on. Abisso. Il quale arrivò persino ad ottenere che l’autorità politica impedisse l’esecuzione delle sentenze del magistrato (come per il rilascio del feudo Scifitelli disposto con sentenza della Corte di appello, ed impedito dal Prefetto di Girgenti!). Né si dica che ciò egli abbia fatto per venire in soccorso ai combattenti, perché di tali occupazioni poco o nulla si sono giovati gli autentici combattenti e le terre, quando non sono state retrocesse ai proprietari per inadempienza delle pseude cooperative da lui create, sono andate a finire in mano a gente che la guerra non vide neanche da lontano. Esempio la lottizzazione dell’ex feudo Nadore in quel di Sciacca, dell’ex feudo Fiore e Bertolino di Menfi; e, uno per tutti, l’esperienza disastrosa della celebre Cesare Battisti di Ribera.



Intanto alla Camera il binomio, per sorreggersi, seguiva una linea di condotta veramente meravigliosa. Data l’instabilità dei governi, i due, per trovarsi a cavallo, non votavano assieme se non quando l’esito della votazione era sicuro; ma quando si trattava di votazione incerta i due demo-sociali (giacché Abisso aveva finito per rinunciare al suo individualismo e seguire l’amico Guarino anche nel partito di S.E. Di Cesarò) o si dividevano votando uno contra ed uno a favore, oppure, mentre l’uno si squagliava, l’altro votava a favore. Così i due poterono rimanere ministeriali con tutti i ministeri ed essere fautori e sostenitori di quei Governi imbelli del passato, contro di cui così spesso e volentieri, con riconoscenza ammirevole, ora si scaglia ogni tanto il fascista on. Abisso. Il quale una sola volta dovette passare per oppositore, quando cioè l’on. Nitti, accortosi ch’egli erasi prudentemente squagliato in una votazione non volle accettare le congratulazioni che s’era affrettato a fargli dopo conosciuto l’esito favorevole del voto! E ministeriali furono persino col ministero Fatta [
Facta, n.d.r.] del quale uno dei due avrebbe volentieri fatto parte se i popolari non si fossero opposti facendo a loro preferire il La Loggia.



«Intanto il movimento fascista andava montando, e lo Abisso, sempre tempista e previdente, disponeva che nei varii comuni della provincia sorgessero delle sezioni fasciste composte da persone a sé fide, ma di seconda mano; gente di scarto e sfiduciata al doppio scopo d’impedire che la gente per bene potesse accostarsi e far proprio il movimento e di poterlo sconfessare, e buttare a mare gli esponenti stessi senza sua compromissione, ove il movimento fosse fallito. Né appena avvenuta la marcia su Roma egli permise che quelle sezioni s’ingrossassero sia con elementi proprii, sia permettendo l’ingresso di altri elementi estranei alla cricca, non essendo sicuro che il regime potesse consolidarsi. Ma quando capì che esso ormai durava, allora fece il gran passo, si separò dal Guarino ed entrò nel fascismo con tutti i suoi adepti.



«Da quel giorno è stata sua cura costante non solo di sfruttare nel modo migliore, a vantaggio proprio dei parenti e dei gregari, la sua posizione dominante; ma sopratutto quella di allontanare dal fascismo tutti coloro che gli potessero dare ombra costringendo l’elemento migliore della provincia o a fare del dissidentismo o a starsene a casa o a passare addirittura all’antifascismo. Del resto non potrebbe essere diversamente. Infatti in provincia il fascismo non esiste, come del resto non esiste antifascismo: non c’è che dell’abissinismo e dell’antiabissinismo. Anche coloro che odiano il fascio possono esservi ammessi purché passino sotto le forche caudine dell’omaggio e dedizione ad Abisso ed ai suoi luogotenenti. Di esempii se ne possono citare a migliaia, ma noi citeremo i più gravi ed importanti.



«Sciolto il Consiglio comunale di S. Stefano Quisquina, poiché i veri fascisti di colà non erano da lui benvisti, egli volle che il Fascio fosse rappresentato dai sigg. Vincenzo Ippolito e Con osservanza., cioè dagli autentici maffiosi del luogo. E costoro ebbero l’amministrazione comunale e furono i padroni del paese finché, passati sinceramente o no poco importa, al fascismo i socialisti del luogo e denunciato in alto loco i precedenti degli amministratori scelti dallo Abisso, costui fu costretto di abbandonarli al loro destino.



 

«Così in Alessandria della Rocca non ha esitato a silurare i vecchi fascisti del luogo, rei di poca arrendevolezza a lui, per accogliere e mettere al loro posto un suo ex-compagno demo-sociale reduce dal comitato aventiniano-matteottiano di Girgenti.



«Né basta. Abbattuto il La Loggia egli non ha esitato a fare rivolgere invito ai partigiani di quello perché passassero nelle sue file, e bastò che il dott. Traina di S. Margherita, anifascista nell’anima, si ponesse a sua personale discrezione, perché egli senz’altro gli lasciasse il dominio del paese abbandonando i suoi vecchi compagni, che rappresentano il minor numero.



«Quello però che dimostra viemmeglio quale sia lo spirito che anima lo Abisso, è dimostrato dal suo accordo col’ora defunto on. De Michele. Costui, dopo la caduta, era passato nelle file del La Loggia di cui fu fino ad ieri il seguace più ostinato, anche perché i Baiamonte suoi oppositori nel paese natìo di Burgio erano passati al fascismo.



«Caduto il La Loggia, il De Michele fece degli approcci per passare al fascismo, e poiché i Baiamonte avevano mostrato di avere delle preferenze per il prof. Noto Sardegna, inviso allo Abisso perché a lui superiore per intelligenza, cultura e ... tutt’altro, questi non esitò a dimenticare il passato e ad ammettere il De Michele nel direttorio provinciale dietro promessa di appoggiare, contro Noto, certo Ciaccio un vero Carneade di Sambuca, come possibile candidato del Collegio di Bivona. Ed i Baiamonte furono cacciati in galera!



«Del resto che lo Abisso faccia del fascismo a suo uso e consumo lo dimostra un fatto per quanto piccolo e materiale: a Sciacca, sua cittadella, si sono spese dal Comune fior di quattrini per creare un lussuoso circolo ANGELO ABISSO, che tutti i fascisti, sopratutto se impiegati, debbono frequentare; mentre per la Sezione del Fascio esiste una stanzetta angusta che sta quasi sempre serrata.



«Non parliamo poi dei criteri amministrativi seguiti al Comune di Sciacca. Due Consigli comunali, sebbene da lui eletti e composti tutti suoi gregari, si sono dovuti dimettere rei soltanto di aver voluto qualche volta ribellarsi agli ordini dello zio Salvatore Friscia, un ex-rappresentante che ha monopolizzato, durante la guerra attraverso al monopolio dei permessi d’esportazione, ed oggi attraverso altri sistemi, il commercio locale, e che crede il Comune essere cosa sua personale. Ed oggi si propone come podestà un impiegato di prefettura, mentre non mancano nel partito gente idonea alla carica, per il timore, confessato, che queste possano avere, dopo nominate, delle velleità d’indipendenza agli ordini delll Abisso e del suo luogotenente!



«Del resto lo stesso sistema si segue negli altri comuni. A Menfi alter ego dell’Abisso, è certo Volpe, un contadino semi analfabeta, ma esecutore fedelissimo degli ordini ch’egli gli dà e suo rappresentante ... anche negli affari professionali; a Girgenti domina incontrastato in suo nome il Comm. Lo Dico, reduce dei fasti delle Commissioni di requisizione, e che pur essendo un semplice procuratore legale NON laureato, divide con lo Abisso i maggiori trionfi in Corte d’Assisie.



«Perché poi la piaga maggiore che il dominio di quest’uomo ha portato in provincia, è la difesa assunta della peggiore delinquenza, l’esautoramento completo della giustizia.
[...] [Anonimo del 14.10.1926, n.d.r.]»



 

Lo spaccato è senza dubbio tutto in negativo e va accettato per quel che vale: ma qualche luce la riverbera sul quel periodo. Uno dei suoi limiti più vistosi è quello di limitare lo sguardo critico alla sola parte occidentale di Agrigento. Per la restante parte disponiamo di altre carte riservate, anonime ma informate, che ben si prestano a fornirci altri spunti critici.

L’anonimo proviene da Naro ed è datato: 15 settembre 1931. Qui viene presa di mira la fazione dell’On. Riolo.



«Eccellenza -
esordisce () - In nome di sedicimila coscienze, ancora non vendute né aggiogate al carro del banditismo locale, si ha l’onore di farVi conoscere quanto segue:



«La Sezione del P.N.F. venne istituita in Naro nel Novembre del 1922 da pochi giovani animosi, di pura fede nostra, i quali per riuscire SOLAMENTE AD ACCAMPARSI tra le rive di questa mefitica palude politica dovettero sfidare tutte le ire e scavalcare tutti gli ostacoli, opposti al loro sano e santo entusiasmo dagli altri Partiti locali, in modo specialissimo da quella vera associazione a delinquere che fu il così detto partito della democrazia social massonica.



«L’avvento del Fascismo al potere avrebbe dovuto segnare la scomparsa di quella più vera e maggiore piaga di Egitto, ma le prepotenze, le intimidazioni, le corruzioni, l’intrigo fecero sì che la "COSCA" provinciale (facente capo allora all’on. Abisso, capo riconosciuto di tutta la mala vita urbana e rurale) si mantenesse a galla e così nella prima elezione politica fascista (1924) l’avv. Salvatore Riolo Specchi venne compreso, tra lo stupore e la indignazione di tutti, nella lista Nazionale.



«Conseguenze dirette della candidatura e quindi della elezione di questo oscuro satellite abissino furono:

1°) = L’ingresso di tutti i demo social massonici nella sezione del Partito Fascista di Naro;

2°) = La caduta del direttorio locale e la sostituzione di tutti i membri di questo, per imposizione del Deputato, con elementi di pura marca Riolana;

3°) = L’automatico allontanamento dalle cariche e anche dalle fila del Partito dei fascisti della prima ora.



«Da quel giorno sino ad oggi tutto l’immenso ritmo fecondo di idee e di opere del regime è stato costretto a vivacchiare, in servitù sterile e semi-boccaccesca, tra una parete e l’altra dell’allegra dimora della signora TITA RINALDI RIOLO la quale ha voluto dividere col marito, assiduamente, l’onere e l’onore di governare le sorti e la storia nuove del paese, ad esclusivo beneficio della sua famiglia naturale e politica. Da allora sino ad oggi, senza uno scarto, senza rossori, con la medesima flemma vuota e sorniona, tutte le cariche del Partito, distribuite patriotticamente in famiglia sono sate occupate nel modo seguente:

AVV. COMM. SALVATORE RIOLO SPECCHI - Classe 1876

Deputato alla Camera. Capo, di nome se non di fatto del P. Fascista locale. Ex imboscato e protettore di imboscati ed autolesionisti. Presidente del Consorzio granario durante la guerra, a Girgenti. Capo della massoneria paesana e gran fratello di quella provinciale. Attualmente, si dice, è dormiente. Venne incluso nella lista Nazionale con questa esilarante menzogna: "PER ESSERSI COSTANTEMENTE OCCUPATO DEI PROBLEMI DELL’AGRICOLTURA" = mentre qui è notorio che egli di agricoltura non conosce neppure l’ortica. Tipo vano e vuoto ma ambiziosissimo sarebbe capace, pur di conservare la medaglietta, di accodarsi anche a Don Sturzo, com’ebbe un giorno cinicamente a dichiarare nella farmacia Bellomo: per sincerarsi chiedere informazioni a costui e ad un reverendo Polizzi, se questi due individui sono disposti a servire la verità. Espertissimo nell’intrigo e nelle pastette sa conciliare le opposte tendenze e le sfrenate ingordigie di parenti, di amici e di protetti, da sette anni tutti patriotticamente a posto con stipendi da generalissimi chi in Naro chi nel Capoluogo.



«Nel breve giro di tre anni fece regalare a questo povero Municipio la bellezza di VENTIDUE Commissari.



«Nel 1919, 20 e 21, imperversando il terrore rosso non mise mai il naso fuori né permise che l’avessero messo fuori i trenta satelliti della sua fortuna, lietissimi di poterlo imitare in questa bisogna col medesimo entusiasmo col quale lo avevano imitato e talvolta superato in viltà durante la guerra.



«Nel 1922 tradì e strozzo l’amministrazione comunale dei combattenti dei quali, fin dal 1925, perseguita con ogni mezzo, compresa la maldicenza in pubblico, la locale sezione.



«Dal 1925 sino al dicembre 1930 assassinò politicamente, moralmente, finanziariamente il Podestà Cammilleri Sillitti prima e costrinse dopo a dimettersi da Commissario Prefettizio, successo ad un povero Re Travicello, il proprio cugino Comm. Totò Riolo Tomasi, reo dinanzi al pubblico d’essere un povero idiota, sebbene onesto e fattivo come il Cammilleri Sillitti. Lui che sa appena leggere e scrivere, ha anche l’incarico di Sovrintendente ai Monumenti di Naro, ma i rari illustri visitatori che capitano qui sono costretti a chiedersi esterrefatti se Naro è in Italia o non, tali e tante sono le prove materiali delle rapine, delle manomissioni, della incuria che hanno sofferto e continuano a soffrire tutti i monumenti e le reliquie del nostro splendore antico.



«E fianlmente, tanto per conchiudere alla svelta si fa noto che non sapendo fare altro, da sette anni ha sfruttato tutto il suo genio nel far conferire croci e commende ad individui i quali rappresentano in Naro o fuori il fiore della feccia, della incapacità, dell’strionismo, dell’antipatriottismo e segnatamente dell’ANTIFASCISMO, come si verrà mano a mano dimostrando. [
Si butta quindi fango sulle seguenti persone: Avv. Ignazio Riolo, classe 1887; avv. Giuseppe Riolo, classe 189; avv. Carlo Riolo, classe 1892; Comm. Salvatore Riolo Tomasi; Girolamo Rinaldi, classe 1889; Ciro Rinaldi, classe 1887; Luigi Rinaldi, classe 1885; Rosario Specchi-Rinaldi; Cav. Uff. Antonio Castelli, classe 1874; Cav. Antonio Castelli; Antonio Gueli Alletti, classe 1873; Alfonso Borsellino, classe 1884; Antonino Costa di anni 37; Cav. Onofrio Nicolaci, commissario di P.S.- Il corrosivo astio e la vigliaccheria dell’anonimato rendono quelle note ributtanti e - ai nostri fini - per nulla significative. Ci asteniamo pertanto dal riportarle, n.d.r.] [...]



« Eccellenza - Sono due anni giusti che noi meditiamo se valeva proprio la pena di stendere le paginette di questa deplorevole storia locale, tutt’altro che completa specialemnte nei riguardi dei maggiori esponenti del P.N.F. di qui i quali, se hanno la tessera e tutti gli onori del Partito, assolutamente non ne possiedono lo spirito e meno ne incarnano il dovere e la pericolosa e miracolosa missione.



«A Naro, Eccellenza, il Fascismo è un mito e il feudo è tutto. La conseguenza, disastrosa, è la seguente:

contro una banda di senzapatria, composta tra ladroni e lacchè, da un centinaio d’individui c’è tutta intera una cittadinanza la quale vuole da sette anni e spera indarno che la luce di verità, la febbre di bene, la protezione augusta del regime, divengano una realtà viva e feconda anche per essa; oggi, nel momento in cui scriviamo, è il collasso generale con brevissime parentesi d’insurrezione spirituale sorda e furiosa, di cui qualche cosa devono pur sapere nel capoluogo. Arriveranno queste povere pagine fino al Tribunale dell’E.V.? E se arriveranno avrete Voi il tempo e la bontà di degnarle di uno sguardo?



«Ecco degli interrogativi che spezzano l’anima e, perché no?, anche l’entusiasmo.



«Ma se Voi non potete e non volete leggere la storia del falso Fascismo riolano di naro, degnateVi almeno dedicare cinque soli minuti a queste ultime pagine il cui contenuto dedichiamo alla Vostra serena Giustizia.

1

«A Naro esiste una banca dal pomposo titolo "BANCA COMMERCIALE INDUSTRIALE AGRICOLA". Ne è Presidente il Comm. Benedetto Gaetani, COGNATO DELL’ON. RIOLO, ex massone, falso fascista anch’egli, falso patriotta e nullità assoluta sotto qualsiasi punto di vista. Gran parte dei debitori di quella Banca sono tutti della banda Riolo parecchi dei quali sono anche debitori morosi da anni. Da circa 20 anni questa Banca non fa bilancio e non dà conto a nessuno dei suoi numerosi azionisti.



«Di questi non parla e non ricorre nessuno perché sta sempre pronta per chi osa la minaccia delle manette e del confino.

2



«A Naro esiste una Congregazione della Carità. Anche questo Istituto, per quanto concerne la sua attività, sino al 30 maggio 1928, è un groviglio di infamie irregolarità e di ladrerie. L’ex cassiere, un certo Costa Gaetano, padre del perito Comunale Antonino Costa (del quale ci occuperemo all’ultimo) deve dare una grossa somma CIRCA LIRE SEDICIMILA e non vuole sentirne. Per informazioni sottoporre ad inchiesta l’attuale Presidente dott. Salvatore Aronica e se questi non vuole parlare metterlo a confronto per esempio con qualche magistrato locale, con un Sac, Polizzi, con un farmacista Ferracani ecc.

3



«A Camastra (ora frazione di Naro) tre anni addietro veniva costruita la strada interna principale. Questa è costata centinaia di migliaia di lire ma è divenuta praticamente impraticabile come la famosa pedonale di Naro. C’è stata in questi ultimi tempi e proprio per la strada una sollevazione dei cittadini di quella sventuratissima borgata, ben presto domata con minacce di deportazione e di altro contro i più cospicui capi di quel movimento, volutamente presentato come antifascista (il solito argomento dei tirannelli che vogliono godere in pace il frutto delle pubbliche rapine).



«Autore e direttore tecnico di quell’opera è stato precisamente il perito comunale di Naro ing. Antonino Costa, Il collaudo è avvenuto di sera e dopo il ritorno qui del deputato Riolo, tra motti e sarcasmi del pubblico che assisteva, Quest’anno le autorità provinciali tanto per offrire una offa di soddisfazione alla opinione pubblica nervosissima, hanno fatto eseguire sul posto una inchiesta la quale ha avuto la fine di tutte le inchieste della provincia feudo dei deputati Abisso, Riolo e Con osservanza.



«Il pubblico di Naro e di Camastra non ha più fiducia né ad uomini né a promesse. E questo è forse il suo torto e il suo debole, del quale profittano sfacciatamente gli altri, i cosidetti padroni per continuare ...

4



«Il deputato Riolo dice di avere la protezione di eminenti Gerarchi del Partito, vanta l’appoggio incondizionato del sig. Prefetto Miglio, si dichiara invulnerabile da parte del Segretario Provinciale Cav. Morello. TUTTO CIO’ IN PUBBLICO E SENZA RETICENZE.

5



«A Naro il gagliardetto è nome e cosa sconosciutissima. Non si vede in nessuna ricorrenza. Così per volere espresso di questo Segretario Politico il quale si scusa dicendo che non ha fascisti ai quali affidarlo.

6



«A Naro il cav. Borsellino Alfonso, individuo privo sin’anche di licenza elementare, veniva proposto ripetute volte alle Gerarchie provinciali, sino a 15 giorni addietro, come podestà di Naro dal Deputato Riolo.



«Ultima fresca, gloriosa azione di lui è stato lo stupro d’una povera servetta, costretta dalla miseria a lasciarsi tacitare con poche centinaia di lire. La servetta è minorenne.



«Il pubblico sa e pensa, mastica e dice innominabili cose contro l’eroe e i compagni che lo salvarono. Chi ci guadagna non è certo il Fascismo.

7



«A Naro, dopo l’ecatombe di podestà e di commissari voluta dal deputato Riolo, nel corso di quest’anno è venuto con funzioni di Commissario Prefettizio il Cav. Steno Pelatti di Bologna, austera figura di fascista e di amministratore. Così, per lui da quel mese abbiamo finalmente visto, conosciuto e toccato la febbre, la forza, l’idea del regime. Ma abbiamo ragione di ritenere che il Commissario Prefettizio non sia stato mai e oggi meno di prima di gradimento dell’onesto deputato, che egli cominci ad essere stufo e nauseato della persecuzione lenta, tenace, ipocrita di questo becchino di Funzionari patriotti e puliti e che quanto prima se va via lui (Pelatti) si debba annegare nella solita fradicia baraonda tanto cara a fruttifera alla truppa del nostro illuminato onorevole.



«Soggiungeremo che il Pelatti in pochi mesi di permanenza al Municipio è riuscito a cattivarsi talmente la stima e la simpatia del pubblico (riuscendo così anche a mettere nella voluta luce il viso legale e romano del Fascismo) che un grosso milionario, famoso per la sua tirchieria, gli ha spontaneamente messo a disposizione una forte somma acciocché ne faccia uso a suo gradimento senza darne conto a chicchessia!

8



«Da anni era stata raccolta una ingentissima somma in America e qui per la erezione di un Monumento ai Caduti.



«La funzione di cassiere venne assunta, manco a dirlo, dal solito

Cav. Dott. Antonio Gueli Alletti - V. Segretario Politico.



«Il Monumento è lì che aspetta d’essere inaugurato, tanta è stata la patriottica sollecitudine in merito del generalissimo Riolo e consorti, Mai denari, nelle mani nette e pure di questo caro oculista di vili, si sono come sempre patriotticamente squagliati e non è possibile ottenere i conti. Lo stesso generalissimo Riolo convenne talvolta in pubblico dicendo che effettivamente il costo di quell’opera e delle altre sussidiarie risulta enorme. Noi diciamo che per molto meno parecchia gente di qui e di altrove è andata a gustare la muffa e l’onta delle patrie galere.



«Pertanto denunziamo il cav. Antonio Gueli Alletti, cugino del deputato Riolo, per furto continuato di fondi pubblici in danno del Comitato Pro-Monumento e forse per disubbidienza agli ordini superiori di presentare conti di gestione puliti e leggibili. Così facendo riteniamo di aver messo posto la nostra coscienza di cittadini e di fascisti, e sentiamo di avere servito la giusta esigenza di un pubblico che ha dato quasi 200 mila lire e da anni non può sapere come queste siano andate a finire.



«Soggiungiamo che su questo terreno non scenderà mai il desideratissimo oblìo, unico scampo liberatore cui crede di affidare la propria vita e l’nore questo fortunato frutto di carabiniere.



«Quindicimila cittadini vaglieranno sempre sino a tanto che il ladro camuffato fascista renda ai nostri morti l’oro versato con sangue e lacrime di tutti. Insistiamo: tutto qui sarà possibile, ma giammai permetteremo che vampiri sfrontati come il Gueli Alletti e C/i, attacchino le loro immondissime labbra anche sui ricordi dei nostri DUECENTOQUARANTA EROI CADUTI PER LA PATRIA.

9



«Il 13 Settembre u.s. Domenica, in seguito ad accordi presi tra tutte le Autorità a proposito della Festa dell’Uva, tutta la cittadinanza volle manifestare apertamente la sua simpatia e la gioia verso il regime incarnato nel Cav. Pelatti (Commissario Prefettizio) distribuendo ed affissando manifesti di colore inneggianti al Duce al Prefetto, al Cav. Morello, al Commissario Pelatti, al Fascismo. Per questa manifestazione, descritta come un delitto presso la Prefettura di Agrigento, parecchi fascisti della prima ora, rei di avervi preso parte col solito entusiasmo, furono diffidati dalla Questura di Agrigento. Vi preghiamo in modo specialissimo di fare indagare su questo fatto.



«Naro, 15 Settembre dell’anno IX° E.F.

I Cittadini»



 

* * *



L’agone elettorale agrigentino aveva visto come protagononisti i seguenti deputati:

Elezioni del 16 novembre 1919

:

Partito liberale democratico:

Abisso Angelo (voti di lista 23.516) voti personali 8.825 + 65;

Guarino Giovanni ( " " " " ) " " 14.267 + 62;

Pancamo Antonino ( " " " " ) " " 6.109 + 153.

(Non eletti: Brucculeri Giuseppe, La Lumia Ignazio e Scaduto Francesco)

Partito Popolare Italiano

Fronda Eugenio (voti di lista 12.206) voti personali 5.115 + 72.

(Non eletti: Arone Pietro, Micciché Giovanni, Montalbano Domenico, Messina Giuseppe, Parlapiano Vella Antonino)



Partito Democratico



La Loggia Enrico (voti di lista 19.383) voti personali 5.925 + 0;

Vecchio Verderame Gaetano Arturo.

(Non eletti: Vaccaro Michelangelo, Caramazza Ignazio, Picone Gaspare Ambrogio).



Partito Socialista Ufficiale

Voti 6.813: nessun eletto.

(Non eletti: Arancio Antonino, Cammarata Giuseppe, Friscia Michele, Giuliana Francesco, Sessa Cesare (voti n.° 2.554), Vernocchi Olindo).



elezioni del 25 maggio 1921

Partito Democratico Liberale

Verderame Gaetano arturo (voti 12.402)

Alleanza Democratica Sociale

Pasqualino Vassallo Rosario (voti 112.623)

Colajanni Napoleone

Lo Piano Agostino

Abisso Angelo (voti 95.146)

Camerata Salvatore

Guarino Amella Giovanni (voti 93.247)

Sorge Francesco.

(Non eletti Pancamo Antonino e Adonnino G. Battista).

Partito Democratico Riformista

La Loggia Enrico (voti 31.114)

(Non eletto: Ambrosini Gaspare con voti 22.032)

Partito Comunista Italiano

Voti di lista 8.071. Non eletto Sessa Cesare con voti 4.367.

Partito Popolare Italiano

Vassallo Ernesto (voti 46.922)

Cascino Calogero

Aldisio Salvatore.

Partito Socialista Ufficiale

Costa Mariano

Cigna Salvatore Domenico.

Le elezioni del 6 aprile del 1924 si svolsero - come noto - con un listone nazionale cui andava il premio di maggioranza in base alla legge Acerbo. Per la Sicilia, tale premio si risolse invece in un danno, facendo perdere alla lista nazionale d’ispirazione fascista due deputati. Annota il Renda (): «Il risultato elettorale, nella sua essenza, fu il risultato di un ampio e indiscutibile consenso politico. Il previsto premio di maggioranza si risolse in danno anziché in vantaggio del listone. In base ai voti ottenuti, infatti, i deputati eletti avrebbero dovuto essere 40, cioè due in più dei 2/3 (38) consentiti dalla legge. Non era dunque retorico parlare di trionfo.»

Elezioni del 16 aprile 1924


Venivano eletti nel

Partito della Democrazia Sociale

Colonna di Cesaro’ Giovanni (voti 25.307);

Guarino Amella Giovanni (voti 9.455);

Lo Monte Giovanni (voti 12.537);

Fulci Luigi (voti 7.779);

Restivo Empedocle.

(Non veniva eletto Giulio Bonfiglio: voti 5.715).

Partito dell’Opposizione Democratica

La Loggia Enrico (voti 5.259).

Partito Comunista

Lo Sardo Francesco (voti 5.057).

Partito Socialista Massimalista

Vella Arturo (voti 2.581)

Il listone nazionale ebbe, come si è detto, il pieno: i deputati che in qualche modo avessero attinenza con Agrigento furono:

Lista Nazionale (n.° 21)

Cucco Alfredo (voti 52.973)

Abisso Angelo (voti 32.184)

Pasqualino Vassallo Rosario (voti 22.348)

Vassallo Ernesto (voti 21.017)

Palmisano Paolo (voti 18.408)

Riolo Salvatore (voti 21.017)

Gangitano Luigi (voti 5.718).

In quella tornata elettorale i trombati di lusso della provincia di Agrigento furono: Giulio BONFIGLIO (voti 5.715) della Democrazia Sociale del duca di Cesarò e Cesare Sessa (voti 3.004 del Partito Comunista). Riesce a farsi, invece eleggere, sia pure con pochi voti, il Gangitano, una figura di ex conbattente e quindi di fascista di vecchia data (lo troviamo attivo a Racalmuto nel lontano 1919).



I successivi plebisciti del 1929 e del 1934 hanno tutt’altra fisionomia e le elezioni al parlamento sono automatiche: basta avere avuto il consenso a Roma, presso le corporazioni, a venire inseriti nel listone, da approvare o respingere in toto con un sì o con un no.

Per quel che qui occorre basta rammentare che nel 1929, il 24 marzo, vanno Montecitario, dalla provincia di Agrigento: Luigi Gangitano, Salvatore Riolo, Vito Palermo e Paolo Palmisano. Luigi Gangitano e Vito Palermo. Angelo Abisso fu invece mandato al Senato. Nel 1934, nel plebiscito del 25 marzo, salgono al Parlamento Luigi Gangitano, Vito Palermo; Paolo Palmisano e Salvatore Riolo si perdono per strada.

Per la Sicilia, le statistiche ufficiali parlano di un inarrestabile trionfo del Fascio Littorio:

Proporzioni dei voti ottenuti dalle

liste del Fascio Littorio in rapporto a 100





Anno

1924


1929


1934


Percentuale

69,8%

99,9%

100%


()



* * *

Si è già visto quale ruolo ebbe a svolgere il prefetto Reale nella penetrazione del primo fascismo nella provincia di Agrigento. Era da tempo, specie sotto Crispi e Giolitti, che l’istituto prefettizio aveva un peso determinante nell’evoluzione politica nella zona d’influenza. Era un gioco occulto ma penetrantissimo e di risolutiva importanza. Solo lo studio delle carte d’archivio - mirabilmente custodite nell’Archivio Centrale di Stato - consentono di squarciare questi misteri della gestione del potere nell’Italia post-unitaria, almeno sino all’avvento della democrazia di popolo con la riforma ed il ridimensionamento dei prefetti.



Un elenco dei prefetti di Agrigento (limitatamente al primo periodo fascista) non è quindi qui ozioso:


Cognome e nome


titoli


dati anagrafici


data di nomina

data di fine

incarico

nuova destinazione

Pugliese Samuele

Dott. - prefetto a disposizione

n. a Perano (Chieti) 6.9.1872 + Roma, 14.8.1939

15 febbraio 1922

5 aprile 1922

prefetto di Foggia

Rocco Raffaele

Dott. Prefetto di Grosseto

n. a Napoli il 2.12.1864

18 giugno 1922

16 giugno 1923

collocato a disposizione

Reale Ernesto

Dott. Vice prefetto

n. a Sassari il 30.6.1875 + Roma il 30.12.1947

16 marzo 1923

22 ottobre 1924

prefetto di Potenza

merizzi giovanni antonio

Dott. Prefetto di Lecce

Sondrio 11.7.1861

22 ottobre 1924

10 gennaio 1925

prefetto di Macerata

Rivelli Giovanni Battista

Dott. Vice prefetto

Campagna (Salerno) 24.6.1870 + Roma 10.9.1967

10 gennaio 1925

12 febbraio 1926

Prefetto di Aquila

Salvetti Giacomo

Vice prefetto

Pallanza (Novara) 7.3.1877 + Torino 1°.10.1953

12 febbraio 1926

16 ottobre 1926

Prefetto di Grosseto

Maggiotto Giovanni

Dott. Prefetto di Grosseto

Venezia 18.2.1857 + Roma 18.12.1938

16 ottobre 1926

16 novembre 1927

collocato a disposizione

Sacchetti Sebastiano

Dott. Vice Prefetto

Teramo 15.8.1880 + Roma 13.2.1952

1° dicembre 1927

16 dicembre 1929

collocato a disposizione

Miglio Federico

Dott. Prefetto a disposizione

Castrovillari (Cosenza) 4.8.1883 + Firenze 27.4.1956

16 dicembre 1929

16 aprile 1932

collocato a disposizione




 

 

 

* * *



 

L’anno della grande turbolenza in seno alla Federazione fascista di Agrigento è il 1925 e ciò ben si spiega se si ha presente il quadro politico nazionale. Tutto cambiava in Italia; tutto doveva cambiare ad Agrigento. Come? Si ha voglia di affermare, a posteriore, alla siciliana maniera, gattopardescamente. In definitiva, cambiava tutto per non mutare nulla.

Ritroviamo, come al solito, la cronaca fedele nelle carte prefettizie che si custodiscono a Roma (). Il quadro è decisamente esaustivo per non doverlo qui riportare piuttosto integralmente.

Un telegramma cifrato parte dalla prefettura di Girgenti il 29.1.1925 alle ore 22 della sera. «Incidenti - recita - verificatisi occasione rinnovazione Direttorio questa Federazione provinciale fascista e di cui informai codesto On. Ministero con espresso 19 corrente n.° 31 Gab. Hanno avuto il seguito che si prevedeva.» Il Ministero annota a matita "non è pervenuto a noi".

«I quattro deputati fascisti - scende nel dettaglio il telegramma cifrato - della provincia Onorevoli Abisso, Riolo, Palmisano e Gangitano hanno concordemente aperta una decisa campagna contro il segretario provinciale Cav. Galatioto considerato che dopo atteggiamento da lui assunto di aperto antagonismo in loro confronto confermato dalla condotta tenuta nella predetta circostanza non possa egli rimanere nella carica che ricopre, tanto più che recente rielezione del Galatioto sarebbe illegale, perché riunione non fu preceduta da regolare convocazione. Constami che predetti Deputati ed altri esponenti Direttorio provinciale abbiano chiesto al Direttorio Nazionale provvedimenti a carico del Galatioto e che sarebbe per venire qui On. Starace per compire inchiesta. E’ opinione generale condivisa anche da persone rispettabili al di fuori partiti locali che permanenza Galatioto al posto di segretario provinciale può danneggiare anziché giovare al fascismo della provincia, dato suo temperamento impulsivo, violento, inconciliabile che gli ha procurato larghissime antipatie.

«Per questi motivi ritengo bene un eventuale suo allontanamento dalla carica di segretario provinciale ed un probabile conseguente suo dissidentismo non potrebbe pregiudicare molto situazione fascismo locale tenuto anche conto che suo ascendente si limita a pochi elementi più SCALMANATI e irriflessivi. Tutte queste circostanze mi hanno sconsigliato di tentare un amichevole componimento della vertenza ed il Galatioto che prevede quasi certa perdita carica cerca correre ripari. Sembra che egli intenda recarsi costà domani per portare nelle alte sfere sue proteste ed ottenere anche udienza da S.E. il Presidente del Consiglio dei Ministri. Prefetto RIVELLI».

Il lavorio sotterraneo diviene febbrile. Contro Galatioto opera, subdolamente il prefetto Rivelli, che frattanto ottiene che venga nominato un Commissario. Si tratta del prof. Paladino che sappiamo essere un siciliano di Floridia, a suo tempo socialista rivoluzionario e quindi interventista e nazionalista, iscrittosi al Fascio nel 1920. Il prefetto si premura di catechizzarlo. Vedremo: senza troppo successo. Il collegamento prefettizio con Roma è puntuale. In data 5 aprile 1925 parte un telegramma cifrato (alle ore 21) dalla prefettura di Girgenti per il Ministero Interno - Gabinetto. Vi si legge: «La crisi che in gennaio erasi aperta in seno Direttorio questa Federazione provinciale fascista e di cui riferii a codesto On. Ministero con espresso 19 detto n.° 31 Gab. E con telegramma successivo giorno 29, ha avuto ora suo epilogo con la nomina da parte della Direzione del Partito fascista di un Commissario nella persona del Prof. Paladino, redattore del giornale "Il Popolo d’Italia" edizione romana, il quale è giunto qui ieri sera con incarico preparare e presiedere Congresso provinciale dei Fasci per nomina nuovo Direttorio Federazione provinciale fascista.

«Situazione assume speciale importanza pel fatto che tutti e 4 i deputati fascisti della provincia solidamente e di pieno accordo muovono guerra per ragioni di indole morale al segretario federazione fascista Cav. Galatioto cui figura fu già da me rappresentata nei succitati dispacci. Commissario Prof. Paladino ha oggi avuto meco un colloquio nel quale gli ho fatto comprendere che il dissenso è insanabile e che nell’interesse del fascismo sarebbe bene escludere il Galatioto dalle future combinazioni del Direttorio provinciale.»



La fazione di Galatioto è in subbuglio. E’ molto forte nella parte orientale dell’agrigentino. Racalmutesi emergenti ne fanno parte: Puma e Burruano. Un personaggio che diverrà fin troppo celebre nel dopoguerra: Calogero Vizzini, è della congrega. Il prefetto Rivelli è vigile ed ostile. Telegrafa a Roma il 15 maggio 1926 (ore 20,35) in questi termini: «Viene oggi spedito da qui a V.E. nonché a S.E. il Presidente Consiglio e segretario generale Partito a firma Commissari Prefettizi Canicattì, Racalmuto e Grotte e Sindaco Ravanusa [Calogero Vizzini, n.d.r.] telegramma protesta voluta mia azione ostile fascismo. Con espresso odierno onoromi dare dettagliati chiarimenti in merito tale infondata protesta ispirata e promossa da noto esaltato Gerolamo Galatioto già segretario federazione fascista scopo sfogare suo livore per vedersi oramai spogliato ogni autorità e prestigio seguito sua azione deleteria in seno Partito e in conseguenza suo atteggiamento di aperta avversione ai quattro deputati fascisti della provincia per fini personali elettorali. PREFETTO RIVELLI»

Il telegramma accusatorio era partito solo poche ore prima (16,20) da Girgenti e ovviamente lo spionaggio prefettizio era vigile e solerte. Era stato indirizzato a S.E. Mussolini; a S.E. Federzoni e a S.E. Suardo; testualmente affermava: «Sottoscritti commissari prefettizi Canicattì, Racalmuto, Grotte e sindaco Racavanusa protestano vivamente contro operato questo Prefetto che calpestando pure idealità fasciste tende sfacciatamente agevolare elementi democratici sociali e principalmente Guarino Amella nel suo vecchio collegio composto nostri paesi. Denunciano costante inspiegabile sabotaggio amministrativo scopo favorire elementi antifascisti che notoriamente invita suoi ricevimenti. Denunciano sue basse persecuzioni contro puri fascisti rei solo di non sottomettersi sue intenzioni ricorrendo anche fornire informazioni false. Denunciano recrudescenza abigeati. Denunciano sua mancanza impegno onore imponendo dimissioni chieste da notissimi democratici sociali. Comunicano loro dimissioni da commissari e sindaco e chiedono energico intervento Governo Partito con rigorosa inchiesta. Sottoscritti segretari politici fasci Grotte, Canicattì, Racalmuto, Ravanusa, fermi loro posto responsabilità perché ripongono fiducia piena commissario straordinario federazione fascista e organi Partito, affermano loro piena solidarietà commissari sindaco ai quali dànno pubblico atto per magnifica opera fascista svolta nonostante palese ostruzionismo Prefetto.

«Puma avv. Agostino - Commissario prefettizio Canicattì;

«Vassallo Ernesto - Commissario prefettizio Grotte;

«Burruano avv. Salvatore - Commissario prefettizio Racalmuto;

«Vizzini Calogero - Sindaco Ravanusa;

«Caramazza Gaetano - Segretario politico Fascio Canicattì;

«Montagna Nino - Segretario politico Fascio Grotte:

«Burruano Salvatore - Segretario politico Fascio Racalmuto;

«Vizzini Calogero - Segretario politico Fascio Ravanusa.»



Il corso degli eventi elettorali del primo fascismo post-aventiniano per le cariche del direttorio provinciale sembra che si sia risolto, in un primo momento, in modo avverso al prefetto. Un altro dei soliti telegrammo cifrati, partito da Agrigento il 10 giugno 1925, informa il Ministero che «per Domenica prossima 14 corrente è indetto congresso fasci questa provincia per elezioni Federazione provinciale fascista. Frattanto da Commissario straordinario Prof. Paladino con mal dissimulato accordo con ex segretario provinciale Cav. Galatioto, di cui è nota precedente deprecata azione, sono stati sciolti e ricostituiti vari altri fasci oltre quelli segnalati mio rapporto 23 maggio scorso 344 Gab., parimenti con intonazione contraria ai 4 deputati fascisti, onde prevedesi probabilità che dette elezioni diano vita ad una situazione poco favorevole ai veri interessi del Fascismo ed avente precipuo scopo capovolgere situazioni municipali ai fini esclusivamente particolaristici e personali e preparare ... per combattere nelle prossime elezioni politiche attuali deputati fascisti. Compio dovere informare V. Ecc. In relazione surriferito mio rapporto per eventuali passi presso Direzione del Partito Fascista e convenienti direttive al Prof. Paladino. Ossequi. Prefetto Rivelli».

Il 14 giugno al prefetto non restò altro che confermare seccamente di avere previsto lo sgradito risultato elettorale. «Oggi - telegrafa - ha avuto qui luogo elezione direttorio provinciale fascista. Risultò eletta lista presentata da commissario straordinario prof. Paladino. Opposizione si astenne votazione; ordine pubblico tranquillo. Riservomi più dettagliate informazioni. Prefetto Rivelli.»

Il giorno dopo (15 giugno 1926, ore 10,50) un altro cifrato redatto nei seguenti termini: «Seguito telegramma ieri, significo che iersera in seno Direttorio Provinciale Fascista, eletti prof. Paladino Raffaele a segretario politico e Cav. Galatioto Girolamo a segretario politico aggiunto.»

Il rapporto prefettizio sugli eventi è contenuto in un espresso inviato da Girgenti il 15 giugno 1925 - Div. Gab. N.° 886. «Di seguito ai miei telegrammi di ieri e di oggi pari numero - relaziona il prefetto Giovan Battista Rivelli - pregiomi significare a codesto On. Ministero che ieri, alle ore 10,30 sotto la presidenza dell’On. Cucco, arrivato espressamente da Palermo ebbe luogo, nei locali di questo Municipio, il Congresso per l’elezione del Direttorio della Federazione Provinciale Fascista.

«Intervennero tutti i Segretari politici delle Sezioni Fasciste della Provincia, nonché gli On.li Palmisano, Gangitano e Riolo.

«La discussione fu lunga ed in qualche punto anche movimentata, avendo gli Onorevoli presenti attaccato di poco lealismo il Commissario Straordinario per la Federazione Prof. Paladino, specie per quanto si riferisce al tesseramento dei nuovi soci delle recenti ricostituite Sezioni Fasciste, mentre questi ed i suoi amici accusavano di poca sincerità fascista i Deputati della Provincia, presenti ed assenti.

«Verso le ore 14,30, chiusa la discussione gli Onorevoli presenti con i segretari fascisti loro amici, abbandonavano il Congresso, e procedutosi alla votazione risultavano eletti i Signori:

«Pladino Prof. Raffaele - Galatioto Cav. Girolamo - Martorana Avv. Salvatore - Mangiavillani Avv. Nitto - Damiani Crispo Avv. Salvatore - Burruano Avv. Salvatore - Puma Avv. Agostino - Baiamonte Dott. Giacomo - Pontillo Cav. Avv. Giuseppe - Sferlazzas Ing. Giovanni - Chiarenza Emilio.

«Iersera poi nei locali della Federazione Provinciale, in seno al Direttorio, vennero eletti il Prof. Blandini Segretario politico e Cav. Galatioto Segretario politico aggiunto.

«Tutta la giornata ieri trascorse senza alcun incidente per le rigorose misure di ordine pubblico adottate. L’On. Cucco ieri stesso partì per Palermo - Prefetto (Giov. Battista Rivelli).»



Con un successivo espresso (Div. Gab. N.° 886 del 19.6.1925) il prefetto tiene informato il Ministero sugli sviluppi elettorali. «Per doverosa notizia - scrive - pregiomi comunicare a codesto On. Ministero che 14 andante, all’arrivo dell’autobus postale a Raffadali, che portava una ventina di fascisti, reduci da Girgenti, pel Congresso Provinciale fascista, avvenne uno scambio di invettive tra i fascisti di cui sopra e quelli che si trovavano in paese, e che attendevano l’esito del Congresso, gli uni e gli altri, facenti capo rispettivamente alle due tendenze in lotta al Congresso Provinciale stesso. Non si ebbero a deplorare incidenti, degni di nota, anche per il pronto intervento dell’Arma.

«Alle ore 20 dello stesso giorno il Corpo musicale di Raffadali, dopo aver terminato pubblico concerto in quell’abitato, richiesto di suonare l’inno "Giovinezza" non vi aderì, adducendo che dato quanto era avvenuto qualche ora prima, tra le due fazioni fasciste, temeva potessero verificarsi serii incidenti. Promise però che giorno dopo avrebbe aderito a quanto si richiedeva. Nessun incidente. Ordine pubblico normale.

«Anche a Racalmuto la stessa sera conosciutosi esito Federazione Provinciale Fascista, s’improvvisò manifestazione giubilo, cui presero parte fascisti e circa 300 simpatizzanti, che preceduti musica, percosse via principale suono inni patriottici e al grido Viva Casa Savoia, S.E. Mussolini, Galatioto e Burruano. Dopo poche parole occasione dette Avvocato Burruano Carmelo dimostrazione si sciolse senza incidenti. Ordine pubblico tranquillo. P/Prefetto: Giordano.»



Un biglietto urgente del solito Giordano del 22 giugno 1925 informa: «Per doverosa notizia pregiomi comunicare a codesto On.le Ministero che alle ore 19 del 15 andante circa 150 fascisti in Ravanusa con bandiere e banda musicale si recarono allo sbocco dello stradale di Riesi per fare incontro al Segretario Provinciale Politico Aggiunto Cav. Galatioto Girolamo. Alle ore 19,30 egli vi giunse e venne accompagnato alla sede del Fascio ove furono tenuti brevi discorsi di occasione. Alle ore 20,10 la cerimonia ebbe termine senza alcun incidente. Ordine pubblico tranquillo.»

Il successivo 16 agosto siamo ancora su questa lunghezza d’onda. «Per doverosa notizia - ed ora è il prefetto Rivelli a firmare di suo pugno - pregiomi comunicare a codesto On. Ministero che ieri nel Teatro Nazionale di Canicattì si riunì l’assemblea di quella Sezione Fascista cui intervennero circa 250 fascisti per decidere due questioni importanti: 1°) Elezioni Amministrative. 2°) Appalto del Dazio. L’assemblea approvò ad unanimità, la relazione letta da Caramazza Imperia Giuseppe componente il Direttorio ed inviata alla Autorità Superiore per indire al più presto le elezioni per la costituzione del nuovo Consiglio Comunale. Alla quasi unanimità approvò l’ordine del giorno presentato da Narbone Salvatore componente del Direttorio per rimandare la discussione e la decisione dell’appalto del Dazio alla nuova Amministrazione Comunale. Nessun incidente.»

Il contrasto deputati fascisti-federazione provinciale esplodeva in piena estate. Veniva da Roma per una composizione il segretario nazionale Farinacci. Le note prefettizie ci ragguagliano mano mano sugli avvenimenti.

20 agosto 1925

«Ieri questo segretario federale fascista Prof. Paladino telegrafava Segretario Generale Partito on. Farinacci essersi raggiunto accordo fra deputati e federazione provinciale fascista. Rammento che on. Farinacci venuto qui scorso luglio esaminare crisi fascismo provincia incaricava prof. Paladino e on. Palmisano rivedere situazione alcuni fasci per quali erasi determinato dissidio fra deputati fascisti da un lato e federazione provinciale fascista e sottoporre conclusioni a qust’ultima.

«Dopo lunga assenza da qui prof. Paladino durante la quale lavoro revisione appena iniziato era rimasto sospeso riunivansi ieri mio gabinetto deputati on. Palmisano Gangitano e Riolo con prof. Paladino e segretario fed. Fascista Umberto Galatioto per accordo preventivo circa proposte da presentare giorno stesso federazione prov. Fascista. Mancava on. Abisso che trovasi Trentino. Si stabilì soprassedere per fascio Licata non sembrando prudente momento attuale emettere qualsiasi decisione data condizione spirito pubblico locale pei recenti sanguinosi incidenti; rinviare per ulteriore esame situazione Canicattì e Cammarata; ratificare elezioni nuovo direttorio Ribera e Siculiana; ratificare costituzione nuovo fascio Campobello riammettendovi però cessato segretario politico fascio e cessato segretario sindacati che ne erano stati esplulsi; sciogliere fasci Cattolica Eraclea e Cianciana rimandandone ricostituzione ad epoca da stabilire; affidare reggenza triumvirale fascio S. Stefano Quisquina.

«Portate subito tali proposte assemblea federale furono approvate. Dopo ciò Prof. Paladino e direttorio provinciale hanno avuto premura spargere subito voce essersi raggiunto accordo con deputati ritenendo che da decisioni prese sia uscita rafforzata la posizione in confronto di questi ultimi. Deputati d’altra parte non intendono affatto che provvedimenti concordati e deliberati possano risolversi diminuzione loro autorità e influenza. Ho impressione perciò che accordo sia più che altro apparente e comunque abbia abbia basi assai deboli e precarie. Basta infatti considerare anzitutto mancato intervento on. Abisso il più autorevole dei deputati interessati che non avendo conferito alcun mandato colleghi può aver voluto con sua assenza riservarsi libertà d’azione. Occorre inoltre notare che per alcune situazioni più importanti e delicate come Licata e Canicattì essendosi rinviate decisioni rimane sempre aperta via a più o meno prossime contese. A rafforzare miei dubbi sulla sincerità e solidità acordi sia poi il fatto che comunicazione telegrafica ad On. Farinacci del raggiunto accordo è stata fatta a firma soltanto Prog. Paladino e non pure on. Palmisano mentre ad entrambi on. Farinacci aveva conferito incarico riesame situazioni. Seguo corso avvenimenti per informare ulteriormente Vostra Eccellenza. Prefetto Rivelli».

Il 4 settembre partiva dal Ministero per il Vice Prefetto di Girgenti questo dispaccio telegrafico: «Pregasi comunicare codesto viceprefetto seguente dispaccio del prefetto titolare comm. Rivelli. Stop. "Ieri deciso scioglimento Direttorio Federale et invio commissario straordinario alla Federazione Fascista. Stop. Nella eventualità provvedimento possa fornire occasione agitazioni, manifestazioni, concentramenti squadre, violenze contro persone e beni, occorre prendere d’urgenza tutte necessarie misure perché ciò sia assolutamente impedito agendo energicamente contro chiunque tentasse farlo senza distinzione persone et partito. Stop. Occorre anche vigilare severamente et impedire che persone specie le più turbolente vadano armate senza licenza o che continuino a godere di questa qualora diventate indegne e costituiscano pericolo ordine pubblico. Stop. Vigilanza autorotà P.S. deve principalmente e più efficacemente svolgersi dove più forti e più acri si agitano contese fasciste e dove maggiore influenza esercitano i capi dissidenti. Stop. Prego perciò V.S. prendere subito accordi con Questore e con comandanti divisioni arma anche prima mio ritorno costà predisponendo opportuno piano vigilanza. Stop. All’uopo Ministero su mia richiesta ha disposto invio costà altri cento carabinieri. Stop. Domani Sabato giungeranno Girgenti onorevoli Riolo e Palmisano. Prego disporre servizio vigilanza tutela".»



Una lunga relazione dei carabinieri di Campobello di Licata, che il vice prefetto Giordano manda in copia l’11 settembre 1925, chiarisce il clima turbolento che si era determinato tra le fazioni fasciste agrigentine.

«Con riferimento alla nota sopraindicata pregiomi trascrivere qui di seguito quanto mi comunica la locale divisione interna de CC.RR.:



«Con riferimento al foglio controdistinto si partecipa che da verifiche praticate in Campobello di Licata dal Capitano Coppaloni Sig. Pietro Comandante la locale Compagnia Esterna è risultato quanto segue:



«L’attuale Direttorio fascista di Campobello di Licata si compone di individui taluni dei quali sino al 21 giugno 1924 non erano inscritti al partito fascista, e altri, pur essendo ex combattenti, costituirono e diressero la Società "Per la Patria e per il Re" emanazione legittima dell’ "Italia Libera" che fu sciolta per decreto Prefettizio del 6 gennaio 1925 perché formata da elementi sovvertitori dell’ordine pubblico e di idee strettamente antifasciste.



«Il Direttorio stesso è stato creato dal Professore Paladini in seguito allo scioglimento di altro Direttorio contro il volere concorde dei quattro Deputati della Provincia.



«Alcuni dei componenti il Direttorio predetto fra cui il segretario politico Dott. Cammarata Costantino perché ritenuti professanti idee antinazionali, e designati dalla voce pubblica quali detentori abusivi di armi da fuoco, subirono il sei gennaio del corrente anno, perquisizioni domiciliari eseguite dai militari dell’Arma e dal Funzionario di P.S.; come risulta dal verbale n.° 3 in data 6 gennaio 1925 della Stazione di Campobello.



«Lo stesso Direttorio del Fascio che conta circa 120 nuovi iscritti su una popolazione di oltre 18.000 abitanti cerca con ogni mezzo di potere aumentare il proprio prestigio e la propria autorità e vorrebbe per raggiungere tale scopo, avere dall’Arma locale incondizionato appoggio e completa dedizione mentre al contrario l’Arma di Campobello e per essa il Maresciallo d’Alloggio Maggiore Burati Crescenzo si mantiene molto indipendente ed obiettivo e gode la piena fiducia dei deputati fascisti della Provincia.



«Il Burati per la sua opera prestata in Campobello fu encomiato dal Comando Generale dell’Arma. Al Maresciallo Burati si fanno i seguenti addebiti:

1°) Di amicizia intima con l’ex segretario politico al quale il Burati avrebbe fatto apertamente dichiarazione di devozione incondizionata e promesse di ausilio.



«Il Maresciallo Burati giunse a Campobello di Licata nel novembre 1924. Reggeva in quell’epoca il fascio il Comm. Dott. Curatolo Medico Condotto uomo superiore ad ogni sospetto. [...]



«2°) Di esersi opposto in ogni occasione che i fascisti cantassero inni fascisti e per sino di aver vietato che la musica suonasse detti inni. [...]



«I fascisti dissidenti di campobello, secondo dichiarazione del predetto Direttorio, sono due: il Dott. Curatolo suddetto e suo nipote Sammarco, entrambi fatti espellere dal partito per opera dell’attuale Direttorio.



«Dopo la loro esplulsione si astennero dal prendere parte attiva alla vita pubblica del paese. Non si comprende quindi in che consista l’atteggiamento tollerante dell’Arma [...] Ma per meglio prospettare il caos che regna nel Direttorio di Campobello, si fa presente che il suddetto Rag. Sammarco sebbene espulso dal partito, è tuttora capo manipolo della M.V.S.N.



«3°) Di acquiescenza per fatti verificatisi in Campobello il 23 giugno 1925.



«Il 23 giugno 1925 ebbero luogo in Campobello di Licata le elezioni del nuovo Direttorio. L’avvocato Galatioto fratello di un membro dell’attuale Direttorio, simpatizzante fascista designato dal dott. Cammarata come colui il quale avrebbe potuto obiettivamente sul comportamento del Maresciallo Burati così ha raccontato i fatti:



«""Il Maresciallo Burati [..] comprese con rara avvedutezza la vera situazione dell’ordine pubblico in Campobello. [..]Verso sera di detto giorno man mano che si veniva a conoscenza dell’esito delle elezioni, gli animi degli appartenenti alle due tendenze in lotta andavano eccitandosi. Ad un certo punto, quattro o cinque individui usciti dalla casa del rag. Sammarco situata nei pressi della sala della votazione, attreversarono in atto spavaldo e di sfida quella piazza XX Settembre gremita di gente [..]""



«Per gli spari avvenuti il giorno seguente il Burati non era presente perché ammalato in Caserma; ma l’autore di tali spari identificato per certo Carneci Carmelo fascista, venne arrestato come risulta dal verbale n.° 71 del 25 giugno della Stazione di Campobello.



«Per gli spari verificatisi i giorni successivi (si sparò solo il giorno 28) l’autore, identificato per certo Cassaro Carmelo, datosi alla latitanza, venne denunciato all’Autorità Giudiziaria come risulta dal verbale n.° 72 del 29 giugno della Stazione di Campobello.



«4°) Arresto del Maresciallo dei CC.RR. in pensione Sansone Giovanni in seguito ai disordini avvenuti il 6 luglio.



« .. verso le ore 21 del 6 luglio […] nella piazza XX Settembre e precisamente davanti la Sezione Fascista si era inscenata una dimostrazione ostile contro quel Commissario Prefettizio, Cav. Crisafulli [..] Certo Sansose Giovanni fu Giuseppe di anni 55 Maresciallo dell’Arma in congedo, con le mani in alto e gesticolando in atto minaccioso [si rivolse in malo modo] al maresciallo Burati ... Ad assembramento sciolto .. Il Sansoni .. venne invitato .. in casermadove fu dichiarato in arresto. [..] Durante la stessa notte l’arrestato venne tradotto al carcere mandamentale di Ravanusa, per evitare che l’indomani si tentasse, come era stato progettato qualche atto incolsulto da parte dei fascisti per liberare il Sansone. [..]



«5°) di avere elevato contravvenzione ai fascisti il 4 agosto 1925.



«[..] il 4 agosto u.s. verso le ore 24 circa una quarantina di individui con canti e schiamazzi, suonando anche chitarre e mandolini disturbavano in quella Via V. Emanuele la quiete pubblica. [...] Il maresciallo [..] riusci a fermarne sette ed a perquisirli: uno di questi certo Alaimo Cristoforo fascista tesserato, venne trovaro in possesso di una rivoltella senza licenza, per cui fu arrestato [..]»



I fatti non sono lievi ma non tali da spiegare il pandemonio che determinarono. C’era, certo, alla base, una strumentalizzazione politica. I deputati facevano fronte comune. Il Paladino è figura opaca per contrastare l’abilità di un Abisso. Il Galatioto non dovette rifulgere per acume tattico. Avere contro il prefetto si dimostrò, per lui e la sua congrega, esiziale. In ogni caso, il fascismo cominciava davvero a mostrare il suo volto duro. E l’ordine pubblico cominciava a guadagnarci. Comunque la si pensi.

Il 16 settembre il prefetto Rivelli aveva partita vinta. Era arrivato ad Agrigento nientemeno che Achille Starace. «On. Starace - informa - giunto qui il 13 corrente quale inviato straordinario della Direzione del Partito Fascista presso questa disciolta Federazione provinciale fascista, dopo esaminata situazione, ha, con determinazione odierna, stabilito sciogliere tutti i fasci della provincia, riservandosi incaricare appositi fiduciari ricomposizione a suo tempo fasci medesimi.

«Provvedimento improntato opportunissimo senso serenità obiettività ha riscosso applauso generale ed è stato accolto assai favorevolmente da popolazione che da esso trae motivo ritorno desiderata tranquillità intera provincia e nobile sprone rafforzamento locali energie fasciste in guisa da assicurare al Governo Nazionale il più largo consenso e la più incondizionata e disciplinata devozione.»

E l’on. Starace è proprio un duro. Gongola il prefetto telegrafando il 18 seguente: «On. Starace commissario straordinario questa federazione provinciale fascista con provvedimento ieri ha sciolto tutti fasci questa provincia ordinando segretari politici sezioni portare presso sede federazione stessa chiavi dei locali. Provveduto tutela ordine pubblico esecuzione ordine suddetto commissario.»

Dobbiamo sempre al Rivelli la cronistoria del frenetico operare di Starace ad Agrigento. Il 13 novembre 1925 il prefetto così ragguaglia il ministero: «On. Starace Commissario straordinario questa federazione fascista, ha radunato qui dieci corrente fiduciari da lui nominati per ricostituzione fasci provincia, impartendo loro precise nobilissime istruzioni per tale lavoro destinato ridare lustro decoro e solidità al fascismo provincia che opera insana disciolto direttorio aveva traviato con meschine interessate competizioni. Erano presenti anche 4 deputati fascisti provincia On. Abisso, Gangitano, Palmisano e Riolo.

«Iscrizioni nuovi fasci incominciano oggi e termineranno 20 corrente. Congresso Federale per nomina Direttorio provinciale prevedesi possa avere luogo entro primi mesi dicembre.

«Avviata così a felice brillante sistemazione mercè opera impareggiabile ferma ed accorta On. Starace politica fascista provinciale si è riconosciuta d’accordo con me possibilità addivenire a breve scadenza ed a gradi, ricostruzione Amm.ni Comunali rette da commissari attualmente in n.° 23 cominciando da questa città e altri centri importanti su cui riservomi a parte relative specifiche proposte.»

Il prefetto di Agrigento, a fine novembre 1925 (Telegramma del 29/11/1925) opera ormai in piena sintonia col regime: sono le vicende delle sezioni fasciste ad interessarlo e sono queste ad interessare il Ministero degli Interni. «Oggi hanno avuto luogo - telegrafa il Rivelli - elezioni direttori sezioni fasciste in tutta provincia. Da notizie finora pervenute da parecchi comuni ovunque è riuscita lista propugnata da fiduciari del commissario straordinario federazione provinciale On. Starace.»

Il 2 dicembre successivo, il prefetto ritorna sull’argomento con una relazione alquanto più dettagliata. Vi fa capolino anche l’on. La Loggia. Il suo destino politico viene qui marcato come l’ultimo atto. La fine dell’importante uomo politico di Agrigento è inappellabilmente segnata.

«Ieri segretari politici dei 42 fasci provincia, riuniti sede Federazione Provinciale Fascista hanno telegrafato On. Farinacci formulando unanime voto sia ritardata convocazione congresso Provinciale per lasciare direzione Fascismo Provincia On.le Starace, fino esaurimento elezioni ricostituzione Consigli Comunali e Provinciali ed esprimendo unanime plauso per rifiuto opposto da Direzione Partito ingresso On.le La Loggia stop Entrambe manifestazioni rispondono alto criterio interesse politico provincia e incontrano perciò mio pieno consenso. Ricostituzione normale rappresentanza provincia e rimanente diciotto comuni retti da Commissari potrebbe infatti aver luogo entro gennaio e febbraio prossimi essendosi oramai mercé validissimo contributo On.le Starace sistemata e chiarita situazione politica provincia ed è quindi opportuno che anche nel periodo conclusivo della situazione amministrativa non manchi prezioso concorso opera sua stop Ostilità poi così vibratamente espressa da tutti Segretari Politici dei Fasci riguardo On.le La Loggia avvalorano segnalazioni fatte a Vostra Eccellenza miei telegrammi 12 e 22 novembre n. 916 e 935 circa discredito cui detto Deputato è caduto questa provincia e conseguenze .... che deriverebbero da eventuale convalidazione sua elezione. Ossequi, prefetto Rivelli.»

Il Galatioto che aveva retto il fascismo provinciale per vario tempo è orami alle corde. Ha un sapore patetico questa corrispondenza che il prefetto Rivelli ha col Ministero sulla definitiva scomparsa dalla scena politica del fascista della prima ora di Ravanusa.

«Per doverosa notizia - esordisce un telegramma prefettizio del 17 novembre 1925 - pregiomi significare a codesto on. Ministero che ore 21,10 corrente in Ravanusa allo arrivo dell’Avv. Sillitti Alfredo e Cav. Gallo Vito quali designati per la reggenza di quel fascio, venne improvvisata imponente manifestazione da parte dei nuovi fascisti al grido di viva S.E. Mussolini. Il corteo si diresse sede fascio inneggiando agli ospiti suddetti, a S.E. Mussolini, all’on. Gangitano ed a tutti i deputati fascisti. Nella sede pronunciarono brevi discorsi occasione Avv. Stillitti, Cav. Gallo ed il Dott. Attanasio Salvatore, ringraziando i convenuti e innegiando alle glorie del fascismo e del suo Duce. Poco dopo corteo si sciolse senza nessun incidente.»

Qualche giorno dopo, il 23 novembre, il prefetto s’interessa per l’ultima volta del Galatioto. «Ore 15,30 ieri - telegrafa - in Ravanusa Galatioto Girolamo ex segretario politico federazione provinciale fascista, Sindaco Vizzini ed altri deridevano aversari. Intervento funzionario sicurezza ivi in missione arma e militi nazionali furono allontanati. Contegno medesimi provocò risentimento popolazione e per subitanea reazione formossi imponente manifestazione che percorse vie principali inneggiando Re e Duce. Dopo brevi parole maggiori esponenti fascismo quel comune, dimostranti si diressero verso Municipio con intendimenti ostili quella amministrazione comunale; per opera però del funzionario sicurezza e della commissione reggenza nuovo fascio, manifestazione si sciolse senza incidenti. Per evitare turbamento ordine pubblico ho inviato colà 20 carabinieri rinforzo, giusta richiesta quel funzionario al quale ho rinnovato tassative energiche disposizioni procedere senza riguardo carico perturbatori ordine pubblico. Giacché poi permanenza a atteggiamento provocatori amministrazione comunale causa principale dell’agitazione che minaccia turbamento ordine pubblico e amministrazione stessa, è oramai divenuta invisa maggioranza popolazione, con decreto odierno ho sospeso per urgenti motivi di ordine pubblico consiglio inviando qual commissario prefettizio il commissario di P.S. Dr. Montalbano Edvige e riservomi proposta scioglimento.»



La svolta del 1925



Il 1925 segna senza dubbio una svolta nel modo di essere del fascismo. Dopo il discorso del 3 gennaio cambia Mussolini, cambia il suo modo di vedere il parlamento, cambia il suo atteggiamento nei confronti delle istituzioni tradizionali. E l’Italia si avvia verso un regime indubitabilmente dittaroriale.

Il Ragionieri spiega, a nostro avviso, piuttosto puntualmente la vicenda del 1925 ().

«Il 3 gennaio 1925, con in tasca un decreto di scioglimento della Camera firmato in bianco dal re, dopo una resistenza neppure troppo convinta, Mussolini si presentò in Parlamento e assunse per sé e per il suo movimento ogni responsabilità di quanto era avvenuto. Non si trattò dello spartiacque fra due epoche, ma del momento della scelta esplicita e irreversibile della soluzione di forza: "Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili - dichiarò Mussolini - la soluzione è la forza". Gli strumenti adottati furono ancora una volta offerti dall’autoritarismo delle leggi vigenti e della pratica repressiva e centralizzatrice dello Stato, nonché delle nuove restrizioni introdotte dallo stesso fascismo in questi anni. La notte del 3 gennaio Federzoni telegrafò ai prefetti ordinando loro l’applicazione più rigorosa delle norme vigenti che già limitavano drasticamente ogni libertà d’associazione e di movimentoe prescrivendo la soppressione dei gruppi di "Italia libera", organizzazioni di ex combattenti, e retate di comunisti. Venivano così colpiti ad un tempo, con una tecnica caratteristica del fascismo che si apprestava a divenire regime totalitario, gli oppositori storicamente più vicini e più lontani, cioè gli elementi più capaci di operare una disgregazione all’interno della base sociale del fascismo o di organizzare la resistenza più intransigente e più combattiva alla costruzione del regime.»



Per una valutazione meno ostile, valgano le note del Nolte (): «Mussolini non cadde perché lo appoggiavano il re e il papa, il senato e l’industria, timorosi di potersi trovare di nuovo di fronte ai socialisti e ai comunisti. Ma si perdette irrimediabilmente una delle possibilità di evoluzione di Mussolini, soprattutto quella che non dipendeva tanto dalla sua "fede" e dal suo temperamento quanto dalla sua visione politica: di essere il capo, e non il dittatore, di una democrazia sociale. Eppure ancora nel famoso discorso del 3 gennaio 1925, che "chiarì la situazione" e significò l’accettazionedefinitiva del totalitarismo fascista, è possibile avvertire una vena di tristezza se non di disperazione, e in pari tempo - per quanto la cosa possa sembri paradossale - un più forte vincolo con la monarchia e con le forze conservatrici.»



«L’avvenimento più importante di questa epoca, -
scrive sempre il Nolte a pag. 317 e segg. - che per lumghezza e prosperità viene seconda nell’esistenza politica di Mussolini, fu la creazione di ciò che si suole chiamare dominio totalitario.



«Dopo il 3 gennaio Mussolini non si oppone più alla "ripresa totale, integrale" dell’azione fascista, che da tempo i suoi estremisti esigevano. Lo squadrismo, di nuovo potente, leva ancora la testa e porta contro i suoi avversari gli argomenti che gli sono tipici. Farinacci, nuovo segretario generale, si applica con tutta l’energia del suo fanatismo al compito di "smatteottizzare", esalta l’ "intransigenza rivoluzionaria " del fascismo, minaccia gli avversari di una "terza ondata", e nega Nè più né meno che gli antifascisti possano essere considerati italiani. Ben presto l’opposizione non ha più nessuna possibilità di muoversi liberamente. Se in un primo tempo ci si accontenta di sequestrare senza ritegno i suoi giornali, dopo l’attentato di Bologna tutti i giornali ostili al regime vengono proibiti, viene istituito un tribunale speciale supremo, la punizione del "confino" diventa una misura preventiva lasciata all’arbitrio dei prefetti senza praticamente alcuna possibilità di protesta o di controllo. Dove mai avrebbero potuto vivere gli avversari anche solo potenziali del fascismo se non su isole rocciose, ora che la "feroce volontà totalitaria" di Mussolini aveva da un pezzo negato a tutti i partiti ogni diritto all’esistenza e voleva fare della nazione un "blocco granitico" o "monolitico"? Aveva già dimenticato che appena due anni prima un’Italia senza opposizione e senza contrasti di forze sociali gli era parsa "insopportabile"? Ora si diceva che in un regime totalitario come quello fascista l’opposizione era stolta e superflua, dal momento che il regime trovava nel proprio petto e nella resistenza delle cose l’indispensabile opposizione.



«Come, l’opposizione, anche lo Stato è in lui stesso. La citatissima formula "tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato" non va affatto intesa, statalisticamente, come una contrapposizione tra Stato e una particolarità di tipo individuale o collettivo. Questo Stato è caratterizzato piuttosto dal fatto che esso non può essere rigorosamente separato dal partito o contrapposto a questo: l’apparato dello Stato e quello del partito sono strumenti di dominio in mano a Mussolini, e anzi il partito - grazie alla sua maggiore modernità o anche per la sua dignità ideologica - diventa più importante ogni anno che passa.



«L’opera legislativa che fissò la "mussolinizzazione" dello Stato fu costituita dalle così dette "leggi fascistissime", non a caso create da Alfredo Rocco.»
()



 

 

Un quadro abbastanza veridico - anche se non privo di preconcetti ideologici - di quello che ebbe a verificarsi in quest’anno di svolta nell’intera Sicilia ci viene fornito dal Renda ().



«I fascisti non vollero lasciare dubbi che i veri padroni della situazione fossero loro -
stralciamo dal testo del Renda - e soltanto loro. La riprova di quella verità, del resto, venne poco dopo, allorché nell’agosto 1925, si procedette alla elezione del consiglio comunale di Palermo. In tale occasione, il fronte delle opposizioni, ammaestrato dagli avvenimenti nel frattempo verificatisi nel paese, si presentò compatto nella lista Unione per la libertà, chiusa solo ai comunisti, i quali formarono lista propria. [..] In modo aperto, e senza giro di parole, lo scontro venne affrontato fra la libertà e la dittatura. Sul momento vinse quest’ultima. I voti della lista fascista furono 26.249; i voti della lista di concentrazione liberale, 16.616; i voti della lista comunista, 211. [...] Non diedero quel segnale di rivolta politica e morale che l’Italia antifascista dalla Sicilia si aspettava. La classe dirigente dell’isola rimase ferma nella scelta già fatta in favore del fascismo.



«Le elezioni amministrative di Palermo furono l’ultimo guizzo di resistenza legale al fascismo. Vittorio Emanuele Orlando ne trasse la conclusione che "nell’attuale vita politica italiana non vi è posto per un uomo del mio passato e della mia fede"; e si dimise da deputato per protesta [..] A chi non seguì il suo gesto, non fu riservata sorte migliore. Subito dopo, infatti, varate le leggi eccezionali, altri 13 deputati di opposizione (fra i quali Colonna di Cesarò, Giuffrida, Guarino Amella) furono dimissionati dal parlamento con atto d’imperio. Francesco Lo Sardo, addirittura, oltre che privato del mandato parlamentare, fu anche arrestato. Contemporaneamente si procedette allo scioglimento formale dei partiti politici (di fatto erano già paralizzati da tempo); furono soppressi i sindacati; fu abolita la libertà di stampa e proibita ogni forma di vita politica a chi non accettasse di sottostare al regime. Ne seguì legalmente la fine del regime liberale e l’instaurazione della dittatura. A non perdere la fede nella libertà e a non ammainare la bandiera furono solo piccoli gruppi o singole personalità; ea distinguersi nella volontà e nel proposito di non cedere fu, in particolare, il piccolo partito comunista, fatto di alcune centinaia o di alcune migliaia di militanti, che, per sfuggire alla spietata caccia della polizia, cercò riparo nella più rigorosa clandestinità.



«Instaurato il regime del partito unico, la storia politica isolana, al pari di quella nazionale, sembrò identificarsi, e non pochi pretesero che si identificasse, col fascismo. [..]



«Il passaggio dal regime liberale al regime fascista, pur carattterizzato da un largo consenso poi in parte rimesso in discussione, non fu indolore, e non si limitò alla distruzione di qualche camera del lavoro, di qualche cooperativa, di qualche sezione comunista o socialista e neppure alla somministrazione di una certa quantità di olio di ricino accompagnata da dosi più o meno maccicce di manganellate. La transizione dalla libertà alla dittatura, oltre che un processo politico, fu anche un rivolgimento sociale. Alla vecchia classe dirigente di ispirazione democratico-liberale se ne sostituì una nuova, la cui formazione politica fu diversa, e la cui composizione non si identificò tutta nel fascismo, ma in parte trovò la propria ragione d’essere fuori del fascismo e in parte anche nello stesso antifascismo. La nuova classe dirigente si defferenziò dalla vecchia, anche per il fatto che la sua matrice sociale non fu necessariamente legata, come nel passato, alla grande proprietà terriera, e più ancora alla campagna, ma divenne espressione del ruolo emergente assunto nella società dai ceti medi e in particolare dai ceti impiegatizi dello Stato e degli enti pubblici parastatali. In questo senso, la scelta filofascista dei grandi proprietari terrieri, operata fra il 1922 e il 1924, e poi consolidata negli anni successivi, più che un errore, fu il segno dell’esaurirsi della loro capacità di egemonia sul resto della società.



«[..] negli equilibri di potere interni al regime, la nuova classe dirigente siciliana, formatasi durante il ventennio, sia per qualità che per capacità di rappresentanza, non fu più capace di esercitare un qualche peso di rilievo nazionale [...].



«Quella situazione al livello della rappresentanza parlamentare si riflesse con maggiore evidenza nelle istituzioni locali, nei comuni, nelle istanze del partito, nei sindacati. Non fu più come ai tempi della Sinistra storica, quando gran parte del personale politico periferico era costituito direttamente da medi e grandi proprietari terrieri. Segretari federali fascisti, essi stessi possessori di latifondi o rampolli del vecchio baronaggio, come il conte Gaetani di Naro, durante il ventennio, si contano sulla punta delle dita. La quasi totalità dei gerarchi appartiene, invece, ai ceri di media e di piccola borghesia così urbana come anche rurale. Naturalmente, pure in regime liberale non erano pochi i rappresentanti politici e parlamentari di origine piccolo borghese; ma la loro funzione era quella di agenti fiduciari delle classi dominanti proprietarie. In regime fascista, tale stretto legame di dipendenza non esiste più, non essendo più la stessa di un tempo la fonte di legittimazione del potere. Per altro, come segno di un mutamento istituzionale, tende a diffondersi e generalizzarsi la figura del funzionario di partito, che non esercita la politica come servizio occasionale e temporaneo, bensì come professione organica e permanente, le cui fortune si identificano con la ragion d’essere del regime. Da questo punto di vista, il fascismo, generalizzando un fenomeno già presente nelle organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra socialista, e anche fra le organizzazioni cattoliche, rappresenta un fenomeno sociale e politico da non sottovalutare nella prospettiva di lungo periodo. In effetti, è la prima volta che, in forma vistosa e quasi plateale, la grande proprietà terriera siciliana viene staccata drasticamente dal potere, sebbene il potere manifesta il proprio ossequio verso la proprietà medesima.



«Durante il ventennio, senza dubbio, i grandi signori del latifondo siciliano conservano la terra, mantengono o restaurano la loro influenza sociale, ricevono anche vantaggi economici sostanziali (la battaglia del grano e la bonifica(; ma non hanno più voce diretta e vincolante negli affari del governo nazionale e nel controllo delle amministrazioni locali. Significativamente, il primo podestà fascista di Palermo è un docente universitario, che prende il posto di un qualificato esponente della vecchia aristocrazia. [..]



«Insieme alla forzata separazione della grande proprietà terriera dalla diretta gestione del potere, altra importante novità del fascismo è il suo essere un regime di massa, che porta al reclutamento obbligatorio di tutti gli strati sociali della popolazione nel partito, nel sindacato, nei circoli dopolavoristici, in altre associazioni sportive e culturali varie.»



 

 

Nel giornale L’Impero del 24 marzo 1929 il 1925 viene definito l’anno della "seconda ondata". Gli iscritti al fascio non erano poi molti: solo 599.988. Il fascismo provinciale di Agrigento si dibatte nelle beghe interne per la conquista del potere. Galatioto, sincero fascista, si scontra con i deputati tradizionali ed in ispecie con il trasformista on. Abisso e, come abbiamo visto, soccombe miseramente. Galatioto non capì, peraltro, il ruolo del prefetto nella strategia del nuovo regime. Si credette al di sopra del prefetto Rivelli e questi lo giubilò. Ancora non si era nel pieno regime totalitario. Si pensi che vecchi esponenti dei clerico-moderati potevano avere possibilità nell’agrigentino di restare a galla. E’ il caso dell’ex deputato dei Popolari on..le avv. Eugenio Fronda. L’on.le La Loggia alla fine del 1925 non avrà però possibilità alcuna di salvarsi politicamente ed il prefetto che forse in cuor suo avrebbe voluto recuperarlo deve sprezzantemente silurarlo, come si è detto sopra. Nel settembre del 1925 la situazione provinciale si coglie significativamente da questi scorci di corrispondenza del solito prefetto Rivelli con il Ministero degli Interni. () Riemerge la solita faccenda della estromissione di Galatioto. «La recente riunione al Viminale - scrive il prefetto Rivelli in data 24 settembre 1925 - del direttorio di questa federazione provinciale fascista, sotto la presidenza della E. V. E con l’intervento dell’on. Farinacci e dello scrivente avvenuta ai primi del corrente mese, e il conseguente provvedimento dello scioglimento della federazione stessa, con la nomina del commissario straordinario in persona dell’on. Starace, mentre son valsi a chiarire la situazione politica del fascismo in questa provincia, rafforzando il prestigio e la posizione dei quattro deputati fascisti, contro i quali ingiustamente si appuntavano le ostilità del direttorio provinciale, hanno per conseguenza determinato un più ragionevole, più serio e più esplicito indirizzo della politica fascista provinciale.» In tale quadro non c’è più posto per un personaggio come Galatioto che, peraltro, rivestiva ancora una carica presso la provincia. Ed allora, essendo stato "il cav. Girolamo Galatioto () .. il condottiero della campagna ostile ai deputati", questi andava escluso "per incompatibilità politica" che risultava evidente "data la nuova situazione politica della provincia." Per converso, poteva farsi ancora affidamento per la carica provinciale sull’on. Fronda. Ci si può fidare dell’ «on. Avv. Eugenio Fronda - può permettersi di affermare il prefetto del tempo -, leader del locale gruppo cattolico, perché, sebbene capo della locale sezione del Centro cattolico, ha dato già prova nelle elezioni generali politiche del 6 aprile 1924 di essere un fedele sostenitore del governo nazionale, e perché nelle prossime elezioni amministrative di questo capoluogo il suo gruppo potrà dare un efficace ed influente aiuto all’esiguo fascio locale per combattere il partito demo-sociale, che è forte ed agguerrito.»

Il passo del prefetto rappresenta una testimonianza della provincia di Agrigento di eccezionale valore. Dunque, sino al settembre del 1925 si pensava ancora in termini elettorali, come se fosse d’attualità il pluralismo politico e partitico. Cattolici e demosociali vengono additati dal prefetto come forze egemoni nell’agrigentino contro un "fascio debole". La logica delle alleanze perdura in periferia o in quella estrema periferia come quella marginale provincia siciliana. Certo, non si era avuto il risultato amministrativo di Palermo. Ma la chiave di lettura dell’evoluzione politica delle realtà periferiche o di quelle agrigentine resta, a livello ufficiale, quella del prefetto Rivelli. E a dire il vero non pare molto simmetrica alla storiografia imperante.

Ciò, invero, non significa che i giudizi in fondo burocratici dei prefetti cogliessero proprio nel segno. La convinzione del funzionario periferico poteva essere fallace ed al centro non si voleva o non si aveva interesse a correggerla.

Non va dimenticato che nel 1925 ministro degli interni era Federzoni, figura di fascista particolare, vicino al re e sicuramente legalista. Le circolari cui accenna il Ragionieri saranno state di taglio dittatoriale; resta al contempo incontrovertibile che proprio sotto Federzoni - e finché restò ministro degli interni - inizia un processo di raddrizzamento della Milizia. Il prefetto Ravelli - l’abbiamo già citato - non mostra tenerezza verso quel corpo separato militare.

Sino al 10 gennaio 1925 prefetto di Agrigento fu Giovanni Antonio Merizzi, di nomina preaventina. A lui vengono indirizzate le famose circolari Federzoni ed è lui che così ragguaglia il ministero in data 7 gennaio 1925 (): « .. presso alcuni comunisti di questo capoluogo sono state sequestrate circolari e stampe di propaganda sovversiva, parecchi bollettini del Comitato esecutivo comunista, elenchi di componenti le cellule ed altro. Sono stati perciò tratti in arresto sei comunisti mentre altri si sono resi irreperibili ...»

Il successivo giorno 10, il prefetto torna a fornire ulteriori ragguagli: « ... Presso avv. Molinari capo del partito popolare di Sciacca è stata sequestrata corrispondenza con deputato on. Aldisio, nella quale contengonsi notizie relative movimento e intendimenti Comitato Centrale opposizione. Sono stati chiusi i seguenti circoli sospetti in linea politica: sezione socialista di Palma di Montechiaro e quella di Licata; sezione "Italia libera" di Campobello di Licata. Sono stati pure chiusi esercizi pubblici che erano ritrovi di sovversivi.»

Ed il 14 gennaio: «.. sono state eseguite altre numerose perquisizioni e sono state in vari comuni revocate licenze di esercizi pubblici che erano ritrovi di persone politicamente sospette. Sono state chiuse le seguenti altre associazioni: a Sciacca il circolo popolare e quello socialista; a Campobello il sodalizio dei sensali; ad Aragona il circolo agrario ed il circolo democratico "Duca di Cesarò"; a Naro l’associazione combattenti e smobilitati ed il circolo manovali; a Palma Montechiaro la sezione socialista unitaria; a Canicattì il circolo operaio e la sezione democratica sociale; a Ravanusa il circolo operaio, il circolo operaio sensali, il circolo giovanile cattolico ed il circolo sportivo [..] Proseguono operazioni per chiudere altri sodalizi politicamente sospetti, perquisizioni domiciliari per rastrellamento armi e munizioni non denunziate e revoche licenze esercizi pubblici.»

Nel febbraio 1925 è già operante in Agrigento il prefetto Rivelli di cui si è avuto modo di citare svariate volte. Il 4 febbraio 1925, questi, sulla scia del suo predecessore, informa il ministero di altri provvedimenti restrittivi. «Pregio assicuare - scrive - la chiusura delle sezioni democratiche sociali di Girgenti, Canicattì ed Aragona e della società agraria di produzione e lavoro di S. Angelo Muxaro ... per ragioni d’ordine pubblico. I relativi locali erano divenuti ritrovi di elementi turbolenti e capaci di sovvertire i poteri dello Stato e perché ivi veniva fatta la più pericolosa propaganda antinazionale ed antifascista". Il linguaggio del nuovo prefetto è trasparentemente più allineato ideologicamente al nuovo corso della politica nazionale. Il 17 marzo del 1925 è in grado di rassicuare il ministro che l’impopolare provvedimento di scioglimento di "Italia libera" è stato adottato anche in quel di Agrigento. Sezioni di "Italia libera" «risultavano costituite solamente in Licata e Campobello di Licata". Esse erano "state sciolte nel gennaio scorso".

Il 5 marzo 1925, dopo appena un mese di permanenza in Agrigento, il prefetto Rivelli è - o si mostra - conoscitore della psicologia delle masse agrigentine. «Provvedimento sospensione funzioni organi centrali amministrativi dell’Associazione Nazionale Combattenti, - telegrafa () - è stato in questa Provincia favorevolmente accolto meno in qualche centro. Data però apatia queste popolazioni provvedimento non è stato eccessivamente commentato ..»



Fra le carte ministeriali troviamo alcuni accenni alla situazione politica e sociale dell’agrigentino, contenuti nelle relazioni del 1925 della M.V.S.N. di Palermo (). La prima relazione risale al 28 febbraio 1925, ed a proposito di Girgenti si allude al contrasto «sorto in seno alla Federazione provinciale» ed ai «motivi che l’avevano determinato». «La situazione - si assicura - però ora è stata così ricomposta. La Federazione Provinciale è stata dal Direttorio Nazionale sciolta e ne affidò la reggenza ai 4 deputati fascisti della provincia on.li Abisso, Palmisano, Riolo e Gangitano ed al cessato Segretario Cav. Galatioto. A quest’ultimo il Direttorio Nazionale ha conferito i poteri di Segretario della reggenza.»

Più esplicito il successivo rapporto del 5 maggio 1925. Quanto a Girgenti «l’andamento della politica provinciale, in seguito allo scioglimento della reggenza e nomina del Commissario Straordinario alla Federazione del P.N.F. nella presona del sig. Prof. Paladino Raffaele, ha subito un ristagno venendo tutto ad innestare sulla dibattuta e nota questione, onde fu necessario il provvedimento della Direzione del P.N.F. La situazione economica della provincia va sempre più migliorando con l’inoltrarsi della stagione. Il malumore del passato, dovuto al rincaro dei viveri, è un po’ attutito per il buon raccolto che si prepara nell’anno agricolo in corso. Il costo dei generi alimentari, però, si mantiene tuttavia relativamente caro: il lieve ribasso di prezzo apportato dalle Commissioni economiche non è stato bene accolto dalle popolazioni, giacché esso, in relazione al diminuito costo del grano è veramente irrisorio. Nel corso del mese è stato in parte superato il grave dissidio economico-sociale fra i zolfatai. I padroni e proprietari di miniere non volevano concedere l’aumento del 15% stabilito sulle paghe giornaliere come da concordato posto dalle organizzazioni sindacali. Venne minacciato uno sciopero generale, che però non si effettuò, in parte dovuto alle tristi condizioni economiche dei lavoratori. Non si deplorano incidenti di sorta. Una certa preoccupazione desta in tutti una certa recrudescenza manifestatasi in questi giorni di delitti vari. Sono in corso misure che sta adottando la P.S.»

Il 1925 si chiude in Agrigento con qualche turbolenza politica, sia pure tutta racchiusa al’interno del movimento fascista.

Un certo Guzzo Giovanni protesta il 13 dicembre da Licata () contro una lunga sequela di violenze che furono denunziate alla Procura generale di Palermo a carico di un funzionario di P.S. che avrebbe impedito di presentare un’altra lista facente capo ai cittadini di Licata di "pura fede fascista". Parla di un "facinoroso bloccamento". In particolare sarebbe stata omessa la distribuzione di certificati elettorali.

Il 14 dicembre il prefetto scrive a Roma che l’on. Starace si era interessato di Licata. "Nella sua opera di epurazione aveva espulso dal partito ex fascisti per gravi atti di indisciplina."

Nel complesso l’anno si conclude all’insegna del vittorioso raffermarsi del fascismo. La solita documentazione ministeriale contiene ora il linguaggio trionfalistico del nuovo regime. «Imponente, delirante dimostrazione per proclamazione eletti lista» telegrafa da Agrigento il 18 dicembre 1925 il prefetto. Il successivo giorno, la relazione prefettizia accenna ad una manifestazione in teoatro dello stesso prefetto, dell’on. Starace, dei deputati fascisti ed altre presonalità politiche "per elezioni amministrative questo capoluogo indette per domani". Ovviamente, tutto è superlativo: "efficace" è il discorso del comm. Altieri, candidato sindaco; ma "robusto, brillantissimo" è il discorso dell’on. Starace "che ha riscosso continui deliranti applausi".

A Grotte si hanno le elezioni in quello stesso giorno (20.12.1925). Su 4281 elettori sono presenti 3711. Votano la lista fascista in 2186. Il fascismo guadagna maggioranza e minoranza. L’avv. Seminerio subentra al commissario prefettizio cav. Fede. La prefettura ragguaglia il ministero anche su tali, minime vicende dello scenario politico agrigentino.



Racalmuto verso il regime fascista.



Racalmuto passò, pressoché inavvertitamente, dal regime della democrazia sociale del duca Colonna di Cesarò a quello fascista. Fu decisione presa dall’alto, subita, ma accettata di buon grado, senza alcuna opposizione. Fu il prefetto a determinare la svolta con lo scioglimento d’imperio dell’amministrazione demo-sociale. Quel che sorprende è il fatto che il regio decreto (23 marzo 1924) con il quale veniva sciolto il consiglio comunale matura in tempi in cui il duca di Cesarò era alleto nel listone nazionale con Mussolini. Gli amministratori locali erano di fede demo-sociale: ciò nonostante vennero travolti da un’inchiesta amministrativa, quanto veritiera ed obiettiva non si riesce bene a valutare. E’ da supporre una frattura tra i politici locali ed i vertici della democrazia sociale. I personaggi che dominavano sulla scena amministrativa racalmutese non sono da giudicare, del resto, campioni di fedeltà politica. Un rinnegamento dall’alto non è da escludere, ma non figura in alcun modo provato.Sindaco in carica risultava un medico: il dottor Nicolò Scimé; il vero dominatore erà, però, un personaggio della nuova borghesia agraria: il commentatore Giuseppe Bartolotta, non proprio un capo mafia, seppure molto temuto dalla locale cosca mafiosa.

E.N. Messana così ci racconta l’ascesa al comune dei due personaggi ():

«A guerra finita gli schieramenti politici del paese sopravvissuti erano il gruppo dei fautori di Marchesano, capeggiato dal Comm. Giuseppe Bartolotta e dal dott. Nicolò Scimé ed il gruppo dei fautori di Gangitano rappresentato dal Comm. Angelo Nalbone e dal dott. Salvatore Busuito. Il primo aveva avuto una specie di scissione. Bartolotta e Scimé erano passati con Guarino Amella, il dott. Enrico Macaluso invece con Abisso. I socialisti antichi, quelli alla De Felice, nell’avv. Calogero Picone Chiodo avevano trovato un degnissimo rappresentante, della stessa levatura di Vincenzo Vella. I due avvocati socialisti non riuscirono in pese a creare una forza elettorale di sinistra vera e propria, perché per la purezza delle loro anime, recependo la concezione marxista, non erano riusciti a liberarsi dell’estremismo ed erano rimasti ancorati ad una forma infantile di intransigenza, affascinante, interessante ma incapace a maturare le coscienze delle masse. E dire che Calogero Picone Chiodo svolse un’attività politica che trascese la limitatezza paesana.



«Egli, figlio del popolo, appena laureato in legge si dedicò all’insegnamento nelle scuole elementari. Poi si dimise dal posto di maestro ed intraprese una densa attività giornalistica. Protestò ed insultò Mussolini per il tradimento della classe operaia, ordito e consumato nel 1919. Fu un oratore felice, trascinatore di folle e contribuì ad avvicinare al socialismo e la gioventù del paese. Lui, col classico cappellolargo dei socialisti dell’epoca, organizzava scioperi e proteste, teneva conferenze, in paese e fuori, tanto da rendersi famoso e notabile nel circondario. Allorché il fascismo soppresse la libertà ed instaurò la dittatura, Calogero Picone Chiodo dovette fuggire da Racalmuto per non incappare in qualche processo davanti il tribunale speciale istituito da Mussolini contro l’opposizione di ogni colore. Peregrinò per l’Italia perseguitato ad ogni istante. Si ridusse a fare il venditore ambulante. Appena avvistato doveva fuggire per non essere arrestato. Dopo tanto girare riparò a Bolzano in casa di Ettore Messana, suo amico d’infanzia ed ex compagno, già vice questore in quella città. I due erano tanto intimi che si chiamavano compari. Ettore Messana intanto una mattina arrivando in questura trovò un telegramma firmato dal Ministro dell’Interno così concepito: "Dicesi ricercato antifascista Calogero Picone Chiodo aggirasi pressi cotesta città, pregasi disporre accurati servizi onde assicurarlo giustizia prima che valichi frontiere."



«Il ministro dell’interno nel ventennio fascista fu quasi sempre lo stesso capo del governo Benito Mussolini. Il telegramma perciò valeva un ordine di Mussolini. Il ricercato era l’ospite suo compare e suo paesano. Tornatosene a casa, aspettò che finisse il pranzo, poi si chiamò in disparte il compare e glielo esibì. Il povero Liddu Chiodo non seppe che dire, Ettore Messana gli assicurò che lo avrebbe messo in salvo lui oltre il confine. Verso sera gli procurò un passaporto con false generalità e lo fece scortare fino ad Insbruk da due agenti. Calogero Picone Chiodo in Austria si affermò, prese moglie e vi rimase fino all’occupazione tedesca, poi passò in Svizzera ed il 25 luglio 1943 in Italia, morì a Milano. Fu anche un medium fortissimo. Scrisse sullo spiritismo parecchie opere, si ricordano "la verità sullo spiritismo" e "L’Immortalità dell’anima", scrisse ancora "il bolscevismo", dove criticò aspramente il leninismo. Calogero Picone Chiodo fu, infine, l’unico fuoriuscito racalmutese del periodo fascista.
[Se prestiamo fede, però, al fascicolo del Casellario Politico Centrale - busta n.° 3951, il personaggio ne esce malconcio e molto meno nobile di quello che il Messana tenta, con la sua incespicante sintassi, di accreditarci. Ma di ciò in seguito, n.d.r.]



«Nel 1919 vi fu una nuova epidemia, il vaiuolo, con le sue vittime e i superstiti sgrefiati dalle cicatrici del terribile male. La sofferenza degli .....
sino a pag. 366]



Riportiamo una relazione della Prefettura di Agrigento, datata 16 dicembre 1919, sulle condizioni dell'ordine pubblico e della sicurezza nella Provincia (cfr. Archivio Centrale dello Stato - Ministero Interno - Ps - 1919, b. 121).



«Da qualche tempo ad opera di aderenti al partito socialista ufficiale, per sfruttare l'attuale momento critico di disagio generale, viene preso pretesto da qualsiasi argomento per creare agitazioni più o meno "ingiustificate". Si cerca così di tener compatte le masse per le prossime lotte elettorali amministrative e di fare opera proficua di propaganda per rafforzare il partito stesso in provincia, che finora ha potuto fare solamente assegnamento su nuclei di scarsa importanza.



«Primo pretesto per il R. Decreto 2 settembre scorso, recante provvedimenti per l'occupazione delle terre incolte. Le associazioni agricole della Provincia, istigati da agitatori messi in giro dalla locale Camera del Lavoro, iniziarono subito una campagna per ottenere dalla Prefettura l'applicazione del decreto suddetto; e tale movimento, iniziato apparentemente con carattere di legalità, degenerò subito in vera e propria agitazione, tendente ad impedire ai proprietari di terre l'aumento dei canoni annui di fitto e la modifica dei patti di mezzadria e si ricorse persino ad intimidazioni su fittavoli e mezzadri per indurli ad abbandonare le terre e renderle incolte, onde facilitare l'occupazione.



«Quest'Ufficio contrappose subito l'opera propria e dei dipendenti funzionari perché‚ l'agitazione non sortisse pratici risultati ed ottenere che i minacciati disordini abortissero ovunque, sia assecondando le trattative di componimenti colà dove i proprietari di terre si erano dimostrati proclivi ad intavolarle, sia provvedendo con i mezzi a disposizione, a tutelare l’ordine pubblico e a fare opera di propaganda per impedire l'abbandono delle terre e la sospensione delle culture intraprese.



«Finita tale agitazione, i socialisti ne inscenarono un’altra ancora. Forti del lodo arbitrale del collegio dei probiviri di Caltanissetta sulle pretese di aumento dei salari avanzate dagli operai di quel bacino minerario, inducono la numerosa classe zolfifera della Provincia ad invocare l'applicazione anche in questa giurisdizione: Aragana, Favara, Cianciana, Racalmuto, Grotte, Comitini abboccano all'amo.



«I proprietari delle miniere però resistono: gli operai di rimando proclamano lo sciopero.



«Quest'Ufficio, nell’interesse dell’ordine pubblico, interviene nella vertenza e dopo pratiche loboriosissime ottenne ovunque la ripresa del lavoro, riuscendo a persuadere le organizzazioni zolfifere che non poteva il lodo accennato applicarsi alle industrie del genere di questa provincia, nella quale la vertenza sorgeva ex novo e che, in ogni caso, dovevansi attendere le deliberazioni della commissione di appello in Roma, cui era stata deferito su ricorso degli industriali la soluzione della controversia. Ottennero però nell’occasione gli zolfatari quasi ovunque aumenti di salario, con pagamento di arretrati da parte degli esercenti, che accogliendo in parte le pretese dei propri lavotarori, volontariamente vi si sobbarcarono.



«Visto abortire anche tale pretesto, i mestatori, che erano ricorsi per mantenere desta l’agitazione anche coll’ausilio di compagni, all’uopo qui venuti da fuori provincia, prova cotesta che le fila del movimento vengono mosse dall’alto, si danno ad aizzare ancora le masse per pretese irregolarità nella distribuzione degli sfarinati nei vari comuni, per la cattiva qualità della farina fornita e per invocare la distribuzione del grano in sostituzione della farina stessa, alla popolazione che ne avesse diritto.



«E così, a Favara si cerca di scimmiottare i Soviet pretendendo che una commissione di operai regoli la distribuzione degli sfarinati; a S. Giovanni, S. Biagio Platani, Cammarata ed altrove si minacciano torbidi e si pretende l'aumento del contingentamento; a S. Stefano Quisquina, rocca del socialismo in Provincia, si crea una vivissima agitazione per ottenere grano invece di farina, pur non disponendosi di mezzi idonei alla macinazione, prendendo a pretesto la cattiva qualità della farina, che, al contrario, è ottima perché‚ fornita da stabilimenti che approvvigionano altri Comuni, nei quali mai sono stati lamentati inconvenienti del genere. In quest'ultimo Comune, ove sorge a tale scopo un comitato permanente di agitazione, si pretende persino impedire alla Commissione Militare di Requisizione il trasporto del frumento requisito e depositato in quei magazzini statali.



«A questo movimento, per ovvie ragioni di tornaconto e di speculazione, è stata trascinata tutta la cittadinanza, e ciò ha costretto quest’Ufficio a dislocare colà un forte nucleo di truppa allo scopo di assicurare il regolare funzionamento delle operazioni di requisizione e il conseguente regolare approvvigionamento della Provincia; d'altra parte si è interessato il Consorzio per addivenire a qualche aumento nell'assegnazione degli sfarinati effettivamente non corrispondenti al bisogno e tali provvedimenti sono valsi ad infrenare i più violenti e a tranquillizzare i più timidi, esasperati al punto da indurre il Sindaco a telegrafare a diversi deputati della Provincia, sia pure di tendenze opposte, perché‚ patrocinassero presso il competente Ministero l'accoglimento dei desiderata della popolazione, anche a costo di dare soddisfazione ai socialisti, avversari irriducibili con l'amministrazione al potere.



«Anche tale agitazione è stata così ridotta in modesti confini. L’ordine pubblico anche in S. Stefano Quisquina tende a ritornare normale.



«E' naturale e logico che il succedersi ininterrotto di tutte queste agitazioni che io riferisco a codesto Ministero perché‚ si renda conto della difficoltà che quest’Ufficio attraversa quotidianamente per far fronte alle esigenze dell’ordine pubblico e per evitare fatti che potrebbero avere su di esso grave ripercussione, ciò implichi lo spostamento continuo dei mezzi limitati di cui dispone, e la peregrinazione continua dall’uno all’altro Comune della Provincia dei nuclei di agenti della Forza Pubblica che sono quindi distratti dai servizi di Istituto e di quelli di Polizia Giudiziaria, nelle campagne in ispecie.



«Tali fatti influiscono evidentemente sulla recrudescenza dei reati e conseguente allarme nella popolazione rurale che non può accudire, con tranquillità, al lavoro dei campi.



«Si aggiunga a tali circostanze la soppressione della locale Tenenza Guardie Città, che contribuisce ad assottigliare il numero degli Agenti disponibili, per quanto sostituiti dai soldati sui quali pochissimo assegnamento può farsi per i servizi di prevenzione e anche di repressione dei reati.



«Anche ciò credo di portare a conoscenza di codesto On.le Ministero perché‚ si compiaccia esaminare benevolmente la possibilità di mettere quest’Ufficio in grado di ovviare agli inconvenienti prospettati, aumentando convenientemente il numero dei carabinieri in Provincia, per potere, sia rafforzando le stazioni, sia costituendo nuclei speciali, porre almeno un argine al dilagare della delinquenza e della propaganda sovversiva che intenderebbe farsi a base di intimidazioni, di sopraffazioni e di violenze.



«IL PREFETTO: Nannetti».



 

Un quadro di grave turbolenza sociale nella Racalmuto dell’agosto del 1920 emerge dai rapporti di polizia e dai ragguagli della prefettura al Ministero degli Interni ( ) Le avvisaglie della rivolta d'estate della popolazione racalmutese si erano avuti l’anno prima per il diffuso malcontento in seno agli zolfatai.

Un telegramma prefettizio (n. 4113 dell'8 luglio 1919) aveva informato il Ministero dell'Interno che «in Racalmuto centro minerario tutti zolfatai scioperarono scopo protesta contro caro-viveri ed iniziarono dimostrazione tosto sedata pronto intervento quel funzionario. Seguito promessa attuazione nuovo calmiere scioperanti si sciolsero.»



Nella successiva estate la faccenda si complica. Per tre giorni (dal 14 al 17 luglio 1920) si hanno - precisa un telegramma della solita prefettura agrigentina:



«dimostrazioni ostili amministrazione comunale Racalmuto, togliendosi a pretesto insufficienza e cattiva distribuzione sfarinati. Pro sindaco e giunta comunale cedendo intimazione folla tumultuante ha rassegnato dimissioni. Nomina R. Commissario imponesi perciò anche come mezzo calmare gli animi. Non avendo assolutamente come provvedere ho delegato funzioni commissario prefettizio al V. Commissario di P.S. Allisio Carlo già mandato in luogo finché‚ non sia possibile sostituirlo. Pregasi ratificare. Prefetto Nannetti.»


Segue un altro dispaccio al Ministero per segnalare che proprio quel diciassette luglio del 1920 una «colonna di circa tremila dimostranti tentò di saccheggiare e incendiare magazzino fave comm. Narbone (sic) un maggiorente dell'amministrazione comunale.» Il prefetto Nannetti soggiunge di avere chiesto al «Comm. Mori [che] sia colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che indispettisce l'on. Abisso[che] sia colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che indispettisce l’on. Abisso. Il Ministero chiede una prima delucidazione al prefetto di Girgenti che tra l'amaro ed il velenoso così replica il 19 luglio:

«on. Abisso che prima era un mio non desiderato laudatore sotto tutti i rapporti, oggi, per suo tornaconto politico, pare abbia cambiato giudizio [..] [E tanto perché a Racalmuto] procedono accertamenti con arresto responsabili, ciò che non si vorrebbe dai partigiani on. Abisso, militanti partito avverso amministrazione comunale, contro cui disordini furono promossi sotto pretesto deficienza servizi approvvigionamento per i quali purtroppo si attraversa un periodo di difficoltà non avendosi rifornimento stabile e non riuscendo che, a stento, con grano requisito di produzione locale, soddisfare giornalmente bisogni popolazione.»



I partigiani dell’on. Abisso, avversari del Nalbone ed altri componenti dell'amministrazione comunale, erano personaggi eccellenti della scena politica e sociale di Racalmuto. L'on. Abisso, per difenderli, lancia un'interrogazione parlamentare, a risposta scritta, il 7 agosto del 1920. Il prefetto è costretto a difendersi. L'iniziale sicumera scema ed ora chiarisce che

«V. Commissario Micucci fu da me fatto sostituire con Allisio e Mazzora perché‚ Pro-Sindaco Racalmuto era fisso nell'idea che funzionario fosse stato influenzato dai suoi avversari, circostanza questa che dimostra infondatezza accusa on. Abisso. Quanto al tenente presidente gruppo requisizione, egli ha affermato non aver mai detto le parole attribuitegli da commissione zolfatai presentatasi 15 dic. mese a quell'ufficio p.s.- Ha pure affermato non avere mai ricevuto denunzie per vendite clandestine di grano a prezzi superiori ai prescritti.»



 

Certo, l'on. Abisso era stato perentorio e sferzante nella sua interrogazione parlamentare. L'onorevole voleva sapere, senza mezzi termini, quali provvedimenti intendeva prendere il Ministero «contro quei funzionari che nel loro impudente partigiano contegno [avevano] provocato gravi tumulti nel comune di Racalmuto». La cronistoria di quei gravi tumulti la troviamo negli stessi documenti ministeriali.

«Telegramma 10417 da Girgenti 5.8.920: partenza ore 21.45 arrivo 6 1,30 - Min. Interni:



«Dal prefetto di Catania è stato trasmesso telegramma ieri di codesto Ministero 17583 relativo interrogazione On. Abisso contro contegno funzionari ai quali imputa tumulti verificatisi Racalmuto dal 14 al 16 decorso luglio. - Premesso che disordini Racalmuto ebbero inizio improvvisamente e che malcontento per deficienza approvvigionamento servì per pretesto avversari amministrazione comunale per abbatterla costringendo pro-sindaco dott. ALAIMO a dimettersi, escludo che unico funzionario in luogo Domenico Micucci all'inizio dei disordini e gli altri V. Commissario Allisio Carlo e dott. Marzani Francesco, colà andati giorno 15 per sostituirlo perché‚ pro-sindaco ne dimostrò convenienza, abbiano provocato essi i tumulti. Devesianzi ai funzionari P.S. se i disordini furono arginati e vinti senza conseguenze per le persone.»



Segue 'dettagliata' del 23.



«Aggiungo per quel conto che dovesse farsene e allo scopo di essere il più possibilmente preciso su ogni circostanza che il 15 luglio Commissione zolfatari, contadini ed operai presentossi ufficio P.S. Racalmuto reclamando sostituzione tenente quel gruppo requisizione cereali che dicevano non aver dato corso denuncia avuta vendita grano prezzo lire 170 al quintale e che alle rimostranze popolazione avrebbe risposto "mangiate patate". In proposito riferii subito presidente Commissione Provinciale requisizione per provvedimenti caso.



«Presidente dispose inchiesta ma ancora non conoscesi risultato che perciò riservomi comunicare avendo fatto speciale sollecitazione. - Prefetto Nannetti -.»


In contemporanea, la Prefettura di Girgenti ragguagliava il Ministero su quelli che definiva ‘i disordini di Racalmuto' nei seguenti termini:

«Trascrivo - esordisce il prefetto Nannetti - il rapporto presentatomi da quel V. Commissario di P.S. - "Con riferimento a precedente corrispondenza telegrafica, pregiomi riferire alla S.V. Ill.ma che in questo Comune serpeggiava un forte malcontento per la deficienza degli sfarinati.


«"La mattina del 14 corrente un gruppo di circa 300 persone, all'arrivo di due autocarri carichi di pasta, li circondavano per impedire che la pasta venisse depositata nel magazzino consorziale per tema di possibili sottrazioni. Intervenuto il V. Commissario sig. Domenico Micucci, detta pasta venne depositata in questo ufficio di P.S.


«"Nel frattempo si raccolsero circa 200 persone, che, precedute dalla bandiera nazionale, si avviarono presso l'abitazione del pro-sindaco con grida di abbasso, reclamando le di lui dimissioni.



«"Contro l'abitazione del pro-sindaco vennero lanciati sassi che frantumarono i vetri di tutte le invetriate.



«"Però, per l'intervento del V. Commissario Sig. Micucci, la folla desistette da altre violenze e si diresse verso la casa comunale con minaccia di saccheggiarla se il pro-sindaco non si fosse dimesso.



«"Poco dopo il dott. Alaimo fece sapere che egli aveva già presentate le proprie dimissioni e la folla ritornò in piazza continuando a protestare per la scarsa distribuzione degli sfarinati. Indi, mercé‚ l'esortazione del predetto funzionario, i dimostranti si sciolsero. Il quindici successivo, si ebbe altro tentativo di dimostrazione, che, senza incidenti, venne sciolta.



«"La sera del 16, alle ore 20 e 15, essendosi ad arte propalata la notizia che l'ill.mo signor Prefetto non aveva accettate le dimissioni del pro-sindaco e trattenuto a Girgenti, in segno di punizione, il V. Commissario sig. Micucci, in Piazza Umberto 1ø s’improvvisò una dimostrazione con grida 'Abbasso l'amministrazione comunale', e per l'abolizione del tesseramento al mulino per la macinazione del grano. I dimostranti percorsero la Via Garibaldi, frantumando molti vetri delle abitazioni private, non esclusi quelli di quell'Ufficio di P.S.; e mentre lo scrivente parlamentava con il Presidente del gruppo della requisizione grano, sig. Tenente Veniero Giuseppe, per un componimento conforme ai desiderata della popolazione, parte dei dimostranti si avviò alla casa del comm. sig. Angelo NALBONE e, quivi, dopo avergli frantumato tutti i vetri, scassinarono la porta di un magazzino sottostante all'abitazione dello stesso e vi appiccarono incendio, per cui, il comm. Nalbone, per richiamare l'attenzione della forza, cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco.



«"Recatomi sul posto con i pochi militari dell'arma presenti, dopo aver subito fugati i dimostranti, mi diedi con l'ausilio anche dei vicini di casa Nalbone, a fare opera di spegnimento. Durante le quali operazioni i dimostranti si riversarono verso l'abitazione del pro-sindaco, ove, oltre di avergli frantumato altri pochi vetri rimasti intatti il giorno avanti, gli devastarono la villetta prospiciente all'abitazione, gli abbatterono parte della ringhiera di ferro che cingeva la villetta dalla parte della strada e tutta quella laterale che divide la villetta dal cortile d'ingresso. Tentarono pure di forzare il portone di entrata, di scassinare la porta del magazzino con cereali e quella della cantina, che resistettero, rubandogli due paia di colombi, cagionandogli un danno complessivo di L. 2.000.-



«"Durante tale vandalismo il Prosindaco cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco per fare ivi accorrere la forza in di lui soccorso, ed in seguito ai quali colpi mi recai subito in luogo con i militari dell'arma, ma il furore popolare aveva già compiuto la sua opera, e, dopo non pochi superati stenti si riuscì a fare gradatamente allontanare la folla.



«"Dalle indagini successivamente svolte si è potuto stabilire che la causale dei disordini non è stato solamente il malcontento per la deficienza degli sfarinati ma l'influenza politico-amministrativa locale dei maggiorenti del partito contrario, per rovesciare l'amministrazione comunale.



«"Accertata la responsabilità degli esecutori dei lamentati danneggiamenti, si è proceduto all'arresto di Macaluso Leonardo di Calogero, di Rizzo Eduardo fu Vincenzo, di Rizzo Francesca di Pietro, di Ippolito Stefana di Gaetano, di Scibetta Luigia fu Luigi e Ansaldo Giovanna fu Mariano. E denunciati, per la loro irreperibilità, i nominati Grego Giuseppe di Vincenzo, Cacciato Pietro d'Ignoti, Chiodo Giuseppe fu Calogero, Campanella Salvatore fu Antonio, Cino Francesco fu Calogero, fratelli Giuseppe e Luigi Lo Bue e Giuseppe Castelli d'Ignoti, siccome tutti esecutori materiali; e denunciati inoltre per istigazione il comm. Giuseppe Bartolotta fu Luigi, l'avv. Emanuele Cavallaro fu Felice, Luigi Messana di Emilio, Alfonso Vinci di Giuseppe, Nicolò Sferrazza di Carmelo, Nestore Falletto fu Luigi, Francesco Caratozzolo fu Felice e l'avv. Calogero Picone Chiodo fu Giuseppe". Il Prefetto Nannetti.»




Quelle suffragette in formato paesano e racalmutese trascondono la nota di colore. Alla testa di quel codazzo manzoniano, tutto preso dal pane e dalla farina in termini di un più o meno convinto populismo, erano donne fiere, irrituali, imperiose, ardenti e passionarie. Ombre fluttuanti nelle memorie dei racalmutesi. Annidda la Pisciara o Carmela l'Acqualora erano come loro se non loro. In una Racalmuto maschilista, prevenuta contro le donne, un po’ codina, quegli esempi di ribellismo femminile sono eccezioni, ma pur sempre casi di rimarchevole ribellismo.



 

PARTE SECONDA


L’AFFERMAZIONE DEL FASCISMO A RACALMUTO




 

Il QUINQUENNIO 1926-1931



L’antifascismo a Racalmuto

.

I paradigmi della società contadina meridionale quali si colgono nella letteratura antifascita di Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) o di Ignazio Silone (Fontamara) non trovano riscontri significativi nella vicenda racalmutese che pure si dispiega tutta in un contesto di contadini e di piccoli proprietari terrieri. Quel che emerge maggiormente è il diverso livello di vita ed il più variegato assetto sociale.

Ci pare esplicativa, invece, del modo di pensare dell’intera comunità nazionale questa pagina de IL CONFORMISTA di Alberto Moravia, espunta ovviamente delle particolarità narrative. Era sorta a Racalmuto, come altrove, una sorta di "simmetria" tra il modo di pensare del singolo ed il fascismo divenuto regime: «come qualcuno che, arredando la propria casa, si preoccupi di collocarvi mobili tutti dellom stesso stile.» «Questa simmetria, [ad ognuno] pareva di leggerla nei fatti degli ultimi anni, in progressivo accrescimento di chiarezza e di importanza [..] Questo progresso [..] piaceva, non [si] sapeva perché, forse perché era facile ravvisarvi una logica più che umana e saperla ravvisare dava un senso di sicurezza e di infallibilità. [..] Questa convinzione era venuta dal nulla, come è da credersi che venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come si intende quando si dice che un’idea è nell’aria. [..] Per simpatia, insomma, dando a questa parola un senso tutto irriflesso, alogico, irrazionale. Una simpatia che si poteva dire soltanto per metafora che veniva dall’aria [..] Questa simpatia, dunque, veniva da zone più profonde [..] non era né superficiale, né abborracciata irrazionalmente e volontariaemnte con ragioni e motivi opinabili, ma legata ad una condizione istintiva e quasi fisiologica, ad una fede, insomma, che [si] condivideva con altri milioni di persone. [Si] faceva tutta una cosa sola con la società e il popolo in cui [ci] si trovava a vivere. [..] [Si] era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata..»a

Massimo Ganci - un uomo di sinistra e quindi piuttosto prevenuto nei confonti del fascismo - non ha molto da dire sul periodo che a noi interessa e nella sua "Sicilia contemporanea" affidata alla ponderosa inziativa del 1979 della Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, si limita ad annotare:

«Dopo le elezioni e la vittoria fascista del ‘24, il quadro cambierà completamente: l’appoggio della mafia diverrà, infatti, deliqualificante e inutle. A mantenere l’ordine nelle campagne e ad accattivarsi i grandi terrieri, non era più necessaria l"onorata società"; poteva farlo, e molto meglio, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Anzi, per accattivarsi ancora di più il ceto dei latifondisti ed anche quello dei piccoli e medi proprietari, bisognava liberare le campagne dei gabelloti mafiosi che impedivano ai signori addirittura il libero accesso alle loro terre e taglieggiavano i metateri e i braccianti.

«Di qui l’operazione Mori, che con sistemi ‘forti’, dal 1920 al 1930, realizzò, nelle quattroprovince dell’isola, una spetata ‘operazione antimafia’; con paesi interi circondati nottetempo da migliaia di carabinieri, con retate gigantesche, con processoni celebrati in chiese sconsacrate, dato che le normali aule della Corte d’Assise non riuscivano a contenere le migliaia di imputati di associazione a delinquere; il tutto con criteri procedurali piuttosto sbrigativi, che portavano a pesantissime condanne, cui seguiva il confino. I tempi dell’assoluzione per insufficienza di prove, erano tramontati.

«[..] E’ [però] certo che dal 1930 sino al 1943, la tranquillità regnò nella campagna siciliana: per i ricchi, ma anche per i poveri. Di guisa che, se la parola libertà ha un significato concreto e non formale e significa anche sicurezza della vita e degli averi, paradossalmente si deve giungere alla concertante presa d’atto che questo tipo di libertà venne assicurato alle genti siciliane, proprio da una dittatura!

«[..] L’opposizione siciliana al fascismo, durante gli anni 1925-1943 è in gran parte simile a quella di tutta la nazione. Se qualcosa la distinse fu l’impegno minore di quello che caratterizzò altre regioni. Come non era stata all’avanguardia nel favorire l’avvento del fascismo, la Sicilia non lo fu neppure per contestarlo.

«Comunque qualcosa ci fu. Negli anni sino al 25 il dissenso passò attraverso i canali della stampa. Si distinsero per decisione il ‘Babbio’ di Maggiore Di Chiara, il ‘Paff Paff’ di tendenze radicaleggianti, ‘La libertà’ organo dei popolari sturziani (‘La Primavera Cattolica, organo dell’Azione Cattolica siciliana, era invece su posizioni fasciste), tutti stampati a Palermo
.» ()

Restringendo il campo a Racalmuto, l’antifascismo nel periodo che c’interessa (1926-1931) fu ben poca cosa: può dirsi inesistente. La letteratura ci fornisce qualche lume. Il solito grande Sciascia ha nelle sue "Parrocchie di Regalpetra" questi deliziosi aneddoti:

«Mio padre si era iscritto al fascio per lavorare: 3 ma credeva in Mussolini anche se non credeva nel fascismo. Un fratello di mio padre non si preoccupava di queste cose; faceva il sarto e aveva per la caccia una passionecosì totale da trascurare qualsiasi altra cosa. [...] Le poche volte che nelle riunioni della sartoria cadeva su Mussolini mio zio diceva - è un diavolo - per dire che si sapeva fare; oppure per dire che era un delinquente - è un gran cornuta - ma sempre senza passione. Una volta aveva un lavorante milite, voleva andarsene a non so che campeggio, mio zio non voleva perché si era sotto le feste e c’era molto lavoro. Quello andò a dirlo al centurione, il centurione fece chiamare mio zio, gli disse che doveva lasciar libero il lavorante e poi riprenderlo. se no erano guai. Forse da allora mio zio ebbe sul fascismo più appassionata opinione.

«Qualche volta veniva un altro cugino di mio padre. Era ricco. Aveva una voce che faceva tremare i vetri. Oggi è fascista. Allora gridava - ve lo dico io, questo cornuto ci porterà alla rovina. Pensava alle tasse che pagava e diceva - vedrete che ci lascerà nudi, finirà che ci resteranno solo le mani per coprirci il culo. Raccontava poi una storia che solo più tardi sono riuscito a ricostruire. Aveva dato la lira per il monumento a Matteotti e quando più tardi aveva fatto domanda per essere ammesso al fascio, il segretario politico gli aveva detto che il partito non voleva carogne, che gli elenchi di coloro che avevano dato la lira erano nelle sue mani. La cosa colpì; ci si arrovellava. Finché trovò una soluzione: c’era un suo parente povero che aveva cognome e nome uguale al suo; grazie a qualche centinaio di lire gli fece dichiarare, per iscritto e in presenza del segretario politico, che era stato lui, il povero, a dare la lira per Matteotti. Il povero non aveva niente da perdere, magari ad andare in galera gli pareva forse uno scialo in confronto alla vita che faceva.

«Tranne che per qualche piccola invettiva, del fascismo e di Mussolini non sentivo parlare che bene [..] Sapevo che c’erano dei sovversivi, gente che non lovoleva: sentivo parlare di un muratore e di un sellaio, erano socialisti, li mettevano dentro per due o tre giorni e poi li rilasciavano. Passò Farinacci, e il muratore e il sellaio se ne stettero un paio di giorni in camera di sicurezza. Re Boris venne per sposare Giovanna, avevo una cartolina con i due ritratti uniti da un nodo, e i due furono rinchiusi di nuovo. Una volta sentii che avevano messo una bomba al passaggio del re. Poi avevano preso un tale che aveva intenzione di ammazzare Mussolini. Erano cose che mi scuotevano. Odiavo la gente che metteva bombe per il passaggio del re, l’uomo che si portava dietro le bombe per ammazzare Mussolini. E mi pareva strano che non cacciassero per sempre in galera un tipo che sapevo diceva male di Mussolini. Si chiamava Celestino. Dicevano che era stato un debosciato, che non aveva mai lavorato. Era poverissimo, dormiva in uno di quei casottiche un tempo servivano da posti di dazio; sulla paglia, e con la porta sempre aperta. Non aveva camicia, portava solo un vecchio fazzoletto di seta sotto la giacca. Magrissimo, d’inverno vedevi le sue gambe fragili tremare di freddo dentro i leggeri calzoni a tubo. Sempre strozzato dalla voglia di fumare, andava in cerca di cicche più che di pane. Nella banda municipale, un tempo suonava il clarino: e sempre aveva dentro musica, andava fischiettando e agitava a ritmo una bacchetta che non lasciava mai. Lo vedevo scendere ogni mattina, sapevo quale sarebbe stata la sua prima sosta. Era come un rito. C’era nella strada dove io abitavo, un negoziante di stoffe che teneva appesi sugli scaffali ritratti del re, della regina e del duce. C’era anche un Cuore di Gesù col lumino sempre acceso. Il negoziante non amava il fascismo, diceva che Mussolini faceva danno come un porco in una vigna; perciò tollerava la quotidiana visita di Celestino. Il quale si fermava sulla soglia, salutava - bacio le mani, don Cosimo - e poi, guardando il ritratto di Mussolini, diceva - sì, corri pure; ma verrà il giorno che ti vedrò attavvato alla coda di un cavallo. Guardava il re - e tu, cornuto...; e sputava. Dopo una irripetibile attenzione al Cuore di Gesù riprendeva la sua strada fischiettando.

«Non lo mandavano in galera perché sapevano gli avrebbero fatto piacere. Ma una volta un fascista tentò di convincerlo. Parlava e gli dava da fumare. Celestino succhiava avido la sigaretta, e aveva una faccia così intensa e seria che quello credette di aver fatto colpo. Finì il discorso e - sei convinto? Celestino consumò la sigaretta fino a bruciarsi le labbra; e poi - convinto sono, ma il fatto è che se non lo ammazzano non riusciremo a vedere un po’ di luce.

«Si fece il referendum per vedere, dicevano, chi voleva il fascismo e chi no. Si votava nelle scuole. Nel paese non ci fu un solo no. Del resto, l’ultima amministrazione comunale democratica aveva deliberato di dare a Mussolini la cittadinanza onoraria: non sarebbe stato bello dire no a un concittadino tanto grande. Così tutti trovarono il veterinario comunale che dal seggio graziosamente porgeva la scheda con un sì in calligrafia. Non restava che da leccare la colla, chiudere la scheda e ridarla al veterinario. Uno solo, un ex maresciallo delle guardie regie, guastò la giornata al veterinario: sbirciando la scheda con quel sì gliela lasciò in mano, disse - prego, ci sputi lei. E se ne andò tranquillamente. Volevano poi farlo mandare al confino. La frase restò proverbiale in paese, si dice - ci sputi lei - per dire di una cosa che, dichiarata facoltativa, è di fatto obbligatoria.»(4)

«L’ex podestà di Regalpetra [..] godeva di una effettiva popolarità, era stato generoso ed onesto, amministrando il Comune ci aveva rimesso del suo; in tempi di proverbiale rapacità, quest’uomo metteva mano ai suoi soldi per le pubbliche spese, forse nemmeno Mussolini lo avrebbe creduto
.» (5)

Oltre a Sciascia, Racalmuto vanta un altro romanziere. E’ per la verità un italo-americano. In un romanzo del 1973 (pubblicato in Italia nel 1976 da Mursia) fa la parodia ad un libro autobiografico (invero illeggibile) di un prete racalmutese, morto a Palermo il 17 gennaio del 1974 (P. Arrigo Giovanni: Svolta pericolosa, Messina 1969) e vi ingurgita una sua dileggiante raffigurazione dello scrittore Sciascia. Il libro s’intitola "Uomini d’onore - li curnuti". In un certo senso, si scorre la lettura deformante della vita racalmutese dal fascismo alla democrazia cristiana degli anni ‘60. La vicenda fascista racalmutese viene abbozzata, sia pure con la lente deformante dell’albagia siculo-americano, in termini che vanno qui richiamati, magari per provare quello che sicuramente il fascismo non fu.

«Giufà provò un senso di sollievo e di orgoglio durante il regime del Duce, che diede una nuova realtà alla legge e all’ordine. Le case di campagna erano sicure, ora, e le liti venivano composte in tribunale. Si poteva rimanere in campagna durante la notte e se gli agricoltori tornavano ancora ogni sera nella cittadina, ciò accadeva perché erano soliti fare così, diceva Giufà. Se furti, rapimenti assassinii avvenivano come in passato, essi erano posti a carico, ora, di un misterioso bandito che si celava nelle numerose basse gallerie delle miniere già fallite e inattive. Ciò nonostante, si riteneva che il regime del Duce avesse estirpato dal suolo siciliano le radici di quel cancro ‘che definiva se stesso onorata società’; se ne era così certi come si era certi che esso avrebbe recato onore, potenza e gloria a tutta l’Italia, e fose anche alla Sicilia. [...]

«Ma non ci volle molto perché gran parte di quei giovani fossero levati dalle strade e arruolati nell’esercito, a causa dell’andamento della guerra. Anche Giufà fu arruolato nella milizia, inizialmente come cappellano, per diventare poi centurione dei cappellani; ed ebbe una bella uniforme, con tre galloni dorati, e un berretto ricamato d’oro e d’argento, alto dieci centimetri, con un’aquila romana che stringeva tra gli artigli - se la siguardava attentamente - una croce. Era stato lui a chiede di esservi arruolato . Aveva previsto, come avrebbe poi scritto, ‘la grande trasformazione che si sarebbe verificata nella nostra piccola dimenticata città e che il sangue dell’antica stirpe di Roma si sarebbe fatto sentire ancora una volta’. Gli scolaretti, in camicia nera e berretto con nappina, erano arruolati in eserciti da burla, e armati di un fucile di legno facevano, ogni Giovedì, sotto la guida di un insegnante di nuova nomina venuto dagli Abruzzi, delle marce in campagna. Qui tagliavano foglie di cacto in lunghe strisce che legavano insieme con piccole cinghie di cuoio, poi vi mettevano sopra, alta in mezzo, la testa di un’ascia per indicare l’unità, la legge e l’ordine: la severa umanità di coloro che indossavano la camicia nera. Tornavano poi nel tardo pomeriggio, cantando lodi alla giovinezza e al Duce, il cui viso era dipinto ora sui muri delle case del paese con il detto: ‘Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora’.

«In quegli anni egli [il sacerdote cui Ben Morreale dà l’improbabile nome di Giufà, n.d.r.] si rallegrò dell’aria festosa assunta dal paese. Tutti indossavano splendide uniformi e il capostazione aveva ricevuto l’ordine d’indossare sempre la sua, che aveva quattro o cinque galloni sul braccio. Il postino, il personale delle ferrovie, il caposquadra delle miniere, gli impiegati, gli amministratori, tutti possedevano l’uniforme ed erano istruiti dal capo centurione, un uomo grande e grosso che diceva loro con voce severa, mentre stringeva le mascelle e li guardava con occhio truce: - Dobbiamo salutarci reciprocamente, ovunque l’uno veda l’altro. Capito?

«Il capostazione sogghignava ogni volta che salutava Giufà e quando era al circolo dei nobili alzava il braccio per salutare e poi lo ripiegava di colpo sull’altro emettendo con la bocca un suono osceno: era un residuo del principio a cui si ispiravano gli uomi d’onore: qualsiasi autorità, che non fosse la propria, doveva essere messa in ridicolo
.» (6)

Senza veli e con pretese di resoconto storico, si dilunga sul periodo fascista l’altro autore racalmutese: Eugenio Napoleone Messana. Stralciamo vari pasi passi dal suo lavoro: «Racalmuto nella storia della Sicilia».

«Nel 1925 si fece la mascherata delle elezioni politiche italiane (6 bis) messa in scena dal duce. Malgrado il clima terroristco in cui si svolse la campagna elettorale e la precisa sensazione che le cose potevano solo mutare in meglio per il fascismo, Eduardo Romano ed i compagni comunisti di Racalmuto ebbero l’abilità di raccogliere circa quattrocento voti. Questo fatto impressionò i dirigenti del fascio locale e contribuì ad evitare persecuzioni feroci, per tema di generare vittime, che poi avrebbero potuto essere causa di disordini gravi. Non osarono nemmeno, infatti, provvedere con mezzi palesi contro Edoardo Romano, per quanto avvenuto in teatro giorni dopo, durante la serata inaugurale del Mortorio, eseguito quell’anno da una filodrammatica locale, nella quale primeggiava Giovanni Agrò. (7 ) In quella serata era andato a teatro pure Edoardo Romano, perché la sorella signorina, con la quale conviveva, era stata invitata dalle sorelle di Leonardo Abramo ad andarci ed aveva accettato. Edoardo Romano non aveva trovato posto nel palco ov’era la sorella con le Abramo e si era seduto in platea. Prima di cominciare lo spettacolo l’orchestra suonò ‘Giovinezza’, l’inno fascista. Tutti i presenti scattarono in piedi e si tolsero il cappello. Edoardo Romano rimase seduto col capo coperto ed il sigaro in bocca. L’insegnante Emanuele Cavallaro, don Niniddu, gli si avvicinò e con tono categorico gli ordinò - Alzatevi, toglietevi il berretto e smettete di fumare! Il Romano a voce altissima rispose - Non mi alzo, non mi tolgo il cappello e non smetto di fumare! A questa risposta don Cesare Macaluso gridò da un palco - Arrestatelo, arrestatelo! I carabinieri in servizio si erano mossi, ma il popolo scattò a gridare - No, No! L’avv. Carmelo Burruano intervenne e frenò i carabinieri, dicendo di lasciare perdere se non non si sarebbe potuta più fare la recita. Non passò molto tempo però e Romano ebbe perquisita la casa. Non trovarono niente, solo dei proiettili da caccia ed un fucile. Lo denunziarono per detenzione non autorizzata di armi e munizioni, subì un processo, lo difesero Cesare Sessa, Vincenzo Campo e Cigna, in pretura fu condannato a due mesi e quindici giorni, in appello assolto per insufficienza di prove. (8 )

«Le elezioni ebbero il risultato che dovevano avere. L’onorevole Angelo Abisso conseguì dei grandi meriti in quest’occasione. Il 31 gennaio 1926 Curatola infatti deliberò la spesa di L. 50 di contributo ad una medaglia d’oro, che la Sicilia aveva deciso di offrire a questo deputato in segno di gratitudine per aver fatto le ossa al fascismo nella regione. Più avanti lo stesso commissario deliberò ancora L. 200 di contributo alla federazione dei fasci di Girgenti. Inoltre diede l’incarico all’ingegnere Giammusso di Girgenti per redigere il progetto particolareggiato di una rete fognante generale da costruire a Racalmuto e arrivò a deliberare L. 300 di acconto per tali lavori.

«La mascherata elettorale del 1925 si organizzò pure a Racalmuto in occasione delle ultime elezioni amministrative, prima della costituzione della dittatura, o meglio durante le more per la sua solidificazione. L’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti, capo dell’opposizione, aveva scosso la nazione. Il fascismo era lì per cadere e sarebbe caduto se fosse intervenuto il re in difesa dei diritti statutari del regno e contro la violenza, la criminalità e l’assassinio e se l’opposizione non comunista avesse fatto appello alle masse, invece di ritirarsi sull’Aventino in inutili discussioni. Mussolini allora diede la parvenza di rientrare nella legalità convocando alle urne il popolo, prima per le votazioni politiche, poi per le amministrative. Si trattò di sola parvenza, sia per la legge Acerbo che truffò la maggioranza in pro del partito di governo, sia perché le elezioni avvennero sotto il controllo bieco delle squadracce e dei manutengoli assoldati dal fascio. Le persecuzioni, gli arresti, le violenze, le intimidazioni avevano, fin dalla conquista del potere operata da Mussolini, in combutta con Vittorio Emanuele III di Savoia, costretto al ritiro dall’agone politico le forze più genuine del pensiero italiano e siciliano. La repressione della delinquenza era servita come pretesto per reprimere gli esponenti dei vari partiti, coinvolgendoli nelle inchieste e nei processi o a diritto o a torto. (9)

«Ad Agrigento il prefetto Mori aveva di già fatto sentire di che erba si fa la scopa a tutti i liberi pensatori della provincia. Fingendo di lottare la mafia, che invece eludeva, com’è suo costume i processi e passava dalla presenza palese alla presenza nascosta nella vita pubblica, Mori era finito con l’abbattere il prestigio di vari uomini politici e disperdere i seguiti elettorali. In questo clima nel 1926 si votò a Racalmuto, ma per chi?

«Per i fascisti che, dopo essersi fusi coi nazionalisti locali, come avvenne in parecchie parti del regno, fecero un’unica lista. Si presentò una sola lista, la fascista. Gli altri si ritirarono e si misero in posizione di attesa. Non ci fu da preoccuparsi o affaticarsi. Essendo una lista la vittoria era sicura, di campagna elettorale democratica non ce n’era di bisogno. Bastava che si votasse, tanto il voto, andava sempre a loro. I democratici del paese risero di sdegno allorchè si accorsero che si doveva votare solo per una concentrazione di candidati, quella ad ispirazione e composizione fascista. Il listone aggiusta tutto, fu definito.

«Il 18 luglio 1926, alle ore 12 si insediò il consiglio eletto da questa pseudo votazione. Risultarono consiglieri il dottor Enrico Macaluso, il dottor Achille Vinci, Oreste Cavallaro, Carmelo Rosina, l’avv. Baldassare Cavallaro, Luca Giuseppe Brucculeri, l’ins. Giuseppe Mattina, Giuseppe Tulumello, l’avv. Camillo Vinci, Antonino Restivo Ardilla, Salvatore Sbalanca, Carmelo Romano, Calogero Scimè Giancani, Giovanni Salvo, Giovanni Farrauto, Cav, Alfredo Falletti, Giuseppe Cinquemani, Giuseppe Sardo, Calogero Burruano, Luigi Casuccio, Pietro Buscarino, Luigi Nalbone, Andrea Petrone, l’avv. Salvatore Picone, l’ins. Antonio Muratori, Alfonso Puma, il dottor Calogero Burruano. Sindaco fu eletto, con 18 voti su 29 presenti, il dottor Enrico Macaluso. La giunta fu così composta: Baldassare Cavallaro, Giuseppe Mattina, Salvatore Picone, il dottor Achille Vinci, Giovanni Farrauto ed Antonino Restivo Ardilla. Il dottor Enrico Macaluso in tale data iniziò la sua epoca nella vita pubblica ed amministrativa di Racalmuto. Dico epoca perché tutto il periodo fascista, da allora in poi e fino al’arrivo degli alleati, porta la sua impronta.

«Chi era Enrico Macaluso lo sappiamo da quando al seguito di Marchesano abbiamo visto muovere la politica in questa famiglia ed eleggero suo fratello Vincenzo, il farmacista vecchio, consigliere comunale. [...]

«Gli antifascisti o i discendenti dei vecchi esponenti della politica paesana che, o per dignità propria, o per semplice disavvedutezza non prestarono l’omaggio deferente a lui, mentre imperò, la pagarono cara. I Greco, cordai, dovettero trasferirsi altrove, non poterono facilmente ambientarsi commercialmente, fallirono e si ridussero all’elemosina. Salvatore Greco inteso Cinniredda dovette fuggire. Riparò in America, precisamente nella Virginia. Là organizzò il partito comunista e gli operai nel sindacato rosso. Si fece un nome dirigendo lotte terribili contro il padronato. Subì un attentato e rimase ferito alla testa. Si salvò la vita per miracolo. I Figliola si sparsero per la provincia perché per loro non ci fu più pace a Racalmuto.

«Luigi Scimè, figlio del dottor Nicolò, per aver dato la famosa lira per la corona a Matteotti, mentre sosteneva un concorso, al secondo scritto, venne invitato a lasciare la sede di esami e tornarsene a casa. Coloro chelo privarono di un diritto, non più tale sotto il tallone fascista, risposero al giovane che chiedeva perché lo mandavano via, di andarlo a domandare al suo paese. Eloquentissima allocuzione. Un Cavallaro vinse il concorso di Commissario di pubblica sicurezza ma non potè essere nominato per cattive informazioni date dal paese. Don Michele Di Naro, il vecchio socialista, accerchiato dalle persecuzioni, in un momento di scoraggiamento si suicidò, buttandosi sotto il treno. Era costui una persona intelligentissima, poeta felice in vernacolo, lasciò la moglie e l’unico figlio nella miseria. Vincenzo Vella fece una colletta e comprò alla vedova una macchina per fare calze.

«Gli arresti e le condanne per gli indizi fondati più sui rapporti personali con lui che sulla probalilità o capacità di reato riempirebbero pagine e pagine se si dovessero riportare e ridesterebbero rancori ormai sopiti dal tempo. Basti pensare che era pericoloso andare a comprare medicine in altre farmacie, significava ripercussioni nel lavoro o nella vita privata; non salutarlo incontrandolo valeva dar conto di sè alla milizia o ai carabinieri, sotto forma di sovversivismo o altro aggeggio del genere. Quando decise, per esempio, di ordinare ai contadini di non rientrare più con l’aratro legato alla mula e l’asta che strisciava per terra, perché il rumore lo disturbava, Nicolò Schillaci, ogni sera, cominciò a rientrare in paese con l’asta dell’aratro alzata e la portava a mano fino a quando arrivava a casa., tanto erano grandi il rigorismo e la paura che incombeva don Enrico sulla popolazione. Trovò qualcuno però che gli diede filo da torcere, anche se pagò bene le sue bravate. Una mattina, il lucchetto del negozio Macaluso si trovò unto di sterco umano e con una scritta attaccata, ove si leggeva:

«Qua la faccio/ qua la lascio/ merda al duce/ merda al fascio.

«Il grave oltraggio impose la mobilitazione di tutte le forze per esperire le indagini. Risultò colpevole Giuseppe Collura, lu casinieri, e fu arrestato. Quando lo stavano portando ad Agrigento a San Vito, don Enrico, volle far mostra di un generoso perdono e gli porse una moneta da L. 10, per comprarsi il tabacco in carcere. Il Collura di rimando gliela buttò in faccia. Fu condannato, espiò la pena e tornò in paese. Venne ad essere sospettato di un omicidio, che poi si venne a sapere che non commise per avvenuta spontanea confessione del colpevole a letto di morte, e fu condannato all’ergastolo. Durante il processo andò a testimoniare contro l’imputato don Enrico. L’imputato vedendolo, dalla gabbia gli mollò uno sputo e lo colpì sulla guancia. Allorchè, risultato innocente, il Collura fu scarcerato e tornò in paese, Don Enrico ebbe paura perché il fascio era già caduto e si lasciò assoggettare maledettamente. Collura diceva ‘ma parrinu’ e gli scroccava soldi per vivere, fino a quando trovò una sistemazione decente e cambiò vita. Aveva degli amici don Enrico che gli facevano corona la sera nel negozio all’angolo del corso Garibaldi, e standogli da presso godevano di una illuminata sicurtà, si rischiaravano della sua luce e brillavano di prestigio ed autorità nel paese. Abbiamo presente quel negozio e quelle persone che la sera stavano con un certo occhio a guardare i passanti della piazza con superiorità regale e con l’altra a spiare glu umori del comandante per assuefarsi al discorso ed all’espressione della sua faccia.

«I passanti vedevano quel gruppo con distacco, il distacco della paura per le mezze figure, il distacco dello sdegno per coloro che avevano saputo conservare gelosamente personalità e dignità anche sotto il fascismo. Erano amici di Macaluso gli impiegati del municipio dei tempi, l’ufficiale postale, un falegname, un muratore, Oreste Cavallaro, Luigi Marchese, Giuseppe Mattina, Giuseppe Sicurella, Calogero Rizzo e qualche altro il cui nome ci sfugge. Don Enrico atterrì la popolazione con la sua azione intransigente tanto da fare di Racalmuto un paese senza volto e senza prospettiva, addormentato nella crisi economica, morale e di valori spirituali, rassegnato ad un amaro destino, separato dalla classe dirigente, incline alla soggezione ed all’ipocrita acquiescenza esteriore alla volontà dei tenutari del potere del paese.

«I difetti che produsse il Macaluso nella società racalmutese furono i difetti necessari per potere subire con serenità l’oppressione di una dittatura, quale la fascista, che tendeva a spegnere le volontà agli uomini ai fini di una sola volontà, quella del capo a Roma, come ad Agrigento ed in ogni recondito angolo d’Italia. L’opposizione al regime a poco a poco si affievolì fino a ridursi ai frequentatori di una bottega di merceria, gestita dal sig. Salvatore Giudice in via Matrona, case Tulumello, e gli amici di un barbiere, Calogero Bellavia, inteso Nasone, che aveva il salone in corso Garibaldi, accanto l’odierno negozio di generi alimentari di Carmelo Brucculeri. La merceraia non vendette più perché nessuno vi andava a comprare per paura di essere visto dal podestà. Il salone ridusse i clienti, ma resistette perché divenne il salone dei soli nemici del fascismo. La merceria era chiamata dai fascisti ‘La cucina del demonio’. Don Liddu Nasone fu e rimase indicato come il sovversivo. Il Circolo degli Amici si chiuse in quel periodo perché i suoi soci in maggioranza non si tesserarono al fascio. Nuovi soci non ne entrarono più per paura del libro nero e si esaurì lentamente. Macaluso fu infatti l’uomo del libro nero, lo diceva sempre di annotarsi il nome di chi gli faceva sgarbo, per saperlo colpire al momento opportuno. E siccome faceva sul serio seccava ai più di finire scritto là e si preferiva ingoiare e stare alla larga, quando non si riusciva o non si sentiva di fare il codino come gli altri. Non mancarono i ricorsi contro don Enrico, spesso anonimi, avevano paura di farsi conoscere gli autori, anche se, a dire della gente, si lasciavano individuare e risultavano buoni professionisti con un decoroso passato politico alle spalle. Si attribuì all’avv. Carmelo Burruano un ricorso, l’altro al farmacista Argento.

«Sindaco Don Enrico lo fu poco, perché nel marzo del 1927 si sciolsero tutti i consigli comunali d’Italia ed i comuni furono affidati ai podestà di nomina governativa, che si riduceva a nomina del capo del fascio della provincia. Il podestà doveva rinnovarsi ogni quattro anni e doveva essere collaborato dalla consulta podestarile nei centri grossi, nominata da lui stesso, a cui venivano conferite le funzioni della giunta comunale. Nei piccoli comuni il podestà aveva facoltà di delegare alla firma un cittadino di sua fiducia per la continuità della vita amministrativa in caso di sua assenza. La prima deliberazione podestarile di Racalmuto, come si rileva dagli atti d’archivio del municipio, porta la data del 9 aprile 1927. Enrico Macaluso fu sindaco per meno di nove mesi, poi diventò podestà per intrigo e raccomandazione di Abisso. Alla firma delegò l’ins. Giuseppe Mattina fu Gaetano il 5 novembre dello stesso anno. Da podestà diede meglio sfogo al suo carattere singolare, incline al ripicco ed alla vendetta, pronto al pettegolezzo ed implacabile nell’odio e nell’amore, pretenziodo di continue umiliazioni e di sciocche e melliflue deferenze, fanatico e puerilmente capriccioso.

«Se ebbe dei difetti gravi ed incancellabili, ebbe anche dei pregi encomiabilissimi. Fu onesto fino allo scrupolo. Non rubò nè permise che si rubasse. Ebbe sacro rispetto per l’erario e per tutto ciò che fosse patrimonio del pubblico. Non trasse profitto alcuno dalla carica di podestà e di altre che ne ebbe. Fu infatti presidente del Consorzio delle ‘tre sorgenti’ per molti anni, consigliere del Banco di Sicilia, sciarpa littorio del partito nazionale fascista e console del Touring Club italiano. Ebbe amicizia con tutte le autorità del suo tempo, sia civili, sia militari, sia religiose, relazioni che seppe cattivarsi con la sua straordinaria generosità nel donare. Non calcolò interesse pur di emergere e di acquistare rispetti. In questo campo fu tale la sua prodigalità che può dirsi di aver diviso il suo patrimonio, ed era considerevole, alla gente. Nessun racalmutese può vantarsi di non essere stato un suo debitore. A chi andava a comprare medicinali o radio, o, più tardi elettrodomestici, prima cucine, sedie ed altro, quando chiedeva il conto lui rispondeva ‘Po si nni parla’. Il cliente in altra occasione si dichiarava pronto a pagare e lui ancora rifiutava. Guai ad insistere. Cambiava espressione e grave diveca: ‘I conti a casa mia li debbo fare io’. Era la premessa di una rottura. La gente così facendo, volente o nolente, gli restava vincolata, anche se non mancavano persone che si urtavano di questo vincolo a cui venivano costrette senza la loro volontà. Lui però era felice di poter dire che tutti gli dovevano o, nominando qualche persona che gli mancava di rispetto, dire in farmacia davanti al pubblico, ‘perché nun mmi veni a pagari primu’, quando non la mandava a chiamare e gli intimava l’immediata soluzione del credito. Questa prodigalità sui generis finì col ridurlo in cattive condizioni economiche e sarebbe morto all’elemosina se non avesse posto riparo una ragazza, che a tarda età rese sua figlia adottiva e salvò il salvabile. Il grosso però fu tutto venduto e i soldi divisi ai clienti del suo esercizio e della sua farmacia.

«Nell’attività amministrativa don Enrico pensò prima di portare a conclusione le opere avviate dai suoi predecessori, ma con scarso risultato, perché, non ammettendo interferenze nell sua volontà, finiva col provocare passiva reazione negli uffici o fra coloro che dovevano necessariamente portare avanti le cose, quando non incontrava opposizione dura, da cui scaturivano lunghi processi civili. Il progetto per le fognature, per l’ammontare di L. 900.000 lo approvò il 19 marzo del 1927, ma le fognature si fecero nel 1956, quando il fascismo era morto e sepolto e lui relegato alla sola attività professionale. Collaudò l’esecuzione del contratto con l’impresa elettrica Siculo Lombarda, redatto l’11 febbraio 1925, secondo il quale si costruì in paese la centrale elettrica, nei pressi della stazione, con motore generatore di corrente. Tale motore sfruttava l’acqua della Fontana a mezzo di una pompa aspirante, che in fase eduttiva provocava una cascata sufficiente alla generazione dell’elettricità necessaria a fornire luce agli abitanti ed alimentare 384 lampade ad incandescenza sparse nelle vie dell’abitato, di cui 14 nel corso Garibaldi. Tentò di realizzare il vecchio progetto dell’edificio scolastico, redatto nel 1913 dall’ingegnere Stefano Bianco per una spesa di L. 335.000, aggiornata nel 1919 e portata a L. 735.000, nel 1922 ad 1.300.000, ma non vi riuscì perché provocò un giudizio civile col proprietario del fondo ove doveva essere ubicato, nello spiazzale Palma. L’edificio infatti potè sorgere solo nel 1936, dopo la sua caduta.

«Subito dopo la prima guerra mondiale in Racalmuto si era costituito il comitato pro monumento ai Caduti, stabilendo a presidente il sindaco pro tempore. Si erano raccolte selle somme sufficienti alla costruzione mediante sottoscrizioni civiche ed offerte degli emigrati di America. L’opera era in corso di realizzazione quando subentrò Macaluso a presidente del Comitato. Egli cominciò a rivoluzionare il programma precedente e si venne ad una clamorosa divisione fra i componenti in merito alla forma ed all’ubicazione dell’opera. Questa divisione durò per sempre. Don Enrico non mollava e quelli intralciavano il suo operato. Gli anni passavano ed il paese era rimasto uno dei pochissimi d’Italia a non avere un ricordo degli infelici giovani morti sul campo di battaglia.

«Intanto il 10 settembre del 1929 il podestà deliberava l’offerta di L. 100 del comune per contributo alla lampada votiva per i caduti in guerra di Agrigento, non potendolo fare per i racalmutesi sprovvisti di monumento.

«Quando si fece la nuova strada di circonvallazione, oggi Filippo Villa, Macaluso comprò con i solde del comitato e per conto del comitato un po’ di suolo edificabile di proprietà dei Baiamonte a San Gregorio, prima adibito a mulino per l’epurazione della feccia di mosto. Nel punto d’incontro fra la strada di circonvallazione ed il cosro Garibaldi fece fare un recinto in filo spinato, che sarebbe dovuto diventare, ma non lo fu mai, un’aiuola spartitraffico. Nel mezzo di questo recento vi fece piantare un albero di pino, dedicato ad Arnaldo Mussolini, ma non crebbe e fu estirpato secco nel 1950. Contava di costruire, ove oggi è l’Esso, sul suolo edificabile dell’ex mulino, la casa del fascio ed il monumento ai Caduti. Gli anni passarono e non sorse mai niente. Negli ultimi tempi della dittatura soltanto le basi di un edificio. [...]

«Durante il podesterato del Macaluso, i lavori pubblici furono curati dal di lui fratello Cesare, dottore in agraria, addetto ai sindacati fascisti. Don Cesare era stato in Tripolitania ed aveva visto le strade di là com’erano fatte, le famose strade a mac adam con sottofondo in breccia aggregata con polvere di cava. Pensò d’introdurre questo sistema a Racalmuto, furono divelti quasi tutti i selciati a ciottolato delle strade e cambiate in mac-adam. La riforma ben presto risultò inidonea. La friabilità delle pietre sabbiose ed il clima dell’Africa agevola la durata delle vie fatte con questo sistema. Le rocce di Racalmuto non essendo nè sabbiose nè friabili, non resistettero all’uso, si frantumarono e si cambiarono in polvere di estate ed in fanfo d’inverno. In via R. Margherita e in Via Asaro d’inverno era un problema passarvi. Se si andava su si dava un passo in avanti e tre all’indietro con i piedi affondati nella mota. Se si andava giù si rischiava di finire a terra con qualche scivolone. Meno male che macchine non ce n’erano tante, se no gli sbandamenti sarebbero stati frequenti e disastrosi. Le macchine allora erano rarissime, le prime Balilla e le Ardita le ebbero Giuseppe Mattina, l’avv. Carmelo Burruano e l’avvocato Luigi Cavallaro, che era funzionario del Banco di Sicilia. Poi si fornirono di macchina i Nalbone e si fecero i primi autisti di piazza, Di Marco e Don Pietro Sedita.

«Macalus ebbe il culto degli alberi e si devono a lui gli alberi che costeggiano la strada che va al padre Eterno e la via Filippo Villa. Altri alberi costeggiano la via Macaluso e Ferdinando Martini, fino al ponte Carmelo e fino alla Stazione ferroviaria. Ne restano pochi perché sono stati, purtroppo, distrutti dai frontisti della strada, dimostrando scarso senso civico. Lo spiazzale Canalotto, oggi occupato dalle case degli zolfatai, sotto Macaluso fu attivato a Palco della Rimembranza e vi sorsero tanti alberi dedicati ai Caduti. Durante l’estate vi si eseguiva ogni Domenica sera un concerto bandistico e spesso proiezione cinematografica muta delle pellicole in voga. La musica non suonò più al Canalotto, che cessò di essere meta e ritrovo delle passeggiate estive, verso il 1935, in seguito ad un fatto di sangue avvenuto proprio ai piedi dell’icona attaccata al muro di fronte, lato Ovest. Vi fu assassinato il procuratore del registro Sciascia ed il delitto rimase impunito, perché non si individuarono i colpevoli.

«Don Enrico fece restaurare il teatro riportandolo alla primiera sontuosità, ma non riuscì ad evitare che fosse adibito a sala di proiezione cinematografica. Dapprima era il comune a gestirlo direttamente, poi si diede in appalto, sotto Mattina, a Parisi, indi a Collura e a Bordonaro. Con gli appalti cominciò a rovinarsi il locale. I gestori non avevano interesse a custodire l’iimobile, il quotidiano uso e la vetustà a poco a poco lo resero inagibile.

«Curò il riattamento del municipio, disimpegnando tutti gli ambienti a mezzo del corridoio che collega al salone del lato sud, rimettendoci soldi di tasca propria ed impegnando architetti ed artisti di vaglia. Dopo i patti lateranensi, nella consegna della congrua parte alla chiesa, riuscì a tacitare l’arciprete di allora, Giovanni Casuccio, con la restituzione dell’intero locale di S. Giovanni di Dio a soluzione dei diritti su altri edifici del comune. Tale atto fu abbastanza lodevole perché servì a conservare integra la proprietà al comune del municipio, del cimitero e della chiesa di S. Maria e dell’ex orto delle clarisse, area oggi occupata dal teatro. [...]

« Fra le opere meritorie della sua amministrazione va ricordato l’acquisto dei locali dell’ex Castello del Conte, Lu Cannuni, o palazzo Chiaramontano. Questo edificio era finito in mano ai privati. Alla famiglia Presti la parte di sud est e di sud ovest; l’ingresso, la porta centrale, il salone delle adunanze della Signoria, tutto il versante di nord e le due torri in mano di Padre Cipolla. Ciò dopo che non fu più adibito a carcere. Padre Cipolla ne voleva fare un educandato femminile affidato alle suore domenicane, ma quando nel 1930 fallì, l’immobile, venduto all’asta per L. 2000 (duemila), l’acquistò il Comune.

«Con gli impiegati non fu mai in confidenza. Mantenne il distacco, ma ebbe garbo nei rapporti personali. Tutte le mattine arrivava il primo al Municipio, entrava nel suo abinetto, lasciava la porta aperta e così impegnava i dipendenti ad essere scrupolosi nell’osservanza dell’orario. Col pubblico non fu mai tenero. Usò il confine e l’isola, le vili armi della dittatura fascista, a discrezione [...]

«Un bel giorno .. dovette ingoiare un rospo: venne privato della segreteria politica e fu nominato in sua vece Tito Tinebra. Mobilitò le sue forze ed ingaggiò battaglia. Cadde Tinebra e fu nominato il suo amico Giuseppe Mattina. Si sentì appagato e riprese fiato ad esercitare le sue funzioni di tirannello paesano.

«Il fascismo intanto si realizzava con la sua pesante struttura anche nel paese. Nata l’opera Nazionale Balilla, don Enrico si affrettò ad iscrivere socio perpetuo il comune l’8 gennaio 1928. Nel 1930 l’iscrizione all’opera Nazionale Balilla diventò obbligatoria per tutti i fanciulli e le fanciulle che dovevano frequentare le pubbliche scuole elementari e per gli studenti di ogni ordine e grado. Cominciarono le fastodiose adunate del Sabato e della Domenica, le sfilate estenuanti e le parate stupide fra le vie imbandierate fitte e le bestemmie degli anziani. Le donne scesero pure a sfilare, le maestre e le giovani. A Racalmuto la dirigenza dei fasci femminili la ebbe sempre, nella qualità di fiduciaria, collaborata dalle figlie del farmacista Argento, la maestra Piera Taibi. Le divise omogeneizzarono apertamente i cittadini. L’opposizione però continuava nel segreto a vivere, pur se divenne presto innocua all’arbitrio fascista. Il giornale ‘L’Unità’ arrivava da parigi in un pacchetto con la scritta profumi. Il fattorino postale Salvatore Morreale lo sapeva e portava il pacco a Giovanni Facciponti, in un salone sopra l’attuale negozio di Falco. L’Unità si vendeva una lira la copia, prezzo iperbolico per i tempi e la comprava Vincenzo Vella, Eduardo Romano, Vincenzo Macaluso, Giuseppe Cutaia e qualche altro di nascosto, sapendo che se fossero stati scoperti il confine non glielo avrebbe tolto nessuno.

«Durante tutto il periodo fascista continuarono ad essere comunisti, subire discriminazioni violente e non piegarsi, affrontando fame e disagi, ma rimanendo a Racalmuto Vincenzo Macaluso fu Stefano falegname, Salvatore Jacono calzolaio, Salvatore Dell’Aira muratore, Eduardo Romano, muratore, Giovanni Lo Forte, Di Liberto Carlo, Luigi Leone, Leonardo Abramo Vizzini, Alfonso Tirone Tiberio e qualche altro. Mantenersi iscritto clandestinamente al partito comunista durante il fascismo era una impresa non facile, si trattava rischiare la galera ad ogni istante e la rovina della propria famiglia. Loro furono in continuo contatto con Cesare Sessa a Raffadali. Per lo più vi si recava Eduardo Romano, col pretesto che andava a badare alla campagna dell’avv. Vincenzo Campo, cognato del Sessa. Solo Sessa rimase nell’Agrigentino a reggere le fila del partito comunista. Il dirigente Scarfidi, in seguito ad un’aggressione subita a casa dalle squadre fasciste, dalla quale scampò mediante l’intervento di un alto magistrato, al quale era amico, che, quel giornoper caso, era andato a fargli visita e fu presente, era fuggito e si era rifugiato in un convento. I comunisti di Racalmuto, spesso Romano ed una volta anche Abramo, durante la dittatura andavano anche a presenziare riunioni segrete a Palermo. Avvenivano in una casa in via Albergheria ed erano presiedute dall’onorevole Pilato.

«Ad Eduardo Romano infine è da attribuirsi il merito di avere salvato il grosso del partito, che poi furono quelli che in maggioranza fecero l’abiura a don Enrico, dalle persecuzioni. Infatti, allorchè alla caserma gli chiesero l’elenco dei tesserati, egli fornì un elenco in cui comparvero i notabili e tutti i morti e gli emigrati. Un plauso solenne vada pertanto a costoro vivi e defunti, che ebbero il coraggio di professare le proprie idee affrontando ogni rischio. E ben ha fatto il partito comunista nel 1961 ad offrire una medaglia di bronzo ed il diploma degli otto lustri di fedeltà ai superstit, perché le nuove generazioni potessero conoscere ed ammirare gli uomini tenaci e fermi nel loro credo anche in clima di difficoltà e divieto. Da Racalmuto poterono avere quest’attestato di riconoscenza, Salvatore Dell’Aira, Di Liberto Carlo e Vincenzo Macaluso. Quest’ultimo alla memoria, per essere deceduto giorni prima. Don Enrico non seppe mai queste cose e dire che aveva sempre fra i piedi Carmelo Romano, il fratello di Eduardo che gli faceva l’amico e badava a tener lungi i sospetti dalla sua casa.

«Lui seppe solo il borbottio della bottega Giudice e del salone Bellavia, ma non potè mai eccpire alcunchè per colpire con carcere e confine il titolare ed i frequentatori. [..]

«Il giovane che sin qua ci ha seguiti ci darà, credo, dell’esagerato, ma prima di giudicare si informi e saprà che il fascismo aveva un decalogo, i cui primi articoli o comandamenti così dicevano - 1) Mussolini ha sempre ragione; 2) le punizioni sono sempre meritate; 3) la Patria si serve anche facendo da guardia ad un bidone di benzina, ecc. ecc.

«Quando vedrà che il governo fascista imponeva il domma dell’infallibilità del suo capo, costringeva la supina accettazione di ogni pena e poneva tutte le attività lavorative al servizio della Patria, per attribuire il delitto di attentato alla sicurezza dello Stato contro ogni inadempienza, si accorgerà che non siamo esagerati e si meravigliera che un popolo di circa 45 milioni di componenti ha sopportato per venti anni tanto obbrobrioso sistema. Coloro che avevano assaporato la libertà democratica mal sopportavano tanta opprimente vuotaggine, ma guai a manifestare la loro avversione, si rischiava il confine o la galera, il domicilio coatto o una serie di legnate e sevizie nelle caserme. Ebbe considerevoli guai Edoardo Romano, per esempio, perché a Giovanni Agrò che gli ingiunse un giorno al campo sportivo di credere, obbedire e combattere, rispose: - Combattere sì, perché se mi chiamano alle armi non mi posso rifiutare, obbedire altrettanto perché se non ubbidisco mi costringono a farlo, ma credere no, perché nessuno può impormi una fede. [...]

«Si nasceva figli della lupa e si aveva una divisa da portare ed un moschetto. Si diventava balilla e la stessa cosa, poi avanguardista, giovane fascista, camicia nera ecc. L’opera nazionale Balilla era stata sostituita dalla Gil, gioventù italiana del littorio, che inquadrava tutta la gioventù della nazione in un casermone rigurgitante odio ed abuso, soverchieria e sbronzerie dei tanti megalomani dell’epoca. Per andare a scuola si doveva presentare la tessera Gil, sia per le elementari che per le medie o superiori, comprese le università, dove oltre al diploma di maturità si doveva esibire il certificato di iscrizione al G.U.F., gioventù universitaria fascista, e l’attestato di avere superato il brevetto sportivo. Senza la tessera Gil non si poteva nemmeno lavorare. A Racalmuto potè rifiutarla un solo giovane, Calogero Macaluso, figlio di un cugino di don Enrico, il quale da solo, o per contatti con Eduardo Romano, diventò comunista. Costui fu raggiunto dai tentacoli della piovra nera del fascismo e fu chiamato in caserma dai carabinieri. Il maresciallo gli disse, fra l’altro, che lo avrebbe arrestato se non prendeva la tessera. Lui ebbe il coraggio di ripondere: - mi arresti pure, è necessario che i nostri compagni in galera ricevino il conforto delle nuove generazioni. - Non fu arrestato perché don Enrico non volle subire l’affronto di far sapere ovunque che un suo omonimo parente non era fascista.

«Nelle scuole si studiava dottrina fascista e cultura militare fino alla università dove pure era la materia obbligatoria di mistica fascista. Prima di andare soldati c’era il premilitare obbligatorio, e qui a suon di nerbo i giovani diciottonni, ogni Sabato pomeriggio, per ore ed ore dovevano stare a fare marce ed istruzioni. A Racalmuto il premilitare si faceva al campo sportivo, lo faceva fare il geometra Luigi Falletti, coadiuvato dal cadetto della milizia Luigi Di Marco e qualche altro. Non so altrove, ma a Racalmuto la borghesia aveva un privilegio, non faceva le istruzioni. Noi studenti facevamo gli elenchi al geometra Falletti e stavamo ogni sabato a guardare. Ricordiamo la nausea e la ribellione che provavamo quando vedevamo schiaffeggiare sonoramente i poveri giovani contadini ed a volte anche bastonare, perché si muovevano sull’attenti o per altro. La nausea ci veniva perché già ai nostri diciotto anni eravamo organizzati da circa due anni nelle file clandestine antifasciste. Alla formazione del nostro pensiero politico, impreciso partiticamente, ma decisamente ugualitario, di sinistra e di pronta opposizione al fascismo, contribuì, oltre la famiglia sempre antifascista alla quale apparteniamo, il nostro insegnante di filosofia Ettore Centineo, che ci schiuse la mente alla democrazia ed alla critica. Siamo entrati nelle organizzazioni allora operanti in Italia per mezzo di Leonardo Sciascia [..] A lui si deve la formazione di un gruppo di studenti antifascisti in Racalmuto e la coscienza della brutalità di quel partito, nonchè della sua carenza ideologica fra gli studenti di ieri e professionisti di oggi in questo paese. Leonardo Sciascia, convinto comunista nel 1938 e 39, quando aveva 17 e 18 anni, riuscì a fare preziose cellule nel paese, si ricordano Angelo Picone, Diego Paradiso e Salvatore Cavallaro, oltre noi e qualche altro fra coloro che collaborarono nei limiti delle loro capacità, compromettendosi magari, a prepare la resistenza contro il fascismo ed a sabotare le organizzazioni della dittatura. [...]

«Feste nazionali sotto il fascismo erano: il 23 marzo, anniversario della fondazione del fascio, il 21 aprile, natale di Roma, l’11 febbraio anniversario del Concordato con la Chiesa, il 24 maggio, entrata in guerra, il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma ed il 4 novembre festa della vittoria. [..] Una mattina di festa nazionale il dottor Giuseppe Cavallaro ebbe inferto dai fascisti racalmutesi un colpo terribile, tale che tarò per sempre la sua salute. Il dottor Cavallaro era un vecchietto senza figli, che ogni giorno con la moglie andava a trovare il suocere e i cognati. Un giorno fu fermato in Via R. Margherita, davanti di Pavia dai militi. Gli chiesero perché non portava la camicia nera quantunque festa nazionale. Il povero dottore rispose di averlo dimenticato, essendo uscito di premura per fare una visita di urgenza. I militi fecero l’addebito e riferirono al segretario politico. Il dottor Cavallaro ebbe ritirata la tessera d’iscrizione al partito nazionale fascista. Tale provvedimento significava la rovina, infatti senza tessera non si poteva esercitare la professione sanitaria, perché l’ordine dei medici lo vietava. Il dottor Cavallaro, sospeso dall’esercizio professionale, si dispiacque tanto, anche se stava economicamente bene, che si ammalò. Non si guarì più e morì alcuni anni dopo. [...]

«La delinquenza però è bene che si dica non finì proprio sotto il fascismo, e la stessa mafia non fu eliminata, infatti ad essa, strumento di repressione contadina, si sostituì lo stato autoriatario fascista, cioè non ve ne fu più bisogno e sembrò essere stata debellata, ma debellata non fu tanto che rinacque così rigogliosa alla caduta del regime, cessarono soltanto le efferatezze del dopo prima guerra mondiale non la criminalità vera e propria. Al fascismo si diede a torto quel merito. Si dimenticò che Sciascia, il ricevitore del registro fu assassinato nel 1935 e c’era il fascismo, Federico Giancani ammazzato barbaramente nel maggio del 1937 e c’era il fascismo, il latitante Ciciruneddu, Rizzo, non potè mai essere preso dalle forze dell’ordine e fu ucciso da uno per la regola del tagione che gravava sulla sua morte ed erano gli anni dal 1936 al 1939 e c’era il fascismo, l’orificeria di don Carmelo Rosina fu scassinata, una prostituta fu trovata con la gola recisa da un rasoio nella sua casa in Via Madonna della Rocca, l’altra fatta a pezzi alla Acqua Amara presso la Torre di Baeri in pieno fascismo. Abbiamo voluto citare i misfatti più eclatanti del periodo fascista, sorvolando i minori, per dimostrare l’infondatezza di quest’affermazione, che, purtroppo, si sente ancora ripetere nelle discussioni di piazza. Il fascismo usò metodi repressivi atroci e questo è vero, mise la pena di morte e la esercitò e questo è pure vero, ma l’una e l’altra non gli fanno onore. Non si scherza con la vita degli uomini, ed essa è sacra e nessuno può toglierla per nessuna ragione. La società può relegare fuori del proprio consorzio il tarato, il reo, ma non sopprimerlo, non ne ha nessun diritto. La repressione poliziesca del fascismo poi era peggio della fucilazione, si trattava delle torture di medievale memoria, praticate nelle caserme dei carabinieri: nerbate fino al sangue, scosse elettriche, fare ingerire acqua satura di sale, legare alla cassetta e tante e tante altre barbarie. Basta dire che l’omicidio di Federico Giancani se lo accollarono parecchie persone incapaci ed innocenti pur di non patire più le torture e poi si vennero a trovare i colpevoli fuori dell’Italia, in Africa dove erano riusciti ad imboscarsi
.» (10)



La traballante prosa del Messana traccia un quadro della situazione politica a Racalmuto duntante il fascismo che va preso - lo ripetiamo - con le molle. Ma qualche elemento di prima mano ce lo fornisce. Sappiamo solo così di antifascisti operanti a Racalmuto. Le loro vicende sono palesemente enfiate. Un riscontro possiamo coglierlo dale schedature della polizia, oggi consultabili presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma.

Secondo il Messana, il maggiore esponente comunista dell’epoca fu Edoardo Roma. Abbiamo visto che la locale caserma dei carabinieri già nel 1925 lo definisce un "pericoloso comunista", portando acqua al mulino dellenfasi antifascista del nostro storico racalmutese. Pericoloso lo fu, però, non a lungo, se lo schedario puntuale e puntiglioso del capo della polizia Arturo Bocchini (11) lo ignora del tutto. Forse a motivo delle influenti protezioni fasciste che al Romano venivano dalle sue parentele bene inserite nel regime. Vi sarà pure un motivo se la famosa medaglia di fedelta quarantennale al PCI non fu conferita nel 1961 ad Edoardo Romano (vedansi le precedenti annotazioni del Messana).

Nelle nostre ricerche a Roma, di racalmutesi finiti negli schedari di polizia durante il fascismo troviamo:

1) Vella Vincenzo;

2) Vella Diego;

3) Picone Chiodo Calogero;

4) Sacerdoti Edmondo;

5) Messana Everardo.

Ma dei cinque sudetti nominativi i veri racalmutesti sono tre (Vella Vincenzo, Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo), nessuno viene schedato in quanto comunista, e i due schedati (Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo) hanno poco di politico.

Vella Vincenzo

, è personaggio di risalto durante i Fasci siciliani, è attivo nell’era prefascista e rientra nei ranghi durante il fascismo. Schedato già dalla questura di Girgenti sin dal primo settembre del 1896, ne è "radiato" l’8 aprile 1936 «tenuto conto della buona condotta e delle prove di ravvedimento» ed essendosi «espresso in senso favorevole al Governo nazionale.»

Nel 1893 si era lanciato nell’agone politico a capo del movimento contadino e zolfataio del luogo, con cipiglio e furore. Agì anche fuori di Racalmuto: lo troviamo impigliato nella repressione dei moti rivoluzionari dei Fasci in quel di Milena. Ecco quel che ci racconta Arturo Petix: «Nel pomeriggio del 27 luglio del 1893, a Milocca, in casa del contadino Luigi Schillaci, posta nella robba Valenti (oggi via Gioberti) si riuniva un gruppo di contadini con lo scopo di costituirsi in fascio dei lavoratori. [...] A quella riunione furono presenti l’Avvocato Vincenzo Vella, presidente del fascio dei lavoratori di Racalmuto e l’insegnante Rinaldo Di Napoli, presidente di quello di Grotte )ASCL, Carp. n. 9, Pubbl. Sicur., lettera del 2 agosto 1893).»( 12). Abbiamo sopra fornito alcuni dati del fascicolo sul Vella dell’Archivio Centrale dello Stato. Li integriamo qui trascrivendo quant’altro vi è annotato.

«N.° 16434 - Prefettura di Girgenti, comune di Racalmuto - Vella Vincenzo fu Giuseppe e della Vincenza Tinebra nato in Racalmuto il 17 ottobre 1868, residente a Racalmuto mandamento della Provincia di Girgenti.- Laureato in giurisprudenza - celibe - Socialista rivoluzionario - statura 1,58 - corporatura robusta, capelli castano scuri, viso oblungo, fronte alta, occhi castani, naso giusto, barba alla mefistofele e di colore castana scura, mento tondo, bocca regolare, espressione fisionomica satirica, abigliamento (sic) abituale, veste decente in nero.

«Riscuote nell’opinione pubblica fama di fanatico stravagante. Di carattere volubile. Di educazione limitata, in quanto che si appartiene a famiglia di esercenti miniere. Di corta intelligenza. Di coltura scarsissima. Ha compiuto gli studi nel liceo ed il corso di università in legge. Non possiede titoli accademici. E’ lavoratore fiacco. Ritrae i mezzi di sostentamento dalla poca proprietà lasciata alla famiglia dall’Avv. Tinebra Vincenzo. Frequenta la compagnia dei pochi affiliati al partito socialista di questo Comune e dei Comuni di Grotte ed Aragona. Mal si comporta nei suoi doveri con la famiglia, di cui dovrebbe essere il sostegno, causa la morte del padre, trascurandola completamente. Non gli sono state affidate cariche amministrative e politiche. E’ iscritto al partito socialista rivoluzionario. Non ha precedentemente appartenuto ad altro partito.

«Ha molta influenza nel partito socialista locale, di cui è il capo e di cui fa il promotore. La sua influenza è circoscritta al luogo dove risiede. E’ stato in corrispondenza epistolare con i componenti il comitato centrale socialista di Palermo, con l’avv. Maniscalco direttore della Giustizia Sociale, coi nominativi Rao Gaetano, Presidente del disciolto fascio dei lavoratori di Canicattì, Di Napoli Rinaldo Presidente del disciolto fascio di Grotte, coll’onorevole Colajanni e col presidente della Federazione Regionale Socialista Lombarda. Non è stato, nè è in relazione epistolare con individui del partito all’Estero. Presentemente è in relazione epistolare col Direttore del periodico ‘La Riscossa’ di Palermo, il presidente del Comitato Regionale della Federazione Socialista Ligure, coi sudetti Di Napoli e Rao, col Direttore del periodico ‘La Lotta di classe’, e dicesi in relazione epistolare con Bosco Garibaldi e l’on. De Felice.

«Non ha dimorato all’estero, nè vi riportò condanne, e non ne fu esplulso. - Ha appertunuto al disciolto fascio dei lavoratori di Racalmuto, con la carica di Presidente. Presentemente non appartiene ad alcuna associazione sovversiva di mutuo soccorso o di altro genere. Durante il 1893 ha collaborato ai periodici sovversivi ‘La Lotta di Classe’ e ‘La Giustizia Sociale’. Di tanto in tanto spedisce corrispondenze alla ‘Riscossa’, ed alla ‘Lotta di Classe’.

-------------

«Riceve i periodici ‘La lotta di classe’ e ‘la Riscossa’ ed opuscoli editi a cura del Comitato Regionale della Federazione socialista Ligure. Fa propaganda fra gli esercenti arti e mestieri, con poco profitto. E’ capace tenere conferenze. Ne ha tenute nel 1893, nel locale di questo disciolto fascio dei lavoratori, e nel domicilio di qualche socialista di qui. - Verso le autorità tiene un contegno sprezzante. Non ha preso parte a manifestazioni del partito cui è ascritto a mezzo della stampa firmando cioè manifesti, programmetti. Ma ha preso parte in occasione della dimostrazione organizzata in questa Stazione ferroviaria il 2 Novembre 1893, al passaggio dell’on. Colajanni, nella quale circostanza il fanatismo dei dimostranti raggiunse il colmo, intervenne la forza pubblica, fu percosso il Deputato di P.S. del tempo, malmenati il Maresciallo ed i militi.

«Nelle elezioni ammimistrative di Racalmuto del 1905 è stato eletto consigliere comunale.
»

[Aggiunta in calce la posteriore data: Girgenti 14 gennaio 1908 - il prefetto Mario Rebucci].

«Prefettura di Girgenti - Cenno biografico del 20 ottobre 1913 - Andatura attempata. - Gode nell’opinione pubblica fama di uomodi poco carattere e di nessuna serietà. D’intelligenza ed educazione medie, è mordace ed aggressivo, quando scrive per i giornali, tanto che ha un frasario tutto suo speciale, fatto di volgare turpiloquio, appunto perché nelle lotte sia politiche che amministrative non sa fare a meno di attaccare in modo triviale le persone degli avversari, invece di combattere le idee. E’ laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate. Di natura fiacca, lavora lo stretto necessario, approfittando di quello che ricava dalla poca proprietà immobiliare a lui lasciata da un suo avo. Tenace nelle lotte, ma non nel carattere, egli varia di continuo e con molta leggerezza di relazioni politiche e di amicizie personali, a seconda della convenienza e dell’opportunità del momento, non si può dire quindi egli abbia in ciò una direttiva sicura, per quanto inclini nella scelta verso gli elementi sovversivi o politicamente esaltati. Si deve a tale sua malleabilità di carattere ed azione se egli sia stato consigliere comunale ed anche assessore supplente. Nella presente lotta politica, egli, transigendo con la sua condotta passata, ha stretto relazione con persone, altra volta attaccate fino all’insulto, per appoggiare la candidatura socialista dell’Avv. Marchesano. Nel biennio 1893-1894 - egli dette pensiero ed azione ai moti convulsionarii dei ‘fasci’ ed ebbe perciò il suo quarto d’ora di influenza e di popolarità, fra gli elementi sovversivi di allora; ma sopravvenuta la repressione egli ritornò quello di prima, anzi fu lì lì per essere inviato a domicilio coatto, a termini dell’art. 3 della legge 19 luglio 1894. [..] Successivamente egli si occupò dei suoi affari privati per cui fece dimora a Delia ed a Casteltermini. Nel presente fa qualche pubblicazione sui giornali della provincia a carattere sovversivo; fa come può, ma con scarso profitto, propaganda fra gli operai ed è presidente della lega di miglioramento tra gli zolfatai di Racalmuto.

«E’ capace di parlare al pubblico, ma non di tenere conferenze vere e proprie, ciò quindi ha fatto sempre che se ne sia presentata l’occasione; in lui però più che la facilità di parola è comune il turpiloquio, che, in fondo, tradisce la sua origine volgare. Peò passato tenne verso l’autorità un contegno altero e sprezzante; ora però si mostra remissivo e rispettoso. Ma ha preso parte a vere e proprie pubbliche manifestazioni di carattere del partito. Nel 1893 intervenne in manifestazioni più o meno violente e, successivamente, in un pubblico spettacolo si lasciò andare a qualche atto inconsulto. Mai fu sottoposto alla pregiudiziale ammonizione e fu solo proposto, ma non assegnato, a domicilio coatto. Non ha subito condanne, ma ha i seguenti precedenti penali. Il 1° settembre 1893 fu arrestato in Milocca per istigazione a delinquere; a 7 maggio 1894 fu assolto dal Tribunale di Girgenti dall’imputazione di violenza e resistenza ad agenti della forza pubblica; a 19 maggio 1894 la camera di consiglio di Girgenti disse non luogo per l’imputazione di tentativo di fare insorgere gli abitanti del regno contro i poteri dello stato. Nello assieme il Vella, per quanto sempre relativamente temibile, non è più il sovversivo di una volta e non è più da ritenersi un socialista veramente combattivo, perché, in fondo, non riesce a farsi pigliare sul serio da alcuno. L’età, il male cronico di cui è affetto e qualche debito hanno fiaccato e piegato il suo carattere, naturalmente a ciò disposto, ed oggi si aggioga al carro di taluni conservatori, liberali d’occasione, con la stessa facilità con la quale si metterebbe loro contro, se gli tornasse opportuno, data anche la sua venalità.»

-----

«Relazione Prefettura: Dall’elenco allegato al n.° 16085 del 3.7.1911 risulta pericoloso. - Girgenti 1912: N.° 1128 del 23.4.1912 - E’ stato rieletto Consigliere Comunale di Racalmuto e poscia nominato assessore. Non tiene più contegno sprezzante con le autorità e si è mostrato favorevole al Governo per la guerra in Libia - Professa sempre idee socialiste e viene pertanto vigilato.»



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«Prefettura: 27 11.1925 - Professa tuttora principi socialisti e non tralascia occasione per fare propaganda antifascista. E’ attentamente sorvegliato. - Prefettura: 21.1.1929. - In data 2.12.1926 venne diffidato ai sensi dell’art. 166 legge P.S. In atto serba regolare condotta morale e politica mantenendosi estraneo ad ogni manifestazione contraria all’attuale Regime. Prefettura: 3.7.1931 - .. socialista rivoluzionario. Continua a tenere buona condotta politica, dedicandosi esclusivamente alla sua professione di avvocato. I suoi atteggiamenti nei riguardi del Regime sono favorevoli e mostra in apparenza di essersi ravveduto. Però non si ritiene opportuno, almeno per ora, di proporlo per la radiazione dallo schedario dei sovversivi, e si continua a esercitare su di lui assidua vigilanza. - Prefettura: 21.2.1933 - Risiede a Racalmuto, dove esercita la professione di procuratore legale presso quella pretura. Non spiega alcuna attività politica e tiene atteggiamento favorevole al Regime. Viene sempre sorvegliato non avendo dato prove sicure di ravvedimento. - Prefettura: 22.12.1934 - Non ha dato luogo a rilievi in linea politica, e nei riguardi del Regime si mostra apparentemente favorevole. Viene vigilato. - Prefettura: 25.9.1935 - Durante il terzo trimestre del corrente anno non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta politica. Viene vigilato.»
(13)



 

* * *

Quanto a Vella Dante Nunziato fu Giuseppe, nato a Racalmuto il 3 marzo 1908, abbiamo fornito in precedenza i dati dello schedario centrale che lo riguardano. Appartenente ad una famiglia di anarchici di Grotte, i suoi legami con Racalmuto sono del tutto accidentali e di mera anagrafe. La madre era una Pedalino Di Rosa, sorella di quello che è stato un affermato notaio di Milano, e discreto verseggiatore in dialetto. Il Pedalino, come si è detto, brigò tanto nel 1930 per farsi riconoscere i meriti di essere stato tra i sansepolcristi del 1919. Il 27 dicembre 1937, il suo nome però viene associato sia pure molto casualmente con quello dell’anarchico Dante Nunziato Vella di cui è zio materno. Il prefetto G. Marzano esclude ogni favoreggiamento, ma si dà il caso che da allora il Pedalino ha qualche screzio col fascismo. Oggi, la figlia tiene a rivendicare un passato (inesistente) antifascista del padre. Ciò ha sorpreso i redattori del locale foglio di Racalmuto Malgrado tutto, che avevano - ed a ragione - visto il Pedalino come un antesignano del fascismo.



* * *



La schedatura di Picone Chiodo Calogero (14) fa emergere una figura che comunque la si giri difficilmente può venire riportata nell’ambito dell’antifascismo. Trattasi, piuttosto, di un avventuriero che opera ai margini della truffa. Certo, siamo in pieno contrasto con la idealizzazione che la lettura locale (il citato libro del Messana e Malgrado tutto) hanno di recente sfornato. Latrscrizione dei dati d’archivio chiarisce meglio l’assunto.

«Picone Chiodo Calogero fu Giuseppe e fu Munisteri Pinò Ignazia, nato a Racalmuto il 17 aprile 1884, qui abitante (Milano), avvocato - 1,68 circa. - Avuta da Agrigento il 14/7/1932 n.° 33032 - 1° gennaio 1930: Cartolina postale di Picone Chiodo all’avv. Sincero Rugarli, corso Umbero I°, 26 Roma. Si parla di libri e di abbonamenti a riviste. La questura di Roma definisce il Rugarli ‘noto socialista schedato’. Non sa nulla sul Picone Chiodo. - 27 febbraio 1930 - Consolato generale di Nizza - Riceve una lettera dall’avv. C. Picone Chiodo Via Tritone 201: Roma 24 febbraio 1930: ‘Ricevo il suo pregiato invito a presentarmi nella Regia Cancelleria per comunicazione che mi riguarda. Trovomi in Italia nostra da circa 15 giorni. Sarei grato a V.S. se volesse farmi conoscere l’oggetto dell’invito, non dovendo più venire a Nizza ..’

«Questura di Roma n. 023885 del 2 aprile 1930: C. Calogero Picone Chiodo .. con recapito presso il notaio Schillaci Guido. - Regia Questura di Roma da quella di Agrigento: Il 16.3.1904 dall’Amministrazione Comunale di Racalmuto il Picone venne incaricato dello insegnamento nella quinta classe elementare e tale incarico tenne sino alla fine del 1907. Laureatosi in legge, nell’ottobre 1907 si recò a New York per accompagnarvi una sorella, e a mezzo di un suo parente, che colà risiedeva da parecchi anni, cercò fortuna facendo il pubblicista, ma non ebbe successo, e l’anno successivo ritornò in patria riprendendo, nel luglio del 1908, l’insegnamento elementare, che tenne sino al febbraio del 1912. Durante la sua permanenza a Racalmuto, esercitò, saltuariamente, anche la professione di avvocato. Nel 1912 si trasferì a Milano, dove, il 26.2.1914, sposò certa Matilde Margherita Ochert da Monaco.

«In seguito a tale matrimonio, e dopo breve permanenza a Monaco, ottenne la rappresentanza di alcune fabbriche tedesche di colori. Durante la guerra fu prima soldato di artiglieria a Messina, e poi Ufficiale presso il distretto militare di Agrigento, ove disimpegnò la carica di aiutante maggiore. Ultimati gli obblighi militari ritornò con la famiglia a Milano, occupandosi nuovamente di colori. Nei primi del 1922, si trasferì a Rovato (Brescia) e nel novembre dello stesso anno ritornò stabilmente a Milano, dove aprì uno studio legale in Via Col di Lana 3, recandosi ad abitare al Viale Ticinese n.° 3.

«Nei primi del 1929 si recò a Parigi allo scopo, come si disse, di pubblicare alcuni libri e di occuparsi di studi spiritici. Già in Italia il Picone aveva pubblicato un libro di sociologia criminale, un altro sul bolscevismo, un opuscoletto della biblioteca Vallardi sulla cambiale, ed un libro di spiritismo intitolato ‘La verità spiritualistica’.

«Ultimamente, da Roma, ha inviato ai conoscenti un biglietto di partecipazione dell’apertura di uno studio legale. Durante la sua permanenza a Racalmuto professò teorie socialiste, ma senza accanimento. Si vuole che a Milano contasse numerose relazioni nell’ambiente socialista. Il predetto risulta di temperamento nervoso, eccitabile, ma oltremodo pavido.

«La Questura di Milano ha comunicato che il Picone ha risieduto in quella città dal 1913 al 1928, epoca in cui si recò all’estero, senza dar luogo a rilievi in linea politica e mantenendo contegno indifferente nei riguardi del Regime.

«Questura di Roma: 8 luglio 1930 - L’avv. Picone Chiodo Calogero è pertito ieri per Monaco di Baviera accompagnato dalla moglie Ockert Matilde fu Adolfo e dai figli Giuseppe, Ignazio ed Isabella.

«27.5.1932- Viene riferito da fonte fiduciaria che il segnalato Picone Chiodo Calogero, avvocato, residente a Parigi al n.° 203 Bld. Voltaire, continua a svolgere attiva propaganda contro il Regime, trattando e criticando violentemente questioni relative al Regime. Benchè apparentemente voglia far credere di non interessarsi di politica, la sua azione è notoriamente dannosa, perché svolta fra elementi intellettuali.

«1° luglio 1932 Prefetto di Agrigento: Risulta di buona condotta morale ed a suo carico non risultano precedenti e pendenze morali. Egli non ha in questi atti precedenti politici, ma è notorio che nel suo Comune di origine professava idee socialiste. Il Picone si allontanò da Racalmuto una prima volta nel 1914, e in un secondo tempo nel 1923. Il 14.2.1914 contrasse matrimonio con certa Occhert Matilde.

«N.° 16434 - Prefettura di Girgenti, comune di Racalmuto - Vella Vincenzo fu Giuseppe e della Vincenza Tinebra nato in Racalmuto il 17 ottobre 1868, residente a Racalmuto mandamento della Provincia di Girgenti.- Laureato in giurisprudenza - celibe - Socialista rivoluzionario - statura 1,58 - corporatura robusta, capelli castano scuri, viso oblungo, fronte alta, occhi castani, naso giusto, barba alla mefistofele e di colore castana scura, mento tondo, bocca regolare, espressione fisionomica satirica, abigliamento (sic) abituale, veste decente in nero.

«Riscuote nell’opinione pubblica fama di fanatico stravagante. Di carattere volubile. Di educazione limitata, in quanto che si appartiene a famiglia di esercenti miniere. Di corta intelligenza. Di coltura scarsissima. Ha compiuto gli studi nel liceo ed il corso di università in legge. Non possiede titoli accademici. E’ lavoratore fiacco. Ritrae i mezzi di sostentamento dalla poca proprietà lasciata alla famiglia dall’Avv. Tinebra Vincenzo. Frequenta la compagnia dei pochi affiliati al partito socialista di questo Comune e dei Comuni di Grotte ed Aragona. Mal si comporta nei suoi doveri con la famiglia, di cui dovrebbe essere il sostegno, causa la morte del padre, trascurandola completamente. Non gli sono state affidate cariche amministrative e politiche. E’ iscritto al partito socialista rivoluzionario. Non ha precedentemente appartenuto ad altro partito.

«Ha molta influenza nel partito socialista locale, di cui è il capo e di cui fa il promotore. La sua influenza è circoscritta al luogo dove risiede. E’ stato in corrispondenza epistolare con i componenti il comitato centrale socialista di Palermo, con l’avv. Maniscalco direttore della Giustizia Sociale, coi nominativi Rao Gaetano, Presidente del disciolto fascio dei lavoratori di Canicattì, Di Napoli Rinaldo Presidente del disciolto fascio di Grotte, coll’onorevole Colajanni e col presidente della Federazione Regionale Socialista Lombarda. Non è stato, nè è in relazione epistolare con individui del partito all’Estero. Presentemente è in relazione epistolare col Direttore del periodico ‘La Riscossa’ di Palermo, il presidente del Comitato Regionale della Federazione Socialista Ligure, coi sudetti Di Napoli e Rao, col Direttore del periodico ‘La Lotta di classe’, e dicesi in relazione epistolare con Bosco Garibaldi e l’on. De Felice.

«Non ha dimorato all’estero, nè vi riportò condanne, e non ne fu esplulso. - Ha appertunuto al disciolto fascio dei lavoratori di Racalmuto, con la carica di Presidente. Presentemente non appartiene ad alcuna associazione sovversiva di mutuo soccorso o di altro genere. Durante il 1893 ha collaborato ai periodici sovversivi ‘La Lotta di Classe’ e ‘La Giustizia Sociale’. Di tanto in tanto spedisce corrispondenze alla ‘Riscossa’, ed alla ‘Lotta di Classe’.

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«Riceve i periodici ‘La lotta di classe’ e ‘la Riscossa’ ed opuscoli editi a cura del Comitato Regionale della Federazione socialista Ligure. Fa propaganda fra gli esercenti arti e mestieri, con poco profitto. E’ capace tenere conferenze. Ne ha tenute nel 1893, nel locale di questo disciolto fascio dei lavoratori, e nel domicilio di qualche socialista di qui. - Verso le autorità tiene un contegno sprezzante. Non ha preso parte a manifestazioni del partito cui è ascritto a mezzo della stampa firmando cioè manifesti, programmetti. Ma ha preso parte in occasione della dimostrazione organizzata in questa Stazione ferroviaria il 2 Novembre 1893, al passaggio dell’on. Colajanni, nella quale circostanza il fanatismo dei dimostranti raggiunse il colmo, intervenne la forza pubblica, fu percosso il Deputato di P.S. del tempo, malmenati il Maresciallo ed i militi.

«Nelle elezioni ammimistrative di Racalmuto del 1905 è stato eletto consigliere comunale.
»

[Aggiunta in calce la posteriore data: Girgenti 14 gennaio 1908 - il prefetto Mario Rebucci].

«Prefettura di Girgenti - Cenno biografico del 20 ottobre 1913 - Andatura attempata. - Gode nell’opinione pubblica fama di uomodi poco carattere e di nessuna serietà. D’intelligenza ed educazione medie, è mordace ed aggressivo, quando scrive per i giornali, tanto che ha un frasario tutto suo speciale, fatto di volgare turpiloquio, appunto perché nelle lotte sia politiche che amministrative non sa fare a meno di attaccare in modo triviale le persone degli avversari, invece di combattere le idee. E’ laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate. Di natura fiacca, lavora lo stretto necessario, approfittando di quello che ricava dalla poca proprietà immobiliare a lui lasciata da un suo avo. Tenace nelle lotte, ma non nel carattere, egli varia di continuo e con molta leggerezza di relazioni politiche e di amicizie personali, a seconda della convenienza e dell’opportunità del momento, non si può dire quindi egli abbia in ciò una direttiva sicura, per quanto inclini nella scelta verso gli elementi sovversivi o politicamente esaltati. Si deve a tale sua malleabilità di carattere ed azione se egli sia stato consigliere comunale ed anche assessore supplente. Nella presente lotta politica, egli, transigendo con la sua condotta passata, ha stretto relazione con persone, altra volta attaccate fino all’insulto, per appoggiare la candidatura socialista dell’Avv. Marchesano. Nel biennio 1893-1894 - egli dette pensiero ed azione ai moti convulsionarii dei ‘fasci’ ed ebbe perciò il suo quarto d’ora di influenza e di popolarità, fra gli elementi sovversivi di allora; ma sopravvenuta la repressione egli ritornò quello di prima, anzi fu lì lì per essere inviato a domicilio coatto, a termini dell’art. 3 della legge 19 luglio 1894. [..] Successivamente egli si occupò dei suoi affari privati per cui fece dimora a Delia ed a Casteltermini. Nel presente fa qualche pubblicazione sui giornali della provincia a carattere sovversivo; fa come può, ma con scarso profitto, propaganda fra gli operai ed è presidente della lega di miglioramento tra gli zolfatai di Racalmuto.

«E’ capace di parlare al pubblico, ma non di tenere conferenze vere e proprie, ciò quindi ha fatto sempre che se ne sia presentata l’occasione; in lui però più che la facilità di parola è comune il turpiloquio, che, in fondo, tradisce la sua origine volgare. Peò passato tenne verso l’autorità un contegno altero e sprezzante; ora però si mostra remissivo e rispettoso. Ma ha preso parte a vere e proprie pubbliche manifestazioni di carattere del partito. Nel 1893 intervenne in manifestazioni più o meno violente e, successivamente, in un pubblico spettacolo si lasciò andare a qualche atto inconsulto. Mai fu sottoposto alla pregiudiziale ammonizione e fu solo proposto, ma non assegnato, a domicilio coatto. Non ha subito condanne, ma ha i seguenti precedenti penali. Il 1° settembre 1893 fu arrestato in Milocca per istigazione a delinquere; a 7 maggio 1894 fu assolto dal Tribunale di Girgenti dall’imputazione di violenza e resistenza ad agenti della forza pubblica; a 19 maggio 1894 la camera di consiglio di Girgenti disse non luogo per l’imputazione di tentativo di fare insorgere gli abitanti del regno contro i poteri dello stato. Nello assieme il Vella, per quanto sempre relativamente temibile, non è più il sovversivo di una volta e non è più da ritenersi un socialista veramente combattivo, perché, in fondo, non riesce a farsi pigliare sul serio da alcuno. L’età, il male cronico di cui è affetto e qualche debito hanno fiaccato e piegato il suo carattere, naturalmente a ciò disposto, ed oggi si aggioga al carro di taluni conservatori, liberali d’occasione, con la stessa facilità con la quale si metterebbe loro contro, se gli tornasse opportuno, data anche la sua venalità.»

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«Relazione Prefettura: Dall’elenco allegato al n.° 16085 del 3.7.1911 risulta pericoloso. - Girgenti 1912: N.° 1128 del 23.4.1912 - E’ stato rieletto Consigliere Comunale di Racalmuto e poscia nominato assessore. Non tiene più contegno sprezzante con le autorità e si è mostrato favorevole al Governo per la guerra in Libia - Professa sempre idee socialiste e viene pertanto vigilato.»



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«Prefettura: 27 11.1925 - Professa tuttora principi socialisti e non tralascia occasione per fare propaganda antifascista. E’ attentamente sorvegliato. - Prefettura: 21.1.1929. - In data 2.12.1926 venne diffidato ai sensi dell’art. 166 legge P.S. In atto serba regolare condotta morale e politica mantenendosi estraneo ad ogni manifestazione contraria all’attuale Regime. Prefettura: 3.7.1931 - .. socialista rivoluzionario. Continua a tenere buona condotta politica, dedicandosi esclusivamente alla sua professione di avvocato. I suoi atteggiamenti nei riguardi del Regime sono favorevoli e mostra in apparenza di essersi ravveduto. Però non si ritiene opportuno, almeno per ora, di proporlo per la radiazione dallo schedario dei sovversivi, e si continua a esercitare su di lui assidua vigilanza. - Prefettura: 21.2.1933 - Risiede a Racalmuto, dove esercita la professione di procuratore legale presso quella pretura. Non spiega alcuna attività politica e tiene atteggiamento favorevole al Regime. Viene sempre sorvegliato non avendo dato prove sicure di ravvedimento. - Prefettura: 22.12.1934 - Non ha dato luogo a rilievi in linea politica, e nei riguardi del Regime si mostra apparentemente favorevole. Viene vigilato. - Prefettura: 25.9.1935 - Durante il terzo trimestre del corrente anno non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta politica. Viene vigilato.»
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Quanto a Vella Dante Nunziato fu Giuseppe, nato a Racalmuto il 3 marzo 1908, abbiamo fornito in precedenza i dati dello schedario centrale che lo riguardano. Appartenente ad una famiglia di anarchici di Grotte, i suoi legami con Racalmuto sono del tutto accidentali e di mera anagrafe. La madre era una Pedalino Di Rosa, sorella di quello che è stato un affermato notaio di Milano, e discreto verseggiatore in dialetto. Il Pedalino, come si è detto, brigò tanto nel 1930 per farsi riconoscere i meriti di essere stato tra i sansepolcristi del 1919. Il 27 dicembre 1937, il suo nome però viene associato sia pure molto casualmente con quello dell’anarchico Dante Nunziato Vella di cui è zio materno. Il prefetto G. Marzano esclude ogni favoreggiamento, ma si dà il caso che da allora il Pedalino ha qualche screzio col fascismo. Oggi, la figlia tiene a rivendicare un passato (inesistente) antifascista del padre. Ciò ha sorpreso i redattori del locale foglio di Racalmuto Malgrado tutto, che avevano - ed a ragione - visto il Pedalino come un antesignano del fascismo.



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La schedatura di Picone Chiodo Calogero (14) fa emergere una figura che comunque la si giri difficilmente può venire riportata nell’ambito dell’antifascismo. Trattasi, piuttosto, di un avventuriero che opera ai margini della truffa. Certo, siamo in pieno contrasto con la idealizzazione che la lettura locale (il citato libro del Messana e Malgrado tutto) hanno di recente sfornato. Latrscrizione dei dati d’archivio chiarisce meglio l’assunto.

«Picone Chiodo Calogero fu Giuseppe e fu Munisteri Pinò Ignazia, nato a Racalmuto il 17 aprile 1884, qui abitante (Milano), avvocato - 1,68 circa. - Avuta da Agrigento il 14/7/1932 n.° 33032 - 1° gennaio 1930: Cartolina postale di Picone Chiodo all’avv. Sincero Rugarli, corso Umbero I°, 26 Roma. Si parla di libri e di abbonamenti a riviste. La questura di Roma definisce il Rugarli ‘noto socialista schedato’. Non sa nulla sul Picone Chiodo. - 27 febbraio 1930 - Consolato generale di Nizza - Riceve una lettera dall’avv. C. Picone Chiodo Via Tritone 201: Roma 24 febbraio 1930: ‘Ricevo il suo pregiato invito a presentarmi nella Regia Cancelleria per comunicazione che mi riguarda. Trovomi in Italia nostra da circa 15 giorni. Sarei grato a V.S. se volesse farmi conoscere l’oggetto dell’invito, non dovendo più venire a Nizza ..’

«Questura di Roma n. 023885 del 2 aprile 1930: C. Calogero Picone Chiodo .. con recapito presso il notaio Schillaci Guido. - Regia Questura di Roma da quella di Agrigento: Il 16.3.1904 dall’Amministrazione Comunale di Racalmuto il Picone venne incaricato dello insegnamento nella quinta classe elementare e tale incarico tenne sino alla fine del 1907. Laureatosi in legge, nell’ottobre 1907 si recò a New York per accompagnarvi una sorella, e a mezzo di un suo parente, che colà risiedeva da parecchi anni, cercò fortuna facendo il pubblicista, ma non ebbe successo, e l’anno successivo ritornò in patria riprendendo, nel luglio del 1908, l’insegnamento elementare, che tenne sino al febbraio del 1912. Durante la sua permanenza a Racalmuto, esercitò, saltuariamente, anche la professione di avvocato. Nel 1912 si trasferì a Milano, dove, il 26.2.1914, sposò certa Matilde Margherita Ochert da Monaco.

«In seguito a tale matrimonio, e dopo breve permanenza a Monaco, ottenne la rappresentanza di alcune fabbriche tedesche di colori. Durante la guerra fu prima soldato di artiglieria a Messina, e poi Ufficiale presso il distretto militare di Agrigento, ove disimpegnò la carica di aiutante maggiore. Ultimati gli obblighi militari ritornò con la famiglia a Milano, occupandosi nuovamente di colori. Nei primi del 1922, si trasferì a Rovato (Brescia) e nel novembre dello stesso anno ritornò stabilmente a Milano, dove aprì uno studio legale in Via Col di Lana 3, recandosi ad abitare al Viale Ticinese n.° 3.

«Nei primi del 1929 si recò a Parigi allo scopo, come si disse, di pubblicare alcuni libri e di occuparsi di studi spiritici. Già in Italia il Picone aveva pubblicato un libro di sociologia criminale, un altro sul bolscevismo, un opuscoletto della biblioteca Vallardi sulla cambiale, ed un libro di spiritismo intitolato ‘La verità spiritualistica’.

«Ultimamente, da Roma, ha inviato ai conoscenti un biglietto di partecipazione dell’apertura di uno studio legale. Durante la sua permanenza a Racalmuto professò teorie socialiste, ma senza accanimento. Si vuole che a Milano contasse numerose relazioni nell’ambiente socialista. Il predetto risulta di temperamento nervoso, eccitabile, ma oltremodo pavido.

«La Questura di Milano ha comunicato che il Picone ha risieduto in quella città dal 1913 al 1928, epoca in cui si recò all’estero, senza dar luogo a rilievi in linea politica e mantenendo contegno indifferente nei riguardi del Regime.

«Questura di Roma: 8 luglio 1930 - L’avv. Picone Chiodo Calogero è pertito ieri per Monaco di Baviera accompagnato dalla moglie Ockert Matilde fu Adolfo e dai figli Giuseppe, Ignazio ed Isabella.

«27.5.1932- Viene riferito da fonte fiduciaria che il segnalato Picone Chiodo Calogero, avvocato, residente a Parigi al n.° 203 Bld. Voltaire, continua a svolgere attiva propaganda contro il Regime, trattando e criticando violentemente questioni relative al Regime. Benchè apparentemente voglia far credere di non interessarsi di politica, la sua azione è notoriamente dannosa, perché svolta fra elementi intellettuali.

«1° luglio 1932 Prefetto di Agrigento: Risulta di buona condotta morale ed a suo carico non risultano precedenti e pendenze morali. Egli non ha in questi atti precedenti politici, ma è notorio che nel suo Comune di origine professava idee socialiste. Il Picone si allontanò da Racalmuto una prima volta nel 1914, e in un secondo tempo nel 1923. Il 14.2.1914 contrasse matrimonio con certa Occhert Matilde.

«Ambasciata Parigi del 26.9.1932: Si riscontra la nota di codesto Ministero, nella quale l’avv. Picone Chiodo è qualificato ‘antifascista’. Tale appellativo non sembra in armonia con le informazioni fornite dalla stessa Prefettura. L’attività svolta a Parigi per la costituzione di una ‘Association Internationale pour la lutte contre le crîme’ lo ha portato a contatto di elementi francesi che nutrono sentimenti massonici ed ostili al Regime, ma non avrebbe avuto, per quanto risulta, alcuna attività antifascista.

«26.9.1932 minuta del Ministero Interno: Il Picone, pertanto, è per lo meno politicamente sospetto, provenendo le informazioni fiduciarie da fonti attendibili, e pertanto egli rimane iscritto nel Casellario politico per quei provvedimenti che questo Ministero crederà di adottare sia per la vigilanza all’estero, sia in caso di un suo eventuale rientro nel Regno.

«13 ottobre 1932 Affari Esteri all’Ambasciata a Parigi: Sono evidenti i suoi legami con noti esponenti della massoneria. Provvedimento. ‘da perquisire, segnalare e vigilare’. 3 dicembre 1932: Detto socialista è scomparso da Parigi e sconoscesi dove possa trovarsi. 28 gennaio 1933 Prefettura di Agrigento: L’Ufficio di P.S. di frontiera di Ventimiglia informa che il 26 gennaio ore 22 è entrato di transito nel Regno, diretto a Monaco di Baviera. Avv. Picone Chiodo, iscritto nella rubrica di frontiera, schedina n.° 35132, e perquisizione ha avuto esito negativo. Idem 2.2.1933: Connazionale avv. Picone Chiodo Calogero, munito passaporto n.° 053285 reg. 1385 rilasciato Questura di Bolzano il 6.8.1928, accompagnato consorte ... è stato perquisito con esito negativo.

«17.3.1933 Affari Esteri, Consolato di Monaco: Ha chiamato il Ciodo per soddisfare il suo debito verso l’editore Schmidt.. Rilascia una lettera a sua difesa [ove si parla di ‘compensazione occulta’ fra debiti e crediti].

«Monaco 8.3.1933 lettera Picone: E’ tuttora pendente un conto che avrebbe dovuto essere definito negli anni 1927-28. Il Drenler .. si vanterà mio ceditore della somma di lire 2.000 ... mi vanto ancora creditore di tutte le provvigioni sugli affari conclusi direttamente dalla ditta con i clienti italiani durante circa sei anni (1920-26 =1927). Non ricordo esattamente Il signor Drenler .. non volle adempiere .. complessivamente non volle liquidare circa lire 4.000 per gli affari da me conclusi.

«23.3.1933 Consolato Monaco di Baviera: L’avv. Picone si è sempre dimostrato un entusiasta del Regime e non ha qui dato motivo a sospetti di antifascismo. Ha fatto anzi domanda per essere iscritto al Fascio di Grasse di recente istituzione. Sarei grato a codesto R. Ministero se volesse comunicarmi in base a quali elementi sono stati formulati i sospetti di antifascismo.

«Minuta M.I. del 4.8.1933: [Accenno ai fatti di Parigi, ma dopo:] ‘questo Ministero prende atto delle favorevoli informazioni fornite dal N.R. Console di Nizza e con provvedimento di pari data dispone la di lui radiazione dal casellario di frontiera e dal novero dei sovversivi.

«8.4.1939: Revoca iscrizione.

«21.12.1940: Picone Chiodo qui domiciliato [Roma] da molti anni in via Compagnoni, 10 non dà luogo a rilievi e nei confronti del Regime mantiene atteggiamento indifferente. Risulta di regolare condotta morale. Esercita la professione di avvocato penale, versa in discrete condizioni economiche.

«28.8.1942: Non dà luogo a rilievi.»



* * *

Lo schedato Edmondo Sacrdoti è un avvocato romano, palesemente ebreo, che con Racalmuto ha in comune solo il fatto di esservi casualmente nato. Il padre - ignoriamo il perché - era astretto alle locali carceri e la moglie, che lo aveva seguito in questa sperduta cittadina dell’agrigentino diede alla luce proprio qui a Racalmuto il piccolo Edmondo il 27 aprile 1888: questo dicono gli atti dello stato civile che siamo andati a rintracciare. Il Sacerdoti non fu poi un grosso antifascista: passa una notte in gattabuia, pensiamo per svista della polizia. Lo stesso Mussolini si premura il giorno dopo di farlo mettere in libertà. Ecco quanto annotato nello schedario (15):

«10 dicembre 1929 - Ministero Interno - Polizia Politica: L’avv. Edmondo Sacerdoti, già iscritto nel partito socialista e noto per le cariche che occupò nel partito stesso nella Capitale, si è allontanato da qualsiasi movimento politico. [Scheda intestata a:] Sacerdoti Edmondo di Cesare e fu Fogger Isabella, nato a Racalmuto (Agrigento) il 27.4.1888. Avvocato residente a Roma - Socialista.»

__-__________

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L’ultimo inquisito - anche in ordine di tempo - dalla polizia fascista ha poco a che fare con

l’antifascismo: sembra un piccolo Sindona anzitempo che cerca di truffare ebrei romani con

promesse di trasferimenti all’estero di capitali per il tramite delle organizzazioni finanziarie

del Vaticano. In combutta con un console della M.V.S.N., il racalmutese Everardo Messana,

trasferitosi a Roma nel 1928, dopo essere messo in congedo dall’Arma dei Carabinieri Reali,

incappa in due ordini di confino politico per tre anni ciascuno nel 1934 e nel 1939 (16).

Questo il profilo ricavabile dai vari rapporti di polizia. Ecco quello che scrive la Regia

Questura di Roma in data 10 febbraio 1934:«Messana Everardo fu Angelo e di Marchioni

[rectius: Mantione] Vincenza, nato a Racalmuto (Agrigento) il 16.9.1902, abitante in Roma

Via Principe Eugenio n. 22 - Denunzia per il confino di Polizia.«Questo Ufficio si è testè

interessato [...] della losca attività affaristica svolta da alcuni individui nelle varie ambigue

categorie di tenutari di case di prostituzione, di biscazzieri e di venditori di fumo. Tra questi è

emersa, in pieno, la figura del nominato MESSANA Everardo. Prospettatasi la bbraio

1934:«Messana Everardo fu Angelo e di Marchioni [rectius: Mantione] Vincenza, nato a

Racalmuto (Agrigento) il 16.9.1902, abitante in Roma Via Principe Eugenio n. 22 - Denunzia

per il confino di Polizia.«Questo Ufficio si è testè interessato [...] della losca attività affaristica

svolta da alcuni individui nelle varie ambigue categorie di tenutari di case di prostituzione, di

biscazzieri e di venditori di fumo. Tra questi è emersa, in pieno, la figura del nominato

MESSANA Everardo. Prospettatasi la possibilità di giocare d’azzardo al noto circolo

Casanova della Capitale, il Messana si assunse la garanzia del pacifico esercizio del giuoco,

a condizione che si fosse versato un premio ‘ai suoi amici della Direzione Generale di P.S.’

di L. 200.000 ridotte poi a 150.000. Tale riduzione, però, com’egli fece comprendere

costituiva per lui un grande sacrificio, in quanto ben poco avrebbe avuto di tale somma. Nel

settembre scorso, essendogli stato parlato dell’eventualità dell’istituzione in Acqui di una

casa dell’Interno. Esso Messana ne parlò al dott. Guido Albergo, già confinato da codesta

On. Commissione, che gli aveva detto di far parte dell’O.V.R.A. e di avere forti addentellati

presso la Direzione Generale della P.S. [..]«E’ agevole rilevare quanta speciosità vi sia nelle

dichiarazioni del Messana i cui rapporti coll’Albergo costituiscono una riprova della sua

attività millantatrice, diffamando le Utorità Statali e la Polizia in ispecie, con l’insinuare la

possibilità, se non la certezza, di poter corrompere funzionari di ogni grado. [..]»Abbiamo,

poi, da un rapporto informativo della Legione Territoriale de Carabinieri di Roma del 3 luglio

1939:«Messana Everardo fu Calogero e fu Mantione Vincenza, nato a Racalmuto (Agrigento)

il 6 settembre 1902, vedovo senza prole. Dal 18 aprile [1939] è associato alle locali carceri

giudiziarie. E’ di razza ariana e professa la religione cattolica. Ha prestato servizio militare

nell’Arma dei CC.RR. dal 24 gennaio 1922 al 23 gennaio 1928, data sotto la quale fu inviato

in congedo dalla legione territoriale di Roma, col grado di brigadiere. Il 12 febbraio 1934,

dalla commissione provinciale di Roma, fu assegnato al confino politico, per la durata di anni

3, per avere in Acqui promesso di far ottenere licenza per casa da giuoco, vantando

inesistenti aderenze ed assicurando di essere in grado di corrompere funzionari. Il 10

gennaio 1937, dopo aver scontata la pena, rientrò dal confino. In conseguenza di tale

precedente, con Decreto del Ministero della Guerra n. 21 in data 5 giugno 1935, venne

radiato dai ruoli dell’Arma ed assegnato come soldato di fanteria in congedo del Distretto

Militare di Roma 1°. Il 19 agosto 1938, fu denunziato



 

________________



dal Commissariato di P.S. Celio, per tentata truffa in danno di varie persone, per aver assicurato loro di essere in grado inviarli in A.O.I. in qualità di autisti mediante compenso, ma il relativo processo non è stato ancora discusso. [...] Recentemente ha svolto illecita attività in materia valutaria ed infatti il comando del Nucleo di Polizia Tributaria Investigativa di Milano, in seguito ad indagini eseguite in quella sede, venne a conoscenza che sulla piazza di Roma, venivano offerti ingenti quantitativi di valuta estera provenienti dallo Stato Città del Vaticano, contro versamenti in lire italiane ad un cambio molto superiore a quello ufficiale. [...]

«Sangalli Massimo dichiarò di aver conosciuto casualmente verso la fine dell’anno scorso, certo Angeli Giulio, il quale gli aveva comunicato che lo Stato Vaticano era in possesso di forte quantitativo di divisa estera appartenente all’obolo di S. Pietro, che desiderva convertire in lire italiane, ad un cambio maggiorato di circa 70% rispetto a quello ufficiale. L’operazione di cambio in argomento era, secondo l’affermazione dell’Angeli, completamente legale, perché il cambio veniva eseguito non in Italia ma nello Stato Vaticano, mentre il passaggio della valuta tra il Vaticano e l’Italia era perfettamente libero. Secondo l’Angeli le lire italiane ricevute dal Vaticano in dipendenza di tale attività, sarebbero state versate, sempre da tale Stato a quello italiano, in conto spese di Spagna ed altro. [...]

«Il Sangalli stava quindi, per porre in relazione il supposto procuratore della ditta ‘Lagomarsino’ (che altro non era che il sottoufficiale del Nucleo di P.T.I. di Milano) con certo Messana Everardo, giunto in quel momento accompagnato dall’Angeli, il quale avrebbe dovuto procurare la divisa estera, costituita da sterline per un controvalore di un milione di lire al cambio di 160. [...]

«Successivamente interrogato, il Messana confermò la dichiarazione del Carrara ma precisò che non intendeva eseguire alcuna illecita operazione valutaria in quanto agiva per conto del console della M.V.S.N. sig. Panphili Entico. [...]

«Da quanto sopra è esposto, risulta provato che il Messana Everardo ha esplicato una attività rilevante, diretta a concludere operazioni valutarie per l’importo di un milione di lire italiane, dichiarando ai contraenti cio quali era entrato in rapporto, che la divisa estera doveva essergli fornita dallo Stato Città Vaticano. [..]
»

* * *

Le farragini della letteratura locale e le nostre ricerche negli archivi (specie in quelli romani) forniscono un quadro che crediamo interessante sullo squarcio di vita racalmutese agli esordi dell’avvento del Regime: negare che almeno inizialmente vi sia stato qualche focolaio antifascista evidentemente non si può. Ma esso fu pochissima cosa, riducibile agli strascichi dell’attivismo di alcuni dirigenti locali del socialismo rivoluzionario. Col 1926, però, tali rimasugli si dissolsero completamente. La statura morale ed ideologica degli uomini del socialismo racalmutese non svetta di certo. Qualche legame con il movimento comunista sembra esservi stato. Il Messana vi si diffonde, ma con evidente enfasi di parte. Racalmuto, ancor prima degli anni del consenso che secondo il De Felice abbracciano il periodo 1929-1936, fu fascista in modo entusiastico e radicale, Dal 1927 senza dubbio. Sciascia ironizza sulla frase ‘fascista sino al midollo’: ma nel nostro caso una qualche rispondenza al vero quel motto di Mussolini ce l’ha. Grande merito di ciò è da attribuire alla figura del primo podestà Enrico Macaluso, esaltato persino dallo stesso Sciascia, bistrattato dal Messana che, però, alquanto contraddittoriamente, finisce col fornire un quadro di positività, almeno per quanto attiene alle doti di onestà amministrativa del Macaluso. E non è poco, come l’attuale rivolta morale contro tangentopoli ampiamente dimostra.



 

Prodromi, avvento ed affermazione del fascismo a Racalmuto


.



Risulta alquanto singolare che il primo momento d’interesse per il fascismo si consumi, a Racalmuto, nell’esclusivo e nobiliare circolo Unione. Era il sedici gennaio 1921. Nel sodalizio reso celebre da Sciascia nelle sue Parrocchie di Regalpetra si volle l’abbonamento al giornale di Mussolini "Popolo d’Italia". Quali movivi vi sottendessero non è dato di sapere. Il verbale n. 4 recita testulamente:

«Abbonamento al giornale Popolo d’Italia: Indi [il 16.1.1921] postoa in discussione l’abbonamento al giornale "Popolo d’Italia", esperitasi la votazione, riesce approvato a maggioranza di voti. Previa lettura e conferma il verbale si sottoscrive. Il presidente: Bartolotta; I soci: G. Grillo e S.Messana - Il Segretario: Sciascia.»

Non si raggiunge l’unanimità, come di solito. Si fa firmare il verbale, inconsuetamente a due soci. Il presidente è Bartolotta, all’epoca potente vicesindaco e notabile del luogo che l’opinione pubblica accreditava come referente della mafia del territorio.

La verbalizzazione del Circolo Unione - diversamente, ad esempio, da quella del Muotuo Soccorso - è estrememante succinta ed è del tutto rituale: ciò conferisce maggior risalto a questa nota sull’abbonamento al giornale di Mussolini agli albori del fascismo. Pensiamo che quell’atto da parte dei ‘galantuomini’ racalmutesi si debba alla svolta, notatasi anche in paese, dell’opinione pubblica, in accentuata fase di disaffezione verso il movimento socialista, in auge nel biennio precedente. Un riscontro lo troviamo nella verbalizzazione del cennato Mutuo Soccorso di Racalmuto. Citiamo da un lavoro dattiloscritto disponibile presso quel circolo (17 :

« Il 18 aprile 1920, il Mutuo Soccorso aveva avuto anche un momento di simpatie socialiste. Ciò, per merito del Vice Presidente Giuseppe SCIASCIA. In una seduta consiliare, sovraccarica di lavoro ed alquanto disordinata, inopinatamente il sig. Sciascia Giuseppe di Giuseppe propone di abbonare il circolo all'«AVANTI!». Il Presidente (ricopriva allora quella carica il sig. Restivo Pantalone Salvatore, un benpensante con nessuna simpatia socialista) «propone di respingere la proposta avendo scopo di sovvertimento della Società». Le votazioni dànno, però, torto al Restivo Pantalone: «su nove aventi diritto al voto, viene approvato l'abbonamento con voti sei contro tre». Non è comunque nelle intenzioni dello Sciascia stravincere o dare troppo peso politico all'episodio. Questi fa verbalizzare che «tiene a dichiarare che, contrariamente all'allusione fatta dal Presidente nel ritenere che l'abbonamento al giornale Avanti sia fatto nell'esclusivo interesse di sovvertimento della nostra società, ha creduto <invece> sottoporre all'approvazione del Consiglio l'abbonamento in parola per scopo soltanto istruttivo e per allargare le cognizioni culturali della società.» Ancor più contrario a quel vezzo socialista il controllo Vincenzo Tinebra. Ma questi non può votare. Si attacca allora all'espediente di rimettere la decisione all'assemblea «trattandosi di un giornale con scopi rivoluzionari e sovversivi». Ma il V. Presidente si oppone perché «ciò non è competenza dell'assemblea». Il consiglio è d'accordo col V. Presidente. La faccenda ha un seguito: il Presidente Restivo Pantalone è uomo d'onore e, quindi, si dimette dalla carica. Porta a scusa di essere stato trattato «con poca cordialità dall'amministrazione». Tante insistenze e la smentita per il tramite di una commissione non valsero a farlo desistere da quelle dimissioni. Ciò agevola il Vice Giuseppe SCIASCIA, che finisce col diventare il numero uno del circolo. Segue il Restivo Pantalone nelle dimissioni anche il controllo Vincenzo Tinebra, che peraltro gli era 'congiunto'. La vicepresidenza SCIASCIA dura, ad ogni buon conto, lo spazio di un mattino. Non ci vien detto neppure perché: le sue dimissioni vengono approvate all'unanimità il giorno 27 maggio 1920. In seconda convocazione, annota il segretario Giuseppe Collura. Subentra nella presidenza Giovanni FANTAUZZO. [...]

« L'anno 1921 si apre con una nuova amministrazione, stavolta tutta conservatrice ed antisocialista. Vi sono tagli persino dittatoriali. Ne è alfiere un personaggio insospettabile sotto tale veste: IGNAZIO INFANTINO. Viene strappata mezza pagina del libro dei verbali. La calligrafia si fa rototondeggiante, linda, precisa. Lo stile è curato. Col 31 gennaio 1921, inizia una nuova epoca al circolo. Contrassegna la restaurazione il nuovo presidente Ignazio Infantino. La sua amministrazione era stata eletta sulla base di una lista che, per la prima volta, viene propagandata su fogli dattiloscritti. Il Vice Presidente è la notoria figura di Baldassare Tinebra. Il vecchio e antisocialista presidente dimissionario Salvatore Restivo Pantalone accetta, ora, di retrocedere al grado di cassiere, pur di essere presente nell'opera di recupero conservatore del Mutuo Soccorso. Tra i consiglieri notiamo personalità come Casuccio Salvatore di Calogero o Rosina Salvatore. Calogero Volpe e Vincenzo Tinebra gradiscono la carica di 'controlli'. A portabandiera vengono chiamati Giuseppe Fantauzzo ed Angelo Collura. La verbalizzazione della prima seduta del nuovo corso val la pena di riportarla pressoché integralmente. «Il presidente, visto il numero legale degli intervenuti, dichiara aperta la seduta e delibera quanto appresso: «1° La Presidenza con l'accordo unanime degli intervenuti, ritenuto che il voto a Vice Segretario era attribuito al signor Scimè Chiodo Giuseppe di Carmelo, perché egli era il candidato proposto dalla lista di opposizione a quella ufficiale, lo proclama a Vice Segretario di questo Sodalizio ad unanimità. - 2° Il consiglio Direttivo ad unanimità, compresi i controlli aventi diritto di voto, ritenuto che il giornale L'AVANTI non risponde alle esigenze delle istituzioni costituzionali, che reggono il nostro Sodalizio, propone la soppressione di detto giornale L'AVANTI, ed ad unanimità si delibera la soppressione, dando mandato al Presidente di sopprimere detto giornale, scrivendo al Direttore di detto giornale, di non più spedire il detto giornale ad onta di essere pagato anticipatamente. [..]»

« Nei primi anni del fascismo, la vita del circolo scorre tranquilla e piuttosto anonima. [..] Qualche segno dell'avvento del regime fascista si ha nel 1926. Il giorno 11 dicembre si verbalizza l'approvazione dell'abbonamento al giornale IL POPOLO D'ITALIA dismettendo la compera del giornale SICILIA NUOVA. Durante la discussione il Consigliere Luigi VELLA si allontana, intuibilmente per dissenso. [...] Si ha la forza per rifiutare l'abbonamento al giornale L'Aquila, nonostante la richiesta promani dalla casa dei Balilla di Agrigento (5 novembre 1929). Ma per il matrimonio del principe di Piemonte, «ad unanimità il consiglio stanzia la somma di lire trecento» (2 gennaio 1930). Il 10 maggio 1930 (anno VIII) «il presidente mette a voti segreti col sistema delle fagiole, per il prelevamento della somma per pagare le tessere agli iscritti del circolo all'O.N.D. oppure pagare personalmente l'iscritto. Visto il risultato ad unanimità di voti, approva il prelevamento della somma dal fondo di cassa e l'iscrizione a corpo.» L'omologazione fascista si è dunque consumata. Presidente è Salvatore Mattina fu Gaetano. Segretario: Collura Alfonso. Era arrivata una circolare mandata dal Podestà, con cui si esigeva l'iscrizione del circolo all'Opera nazionale Dopolavoro. I tempi della libertà di associazione erano definitivamente tramontati. L'assenso era d'obbligo. [..] Le cariche sociali cessano di essere affidate a libere elezioni. «Ritenuto che la nuova amministrazione - viene verbalizzato, con contorta prosa, il 9 dicembre 1932 - sarà approvata prima della fine del c.m. per ordine del Commissario Comunale ddel'O.N.D. sig. Mattina prof. Giuseppe, ed in esito alla circolare n. 8 dell'8 c.m.» al consiglio non rimane altro che procedere ad una commissione consultiva, incaricata di segnalare nominativi graditi.
»



Per avere un’altra testimonianza della propensione del Circolo Unione verso il fascismo dobbiamo, invece, attendere (18) il 1932. E’ di risalto per la nostra ricerca questo verbale:

«Nomina a Soci Onorari: L’anno millenovecentotrentadue il giorno 26 del mese di giugno alle ore 20,30 nella solita sala delle adunanze si è riunita l’assemblea generale straordinaria dei Signori Soci per discutere e deliberare sul seguente:/ Ordine del giorno/ Nomina a Soci Onorari./ Il Presidente/ constatato il numero legale dei Soci presenti in n. 35 dichiara aperta la seduta ed invita l’assemblea a procedere alla nomina a Socio Onorario del concittadino Sansepolcrista Comm. avv. Giuseppe Pedalino.

«Il Socio Rag. Sciascia Vincenzo a questo punto domanda la parola, ed avutone l’assenso dal Presidente dichiara non solo di aderire toto corde alla proposta per la nomina del Comm. Pedalino a Socio onorario di questo Sodalizio, ma di nominare anche, con lui, gli altri nostri illustri concittadini, Generale Egidio Macaluso, il gesuita Padre Francesco Paolo Nalbone, e il gesuita oratore insigne, Padre Antonio Parisi.

«L’assemblea per acclamazione approva la proposta del Presidente e del Rag. Vincenzo Sciascia e dà incarico al Presidente di comunicare tale deliberato agli illustri nuovi Soci onorari. Dopo di che l’Assemblea si scioglie. Previa lettura e conferma il verbale è approvato e sottoscritto. Il Segretario: Vinci. - Il Presidente: Mendola».

Il Pedalino aveva nel 1930 brigato per farsi riconoscere ‘Sansepolcrista’. Nel 1929 v’era stata la celebrazione del decennale dell’adunata del 23 marzo 1919 di piazza S. Sepolcro. I giornali avevano pubblicato l’elenco dei sansepolcristi desunto dal numero del "Popolo d’Italia" del 24 marzo 1919" ed il Pedalino non c’era. (Cfr., ad esempio, L’Impero - quotidiano fascista della sera, Sabato 23 marzo 1929 - VII). (19 ) L’anno successivo, 56 milanesi - tra i quali il nostro Giuseppe Pedalino - mostravano di avere vinto la loro piccola battaglia per il riconoscimento ufficiale si sansepolcristi, come attesta questo telegramma:

«A S.E. Mussolini roma - ricevuto il 23 marzo 1930 ore 19,18 da Milano 89399 - Presenti alla seduta del 21 marzo partecipanti all’adunata gloriosa del 23 marzo 1919 stop Esprimiamo cordiale devoto ringraziamento pel Vostro pensiero benevolo verso di noi stop Avere posto la vecchia guardia accanto autorità ci commuove ed esalta stop Noi chiediamo di servirVi in ogni ora come nella primissima col giuramento con la fede con l’opera con tutto noi stessi stop Pronti alla buona causa[seguono firme: Giuseppe Pedalino è al quindicesimo posto].»

La retorica dei firmatari non era valsa ad impedire una poliziesca attenzione sul loro conto. Viene annotato con matita rossa:"tenere in evidenza tutti nomi", e con matita nera: "Fatte copie per i fasc. rispettivi di tutti i firmatari dell’accluso telegr. - 27.3.1930 VIII".

* * *



Un episodio del locale consiglio comunale desta l’ilare ironia di Leonardo Sciascia e la corrusca pedanteria di Eugenio Napoleone Messana: l’attribuzione della cittadinanza onoraria nel 1923 a S. E. Benito Mussolini. Annotata Sciasca: (20 )

«Dopo il declino dei Lascuda [vale a dire dei Tulumello, n.d.r.] si formarono due fazioni guidate da professionisti, dominavano i medici, ché allora diversa era la professione del medico, a Regalpetra [alias Racalmuto, n.d.r.] dico; [...] Le due fazioni elettorali non si distinguevano tra loro né per colore politico né per programmi; l’unica distinzione stava nel fatto che una fazione lottava senza la mafia el’altra alla mafia si appoggiava, le possibilità di vittoria stavano dalla parte dei mafiosi, ma un risultato imprevisto poteva avvenire che scattasse, sicché i mafiosi non giuocavano aperto pur gettando tutto il loro peso su una parte. I socialisti, come si dice delle puntate a cavallo nel baccarà, quando il banco né tira né paga, non facevano giouco; l’avvocato [Vincenzo Vella, n.d.r] che al tempo dei Fasci Siciliani aveva coraggio e speranza, mugugnava amarezza e delusione.

«Questa arcadia da cui ogni tanto scappava fuori l’ammazzato prosperò fino al 1923, degnamente chiuse la sua vita con questa deliberazione del Consiglio Cominale:

«"L’anno millenoventoventitre nel giorno quattordici del mese di dicembre alle ore diciotto. Il Consiglio Comunale di Regalpetra [Racalmuto, n.d.r.] in seguito ad avvisi di seconda convocazione, diramati e consegnati ai sensi degli articoli 119, 120 e 125 della legge, si è riunito in adunanza straordinaria nella solita sala municipale con l’intervento dei signori ..., ed all’appello nominale risultarono assenti gli altri diciannove consiglieri di cui uno morto, ed essendo in numero legale per validità della deliberazione ... PROPOSTA - Conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini - Il presidente rammenta all’onorevole consesso la viva lotta che molti Comuni Siciliani, compreso il nostro, hanno sostenuto presso i passati governi per la soluzione dell’annoso problema idrico. Finalmente, soggiunge, solo il Governo Fascista ha saputo sollecitamente e pienamente accontentare i voti di quanti di quel dono della natura vanno privi. Di fronte a sì alto beneficio, questo Consiglio Comunale, interprete dei sentimenti di tutto il popolo di Regalpetra, non potrà diversamente esprimere la sua riconoscenza e devozione al Governo Fascista che conferendo la cittadinanza onoraria al suo Capo Supremo S.E. Benito Mussolini - IL CONSIGLIO - a voti unanimie con entusiastiche acclamazioni, ripetute dal pubblico assistente, ha conferito la cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini."

«Così sollecitamente e pienamente il governo fascista risolse il problema idrico che i tubi che dovevano portare l’acqua a Regalpetra giunsero a questo scalo ferroviario nel 1938, furono ammucchiati dietro i magazzini, da principio se ne interessarono i ragazzi, per giuoco vi si inconigliavano dentro, poi l’erba li coprì, restarono dimenticati nell’erba alta. L’acqua arrivò nel 1950, fu festa grande per il paese. In quanto agli undici consiglieri che avevano deliberato per la cittadinanza a Mussolini, un paio restarono nella rete di Mori, gli altri non si iscrissero mai al fascio, masticarono amaro per vent’anni. In compenso furono fascisti quei diciotto (facevano diciannove col morto) che risultarono assenti, e si erano evidentemente assentati per protesta, il giorno della deliberazione.

«Il sindaco quella proposta aveva fatto per guardarsi le spalle, così si illudeva; dopo il telegramma che annunciava a Mussolini la deliberata cittadinanza onoraria, un altro ne fece che denunciava il prefetto come protettore della delinquenza, voleva dire della delinquenza dei fascisti non di quella della mafia: come un fulmine giunse l’ordine di scioglimento del Consiglio comunale, fu nominato commissario il capo dei fascisti regalpetresi. [...]

«Dopo il 23, il diagramma degli omicidi si avalla; poi Mori, con metodi già noti, ramazzò mafiosi e favoreggiatori, ma non si creda riuscisse ad estirparli definitivamente, soltanto nella nostalgia per il fascismo si può credere una simile cosa. Per quel che io ricorso, e più indietro i miei ricordi non vanno, negli anni più euforici del fascismo c’era a Regalpetra, nelle campagne intorno, un latitante cui per comodo tutti i furti e gli incendi di case di campagna, che in quel tempo furono numerosissimi, venivano attribuiti. Fu messa una taglia sul
bandito (che era un proveruomo che doveva scontare una condanna per furto, e a costituirsi non si decideva; viveva con le magre tassazioniche ai galantuomini imponeva); e per la taglia lo ammazzarono, gli diedero alloggio e poi l’ammazzarono: e il fratello del bandito sparò poi, in piazza e a mezzogiorno, all’uomo che quel servigio aveva reso alla società, nell’opinione dei regalpetresi fece giusta vendetta. »

Il Messana (21) spoglia del velo della fantasia l’episodio ed il contesto storico della pagina sciasciana, e con il suo solito approccio politicamente fin troppo scoperto, così ricostruisce la vicenda:

«Il Commendatore Bartolotta, ad un certo punto, cominciò a sentirsi in pericolo personale e sentì bisogno di difesa. Era lui il capo gruppo di maggioranza, l’uomo che aveva da tempo un seguito nel paese e che era riuscito a conquistare il comune nel 1920. I capipopolo erano il bersaglio preferito dei gregari del fascismo. Da ciò la persecuzione a Racalmuto e lo sgomento del commendatore. C’era da cercare un pretesto per allontanare l’occhio grifagno dei fascisti dalla compagine consiliare del paese. L’occasione sembrò trovarsi allorchè Mussolini, già nelle sue qualità di capo del Governo del regno d’Italia, s’interessò del problema idrico della Sicilia. Prima del fascismo erano nati, noi l’abbiamo già visto per il paese che trattiamo, molti consorzi fra comuni per l’approvvigionamento idrico delle popolazioni. Tali consorzi però non avevano potuto iniziare la costruzione degli acquedotti, se non tutti, parte di essi, per mancanza di anticipazione di fondi della cassa Depositi e prestiti e per le remore burocratiche nella approvazione dei progetti. A un certo punto Mussolini promosse una legge che snelliva l’iter per lo sviluppo dei consorzi e ne semplificava le operazioni di finanziamento e quindi di realizzazione delle opere. Siccome Racalmuto era un paese già consorziato nelle ‘Tre Sorgenti’, venne ad essere beneficiato da tale provvedimento legislativo. Il commendatore Bartolotta, prese la palla al balzo e chiese al sindaco Scimè di conferire la cittadinanza onoraria del paese a Benito Mussolini. Egli pensava che ciò avrebbe fatto desistere il prefetto dal perseguitare il consiglio ed avrebbe anche allontanato le insidie che si tendevano contro la sua persona. Il sindaco Scimè convocò il consiglio per il 13 dicembre 1923 alle ore 18 con un solo argomento all’ordine del giorno: Conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini per avere risolto l’annoso problema idrico della Sicilia.

«Malgrado le pressioni e le preghiere di Bartolotta, il 13 dicembre di quell’anno la seduta rimase deserta. non si potè in modo assoluto raggiungere il numero legale di consiglieri presente. Il 14 dicembre alla stessa ora ebbe luogo la seconda convocazione. Non c’era più bisogno delle presenze della metà più uno dei consiglieri in carica per essere valida l’adunanza, per cui ai sensi degli articoli 119,120, 125 della legge comunale allora vigente, essa ebbe luogo. Il commendatore Bartolotta aveva personalmente pregato tutti i consiglieri di essere presenti, molti avevano promesso di accontentarlo, ma all’appello risultarono presenti solo dieci e precisamente, lui, che venne il primo, il sindaco Nicolò Scimè, Giovanni Macaluso, Nestore Falletti, Salvatore Falcone, Carmelo Licata, Enrico Grisafi, Calogero Scimè, Calogero Bellavia e Luigi Messana. Nelle more per l’inizio della discussione si sguinzagliarono alla caccia di consiglieri tutti gli amici di Bartolotta, non trovarono nessuno, solo Messana Pio, che faceva la siesta a casa nella sua poltrona. Invano tentò di evitare con pretesti di recarsi al consiglio, l’insistenza fi tale che dovette andarci. Quando giunse in aula la votazione era già avvenuta, ma invitato dal Sindaco dovette associarsi, sicché Mussolini diventò cittadino onorario di Racalmuto con undici voti su undici consiglieri presenti e contro diciannove assenti. Le cose sono andate poi in modo alquanto strano: gli undici che votarono sì per la cittadinanza onoraria a Mussolini non divennero mai fascisti, anzi molti di essi rimasero i depositari dell’antifascismo locale, i protestatari, i nostalgici della libertà e furono definiti borbonici, si estraniarono completamente dalla vita pubblica, rimasero a maledire e ad attendere la caduta dell’avventuriero, rinunziando a possibili sistemazioni, non pochi dei diciannove assenti invece si accodarono e scesero in piazza in "giummo" e stivali.

«Il problema idrico Mussolini lo risolvette solo a parole, l’acqua delle Tre Sorgenti, ripetiamo, giunse in paese ben sette anni dopo la caduta del suo governo e cinque anni dopo la sua fucilazione. Non avrebbe potuto impiegare certamente di più se il suo avvento al potere non ci fosse mai stato. Egli si limitò a mandare a Sciacca a spese dei vari comuni S.E. Teruzzi, ministro del suo governo, nel 1925, per mettere la prima pietra dei costruendi acquedotti, in parata tanto solenne che solo a Racalmuto costò L. 1000 di allora. Dopo, vennero le lungaggini, le difficoltà senza possibilità di ricorrere o di parlare.

«Il commendatore Bartolotta, rassicurato dagli applausi dei fascisti presenti in aula allorchè si proclamò in consiglio l’esito della votazione per il conferimento della cittadinanza a Mussolini, tentò anche di costituire lui un fascio di combattimento, sperando di abbattere i fascisti locali.

«Nello stesso tempo indusse il Sindaco Scimè a ricorrere al Ministero contro il prefetto per certe irregolarità commesse in provincia. L’esito di tale azione fu drastico. Il consiglio comunale fu sciolto appena tre settimane dopo il conferimento della cittadinanza al Capo del Governo. Il 7 gennaio si insediò il commissario prefettizio ragionere [sic] Angelo Zambuto. Il commendatore finì in carcere la sua attività politica.
»

Tra la versione dei fatti dello Sciascia e quella del Messana vi sono piccole divergenze: certo Messana è più informato, ma la sua prosa e troppo barcollante per effere più efficace. La realtà storica appare, però, più intricante di quella resa dai due intellettuali antifascisti di Racalmuto. Gli archivi di Stato forniscono ai volenterosi fonti informative puntuali e oltremodo precise. Le carte dell’archivio centrale romano (22) , da noi consultate, consentono questa ricostruzione:

«R. Prefettura di Girgenti - Gabinetto n.° 1266 del 19. 12. 1923. - L’amministrazione comunale di Racalmuto sorta dalle elezioni generali del 1920 con carattere prettamente demosociale, per mancanza di una vigile ed attiva opposizione, si abbandonò ben presto alla inerzia più assoluta, sicura di poter vivere tranquillamente per le condizioni della politica locale e per la protezione che alla stessa veniva accordata dagli esponenti della democrazia in Provincia. Sindaco del Comune fu eletto il Dr. Scimè, ma anima dell’Amministrazione è stato sempre il Dr. Bartolotta Giuseppe, che ha assunto la carica di assessore anziano, e che rappresenta in Provincia uno dei campioni più forti e fedeli della democrazia sociale.

«Con l’avvento del Fascismo al potere cominciarono a muoversi delle timidi e lievi lagnanze contro la detta amministrazione, ma finora ho creduto opportuno di soprassedere dall’adottare alcun provvedimento, stimando doveroso procedere prima alla liquidazione delle amministrazioni a carattere socialista ed anticostituzionale, che non funzionavano o funzionavano male. Esaurito questo compito, credetti di rivolgere il mio pensiero al Comune di Racalmuto e disposi un’inchiesta a carico [.... E’ emerso:]

«- Scarsissima attività del Consiglio: 15 sedute nel 1921; 10 nel 1922 e 7 nell’anno in cors;

«Quasi abbandonato l’ufficio di polizia rurale, lasciando piena libertà alla maffia di scorazzare ed agire impunemente per le campagne, perché le guardie rurali sono adibite ad altro. [...]

«A tutto questo è da aggiungere che la parte migliore della cittadinanza ed il Fascio locale ha sempre intensificato la campagna contro l’attuale Amministrazione della quale sono pure noti i rapporti sia pure indiretti con la maffia, la quale viene se non protetta apertamente, certo lasciata indisturbata a compiere le sue gesta. Tant’è vero che le guardie campestri, anzichè prestare servizio in campagna come dovrebbero, vengono adibite a servizi interni. Trattandosi di un importante comune, sarebbe opportuno che venisse designata come R. Commissario persona capace ed energica, estranea all’ambiente locale [..] Il Prefetto: Reale.

«10 gennaio 1924: Appunto per S.E. il Ministro: Comune di Racalmuto.- Proposta scioglimento Consiglio comunale; popolazione 15.000 - motivi della proposta: ragioni d’ordine pubblico per il pericoloso malcontento della popolazione contro gli amministratori. Numerose irregolarità e deficienze accertate da una recente inchiesta. Non risultano interessamentei.

«Il Prefetto della Provincia di Girgenti, veduto il R.D. 24 gennaio 1924 col quale venne sciolto il Consiglio Comunale di Racalmuto [...] Ritenuto che il Commissario non ha potuto completare la sistemazione della Finanza comunale e dei pubblici servizi e che la situazione dei partiti locali non consente d’altro lato, d’indire subito le elezioni [..] decreta: il termine per la ricostituzione del Consiglio Comunale di Racalmuto è prorogato di tre mesi. Girgenti 16 maggio 1924. Per il Prefetto: F.to Giordano.

« 19 marzo 1924: Indennità al Commissario straordinario: L. 50 - Il Cav. Enrico Sindico, ex colonnello nel R. Esercito, si è appositamente trasferito da Spezia a Racalmuto [...]

«Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 73 del 26 marzo 1924.

«"Relazione di S.E. il Ministro Segretario di Stato per gli affari dell’Interno, Presidente del Consiglio dei Ministri, a S.M. il Re, in udienza del 24 gennaio 1924, sul decreto che scioglie il Consiglio comunale di Racalmuto, in provincia di Girgenti, MAESTA’, sul funzionamento dell’amministrazione comunale di Racalmuto, sorta dalle elezioni generali del 1920, è stata recentemente eseguita un’inchiesta che ha accertato numerose irregolarità. L’Ufficio comunale è disorganizzato, privo d’inventario e con scritture contabili deficienti, la situazione finanziaria non è esattamente accertabile, per la trascurata esecuzione delle verifiche di cassa, e per il mancato esame dei conti, non è stato effettuato il passaggio dei fondi dal cessato al nuovo tesoriere. Le tasse, applicate con criteri partigiani, danno un gettito notevolmente inferiore alle previsioni del bilancio, mentre le spese vengono erogate in eccedenza agli stanziamenti e talora senz’alcuna autorizzazione; il dazio è concesso in appalto a condizioni onerose, è stato omesso il reimpiego di somme provenienti da alienazione di patrimonio; lavori e forniture sono state eseguite irregolarmente in economia ed in esse hanno spesso avuto interesse gli stessi amministratori.

«Tra i pubblici servizi sono assai trascurati la nettezza urbana, la pubblica illuminazione, la vigilanza annonaria e la polizia rurale. La disordinata gestione della civica azienda ha provocato nella popolazione un vivissimo malcontento e l’eccitazione degli animi è tale da far temere turbamenti per la pubblica quiete.

«Anche ragioni di ordine pubblico, oltre che la necessità di provvedere senza indugio al riordinamento amministrativo e finanziario della civica azienda, rendono quindi indispensabile lo scioglimento del Consiglio comunale con la conseguente nomina di un Regio commissario, ed a ciò provvede lo schema di decreto che ho l’onore di sottoporre all’Augusta firma della Maestà Vostra.

«Vitt. Emanuele III [..] visti gli articoli 323 e 324 del t.u. della legge comunale e provinciale, approvato con R. d. 4.2.1915 n. 148, nonchè il R.d. 24.9.1923, n. 2074: il consiglio è sciolto [...] il sig. cav. Enrico Sindico è nominato Commissario straordinario con i poteri del R. d. 24.9.1923, n. 2074. Dato a Roma il 24.3.1924. V.E. III re d’Italia- Mussoluni.
»

Il colonnello Sindico non diede buona prova: nel dicembre di quell’anno veniva destituito:

«26.12.1924, risposta a 26.11.1924. - Prefettura di Girgenti n. 600 Gab. - [...] dimissioni presentate dal Colonnello Enrico Sindico [..] la relazione non rappresenta nulla di notevole, anzi [..] non ha provveduto alla formazione del bilancio [..] Giudizio: mediocre.»

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