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mercoledì 6 marzo 2013

Racalmuto ... e la storia continua: dai Normanni all'usurpazione feudale: i due CASTRA ed il Castrum Rahalmuti


I Normanni a Racalmuto

 

Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi  due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.

Ma chi erano questi normanni?

L’attuale giudizio storico resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infede­le hanno avuto il possente encomio della pubblicistica vaticana. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Rugge­ro ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indif­ferenza, patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spegiudicato religioso pur procurò in tempi successivi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - ebbe a dire - dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([1])

L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i norman­ni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II.  Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia Mediovale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mer­canti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa dina­stia». ([2])

Il Correnti, citato in nota, mostra di stravedere per i normanni. Ce li presenta come valenti «guerrieri e navigatori vichinghi, che dalla originaria Scandinavia, con una diaspora impressionan­te, nel nono secolo avevano assediato Costantinopoli e attaccato Parigi, nel decimo secolo erano arrivati certamente in Groenlan­dia, e molto probabilmente nell'America del Nord, nell'undicesimo secolo avevano costituito i regni di Nevgorod e di Kiev nell'Eu­ropa orientale e si erano stabiliti in Inghilterra, con la glo­riosa battaglia di Hastings del 14 ottobre 1066.» ([3]) Ruggero il normanno riscuote, poi,  il suo plauso incondizionato. Ai suoi occhi, l'Altavilla  è il fondatore del primo Regno moderno. Facendo eco a Gioacchino Volpe, che non ci sembra proprio di spiccato spirito democratico, lo storico di Riposto conferisce al Normanno la paternità dei meriti di tutta la futura dinastia. Nessuno accenno all'aspetto gaglioffo dell'avventura normanna che neppure il conterraneo Malaterra occulta.

Francesco De Stefano, storico siciliano di grande valore, salta nella sua Storia della Sicilia dall'XI al XIX secolo , la vicenda della conquista normanna. La sua ricostruzione parte dalle vicen­de immediatamente successive per dimostrare la tesi che vuole la storia della Sicilia come storia del popolo siciliano. Il giudizio sulla monarchia normanna è appassionato. «La monarchia normanna, - scrive appunto il De Stefano a pag. 7 - la quale nel prossimo continente modificò il corso spontaneo e naturale della storia, troncati i fili ideali e spirituali che congiungevano l'isola con Bisanzio e con l'Africa, e riallacciati quelli con l'Italia, rispettò, pur dandogli la sua forte impronta, il mondo esistente.» Alla base v'è una teoria che può anche non essere condivisa ma ha la sua suggestione e la sua sicilitudine «In Sicilia - soggiunge il De Stefano - non erano forze contrastanti di principati, non città autonome, né grande feudalità, ma so­cietà musulmana in sfacelo, elementi cristiani deboli, città bisognose di aiuto. Pur, fra tutto ciò, molto era vivo, tradizio­ni perpetuantisi, energie di civiltà,  che i geni fondatori dello stato chiamarono a collaborare e seppero armonizzare fra loro e con i nuovi elementi; la civiltà romano-bizantina, la musulmana, la latina infusero animo allo stato; il diritto romano e bizanti­no e le tradizioni giuridiche locali compenetrarono la legisla­zione; i diritti della popolazione furono rispettati fin dove non contrastassero con le leggi dello stato; gli elementi normanni e germanici si composero con quelli che preesistevano: sorse, così, la 'monarchia normanna-sicula'». Tesi elegante ma elitaria: vi echeggia l'insidiosa teoria della violenza  quale levatrice della  storia. Purtroppo non corrisponde alla realtà storica la soprav­vivenza della civiltà musulmana. Questa fu forse tollerata all'i­nizio, ma non tanto. Soggiacque e alla lunga sparì ed era la vera civiltà che allignava nella nostra Racalmuto araba.

Illuminato PERI ha fatto un diligente studio su «uomini, città e campagne in Sicilia dall'XI al XII secolo». L'avvento dei norman­ni viene trattato di straforo, ma il giudizio ci sembra pondera­to. «... le distruzioni non mancarono - scrive a pag. 9 ([4]) - durante la guerra di conquista dei normanni, che fu logorante, e fu anzi proprio di logoramento, e durò 31 anni; e tattica abitua­le fu una sorta di 'rassia', con rapide puntate aggressive,  la distruzione di colti, il taglieggiamento, la cattura di prigio­nieri e la adduzione di essi in schiavitù, e solo eccezionalmente e risolutivamente l'attacco frontale e l'assedio».

Più in generale, l'attuale storiografia sta facendo un ponderato ripensamento sulle trasmigrazioni nordiche tra il basso e l'alto medioevo. Il retaggio del passato è infido e contraddittorio. La precorsa storiografia ha infatti riguardato gli scandinavi dell'alto medioevo in termini del tutto contrastanti: « Essi sono stati - scrive ad esempio Aldo A. SETTIA ([5]) - di volta in volta considerati come incarnazione diabolica e flagelli di Dio, come rigeneratori di un occidente infiacchito o come superuomini liberi e geniali; soltanto da poco si può dire che gli "uomini del nord" cominciano ad essere visti nella loro giusta luce.» Tratterebbesi dunque non di un «vichingo brutale e sanguinario» ma di un «portatore di una civiltà progredita, in grado di elabo­rare non solo proprie tecniche artigianali, ma anche elementi artistici molto ricchi; [questi è dotato di] «una meravigliosa capacità di adattamento, molto equilibrato ed attivo, intrapren­dente industrioso, né diabolico, né divino, che non merita quindi né disprezzo né eccessi di gloria.»

Per una moderna e puntuale visione di quegli eventi cfr. l’opera del Tramontana ([6]).  Spigolando, ci sembrano rimarchevoli i seguenti passi: «Sulla prima comparsa nel Mezzogiorno italiano di avventurieri provenienti dal ducato di Normandia - dove, nel 911, erano riusciti ad insediarsi come vassalli del re di Francia nuclei vichinghi di origine scandinava - siamo poco e male informati. E in effetti lo stato delle fonti non è tale da illuminare in modo esauriente la prima apparizione normanna nel Sud. Il che spiega, d'altra parte, le diverse ipotesi che, in connessione alla esperienza e mentalità dei tempi, sono state via via formulate. Chalandon [ F. CHALANDON, Histoire de la dominatione normande en Italie et en Sicile, Paris 1907, I], per esempio sulla base di considerazioni che ancor oggi sembrano convincenti, pensava che la prima comparsa normanna in Italia meridionale doveva essere ricondotta [....] a un esplicito invito organizzato dal princi­pe di Salerno nel quadro di una lotta a fondo contro i bizantini.» [pagg. 461-462]. «Figlio maggiore del secondo matrimonio di Tancredi d'Altavilla, ROBERTO era, come riferisce Anna Commena,  [...] 'grande di corporatura, sì da superare gli altri; rubicondo, biondo, spalle larghe, occhi cerulei, agile nei movimenti, bello dal capo ai piedi" [Alexiade, éd. B. Leib Paris 1937-45, I, 10-4]. Giunto in Italia con soli cinque cavalli e trenta pedoni, e in una data che non si riesce a precisare, ma da collocare tra il 1046 e il 1047, quando i suoi fratelli e gli altri conti normanni si erano già sistemati e non dimostravano certo simpatia per il nuovo arrivato, era costretto, a causa della povertà, a vivere da ladrone.» Ruggero era il più piccolo degli Altavilla ed aveva aiutato il fratello Roberto nelle prime sortite in Sicilia.

«Con l'occupazione di Reggio e l'eliminazione della Calabria di tutte le guarnigioni bizantine s'imponeva per il Guiscardo, in conformità al giuramento prestato al papa Niccolò, la necessità dello sbarco in Sici­lia. La cui conquista avrebbe rappresentato non solo la logica conclusione di quella grande ondata migrato­ria che spingeva ora, come dice il Malaterra, Roberto il Guiscardo e Ruggero a 'guadagnare meriti spirituali e temporali acquisiti' [De rebus cit. l. II, c. I, p. 29, il quale precisa che Ruggero 'semper dominationi­bus avidus erat'], ma, nel quadro del declino bizantino e di quello musulmano, il controllo di un'isola la cui posizione geografica aveva sempre avuto notevole rilievo nei rapporti di forza nel Mediterraneo.» [pag. 320] «Senza volere comunque esagerare il significato di certe insofferenze e tenendo conto solo di ciò che si sa dei sistemi normanni di occupazione che anche in Sicilia saranno stati tali da disilludere ogni aspet­tativa, se pure ce ne era stata, è da sottolineare che si trattava di ragioni che contribuivano a rappresen­tare situazioni e stati d'animo molto vicini alla realtà. E a ben considerare quanto scrive Malaterra a proposito del malessere, della esasperazione e della ribellione aperta degli abitanti di Troina nei riguardi di questi invasori che non avevano esitato a saccheggiare le loro terre e le loro case e a insolentire e oltraggiare le loro donne, si è portati a immaginare anche per la Sicilia una situazione analoga a quella che si era venuta a creare nei vari centri del Mezzogiorno peninsulare subito dopo la comparsa dei primi contingenti normanni.»                  

Le osservazioni del TRAMONTANA che abbiamo riportato e gli accenni del Malaterra alle vessazioni normanne contro Troina si attagliano alla svolta storica della nostra Racalmuto. Quel che era Racalmuto prima dei normanni e quello che fu subito dopo può ricostruirsi richiamando quanto pianse e rimpianse il poeta arabo siciliano dell'epoca, Ibn HAMDIS. Fu questi un poeta celebre ai suoi tempi. Nacque a Siracusa verso il 1053 e morì in Africa nel 1133. Ci ha lasciato molti versi in lingua araba. Abbondano i fatti storici o biografici. E' uno spaccato dei sentimenti di allora, quali albergavano nei cuori dei musulmani siciliani asserviti dai normanni. La sua opera -  che con l'Amari indichiamo, snellendo ed amputando abbondantemen­te, "diwân" ([7]) - ci consente di cogliere echi degli animi di nostri antenati arabi. Esule, quel poeta, canta:

«Torna a mente la Sicilia, ohi!, ricordanza che suscita dolore nell'animo!»

«Ripenso al paese che fu campo dei miei folleggiamenti giovanili. Che fior di valenti uomini vi soggiorna­va.»

«Poiché fui cacciato da tale Paradiso, almeno voglio rievocarne le delizie.»

«Se ne beveva di vecchio vino. Oh! concedi che io ricordi da quanti anni era in serbo; ché a contarli non bastano più le dita.

«Liquore di tal forza che quando esso ti penetra in corpo, ti senti ora stare a galla, ora sprofondare in basso.

«Le notti! Non ne passava  una che noi non si stesse a infilzare perle di poesia, per farne monili agli anni che passano ratti.

«Che Iddio rinfreschi di dolci lagrime l'occhio di chi piange i paesi dove il corpo ha un animo imprigionato dall'amore.

«Paesi che salutano lieti le stelle maggiori, quando si levano su l'orizzonte a destarli dal sonno.

«Terra sì ridente che spegne le ambasce dell'animo tuo, sì lieta che cancella lo strascico delle calamità.

«Quanti schietti amici io v'ho, liberali, gelosi dell'onor loro, spregianti la vile mercede.»

 

Capita anche a noi - moderni esuli dalla nostra Racalmuto - di rivivere i giorni della nostra giovinezza. Allora, era d'obbligo il vino, da bere nelle 'putìe', anche tra studenti. V'era quello che sapeva verseggiare, in dialetto. Ed erano versi irridenti e talora sconci, ma scaturivano da una voglia di vita tutta sici­liana, tutta racalmutese. Rabbia, sogno, intelligente disprezzo, salacità che il tanto sale locale imponeva, e in fondo schiettez­za d'animo erano in quelle bande giovanili e studentesche. Oggi - avvocati affermati o esuli intristiti, falliti o criminali mancati, vecchi canuti o uomini di successo - quel tempo ricordiamo, in Sicilia o fuori, e, in fin dei conti, il tempo della nostra giovinezza molto somiglia al rimpianto del profugo arabo di Siracusa Ibn Hamdis. I nostri normanni sono stati quei tre ameri­cani che conquistarono Racalmuto nel luglio del 1943, alla stre­gua dei lancieri di Ruggero d'Altavilla che la asservirono nell'estate del 1087, all'incirca nove cento anni prima.

Il poeta ha in mente amici sospettati di tradimento e rimprovera ma con pudore, sommessamente:

«Mi credi tu immemore? Eppure io ricordai sovente le magagne del mio secolo e la perfidia del mio compagno.

«Crebbe costui dall'infanzia nella mia schiatta, ma ebbe costumi contrari ai miei.

«Quanti fratelli d'amore lì, in quella terra, mi serbano l'affetto: eppure non hanno in uggia gli uggiosi nemici loro.

«Amici d'adolescenza, che si passava insieme il tempo tra vino e lascivie: felici loro, perché le mani del tempo non li hanno svaligiati!»

Nel suo esilio africano, Ibn Hamdis si strazia per la sua Sicilia in mano dei barbari, dei Rûm - i cristiani -, e sembra il nostro Leopardi 'ante litteram'. Ma anche se un po' retorico non dispia­ce:

«E la patria? Oh!, senza fallo, se fosse libera, mi dedicherei tutto a lei, con animo da osare tutto per lei!

 

«Ma la patria, e come posso io riscattarla dalle rapaci mani dei barbari che la tengono prigioniera?

 

«Lo potrei quando i suoi figli si sterminano a vicenda, trascinati dalla guerra civile, nel cui fuoco non v'è taglialegna che non getti il suo fascio?

 

«I congiunti non sentono carità di parentela: bagnano le spade nel sangue dei congiunti.

«Onde, tutti insieme, non hanno maggior forza che una mano le cui dita si piegano al primo sforzo.

«Eppure sono uomini che se li vedi nel bollore dell'ira, preferiresti affrontare i leoni quando assaltano la preda.

«Trottano su snelli corsieri, il cui nitrito suscita nella terra dei nemici lunghi pianti di prefiche.

«Mancava alla mia terra il fermo proposito di tornar padrona di sé: onde inorridii e disperai.»

*   *   *

Che cosa ne è stata della Sicilia musulmana? di Racalmuto sarace­na? Gli storici, specie quelli siciliani, che abbiamo prima citato, indulgono troppo alla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva.

La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi che vantiamo sangue arabo.

*   *   *

Dopo  i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò  verso  un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare  il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre  terre profondamente  intrise  di  islamismo, sembrò sottrarsi  sia  al fenomeno  normanno  del feudalesimo sia a quello  accentratore  e demaniale  dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò  maturò  qualche tempo  dopo.  Crediamo che nei primi decenni del XII  secolo,  ai tempi  del  geografo arabo EDRISI, l’abitato di  Racalmuto  fosse ancora  in mano degli indigeni saraceni, addetti  all'agricoltura ed  abili nelle colture arboree e negli ortaggi.  Per quello  che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»[8]

Gli  storici stanno ritornando sul controverso tema dei  rapporti tra  Ruggero e il papato.  Un convegno di studi a  Bari  (maggio 1975)  su «Ruggero il Granconte e l'inizio dello Stato  normanno. Relazioni e comunicazioni nelle Seconde Giornate  normanno-sveve» [SGNS, Roma 1977] ha scandagliato ulteriormente vicende ed aspetti della conquista normanna della Sicilia.  E' ritornato a  galla il problema dei diplomi attribuiti a Ruggero o al suo tempo.  H. Enzesberger  dedica un apposito studio alla «cancelleria e  documentazione  sotto  Ruggero I di Sicilia» [SGNS,  pp.  15-23,  con bibliografia].  Il risultato è quello di rinverdire più che  dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche  l'attribuzione della  stessa  LEGAZIA APOSTOLICA desta  nuove  perplessità.[9]

La Legazia sarebbe supportata da  una Bolla pontificia emessa a Salerno dopo gli accordi di Capua del 1098. Su questa bolla,  detta  'quia propter prudentiam tuam', si è soffermato S. FODALE ["Comes et legatus Siciliae. Sul privilegio di Urbano II e  la pretesa apostolica legazia dei normanni di Sicilia", Manfredi, Palermo 1970, pp. 83-135].  Dubbi  sull'autenticità  e  comunque  malcerte interpretazioni sono risorti, dopo le aspre polemiche  della  fine  del secolo scorso, consumate all'insegna del contrasto tra l'Italia post-unitaria e le varie chiese locali.[10]

La tortuosa linea evolutiva dei rapporti tra chiesa e i  normanni di  Sicilia parte dal concordato di Melfi  (3-25 agosto  1059).  A Melfi il papa Nicolò II assolveva i normanni dalla scomunica  che si  erano attirati addosso. Contro il papato si era scatenato  il fratello di Ruggero, Roberto il Guiscardo. Questi aveva addirittura imprigionato papa Leone IX (1053). Ma, dopo, le ragioni  politiche  e le mire espansionistiche del Guiscardo portarono  ad  un riavvicinamento ed addirittura ad un sodalizio. Il 24 giugno 1059 Niccolò  II  era a Montecassino e, dopo una  tappa  a  Benevento, convocava  a Melfi un sinodo dei vescovi con lo scopo  dichiarato di deporre i presuli simoniaci e di riconfermare il celibato  dei preti.  Questo lo scopo ufficiale; in effetti v'era l'intento di favorire l'incontro con i normanni e di concordarne la  coalizione.  Sta di fatto che a Melfi il papa, oltre ad assolvere i  normanni, confermava a Roberto il Guiscardo, con la dignità  ducale, i  possessi di Puglia, Calabria e Sicilia. Con il  papa  Gregorio VII (1073-1085) il rapporto si deterioravano e giunsero i fulmini  di una  nuova  scomunica  (1074). Si arrivò al 29  giugno  del  1080 quando, con la mediazione di Desiderio di Montecassino, si pervenne all'accordo di Ceprano. Roberto il Guiscardo giurava fedeltà  al papa con la formula del 1059 e otteneva di controllare de facto i territori  di  Salerno, Amalfi e di parte della Marca  di  Fermo.

Frattanto Ruggero battagliava in Sicilia.  Vi era giunto in base agli  accordi  di Melfi. Scrive Denis Mack Smith: «Nicola  II autorizzò  questi  ladroni  [i normanni]  bellicosi,  per  quanto evidentemente non molto cristiani, a governare l'Italia  meridionale  nella misura in cui riuscissero a conquistarla; e  il  Guiscardo, in cambio, accettò di non riconoscere l'autorità religiosa  di  Costantinopoli.  Il papato rivendicava  il  diritto  alla signoria  feudale  sulla Sicilia e sosteneva questa  sua  pretesa affermando, su basi un po' dubbie, che dapprima Costantino e poi i re  carolingi  avevano posseduto la Sicilia e  che  più  tardi l'avevano 'donata' al papa. I normanni accettarono  l'investitura feudale per la Puglia, ma quando passarono lo stretto per entrare in  Sicilia preferirono ignorare le pretese papali e  farlo  come conquistatori di proprio diritto.»

 Del resto, in Sicilia mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso  era diverso da quello in cui gli Altavilla erano  abituati  ad  operare.  La religione cristiana di  rito  latino  era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la  religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad  Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa  vi era  a  Palermo,  la cui chiesa episcopale era  relegata  in una stamberga.

 

Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri  greci, talora  rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni.  Si  rese, però,  subito  conto che ciò non bastava. Era di  fronte  ad  una chiesa  di  frontiera, lui in fondo laico. Bisognava  avviare  un «processo  portatore  di scelte di fondo capaci di dar  vita,  in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e  organiche strutture  ecclesiastiche.  Le  sole in grado  di  coordinare  le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita  quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza  fra Chiesa  e  politica che affidava un ruolo  di  protagonista  agli Altavilla  e  rappresentava  un dato  strutturale  della  società normanna.»[11]

Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni  l'evangelizzazione  del  popolo  conquistato. Subordinarlo a  vescovi  di  sua fiducia,  fu idea politica e perspicace. Una religione di  Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa  latino.  Le  preoccupazioni politiche erano  ad  ogni  modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di  fiducia,  allogeni,  chiamati  dalla natia Normandia,  fu  il  taglio adottato  da  Ruggero nella instaurazione della Chiesa  di  Roma nelle  terre  della Sicilia musulmana. Così Ruggero  I  fondò  i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e Siracusa tra il 1081  e  il  1088. Ne delimitò i confini territoriali  -  o  così pretesero,  scrissero  o affermarono esibendo diplomi  manipolati  i  vescovi successori  - e vi installò prelati latini scelti tra  quelli   a lui particolarmente legati andandoli a cercare nell'Italia peninsulare o in Francia.

 

Se  ne  preoccupò ben presto Urbano II che  volle  incontrare  il Normanno personalmente. L'abboccamento tra i due avvenne a Troina nel 1088. Si giunse ad un compromesso che suonò come una personale  vittoria  di  Ruggero. Il pontefice,  stando  ai  successivi diplomi  -  sempre  che siano autentici -,  confermò  i  vescovi nominati  dal  Normanno e sembrò avallare  l'operato  di  costui. Qualche  riserva il papa doveva pure averla se tentò subito  dopo di  nominare 'sua sponte' quale suo legato nell'isola il  vescovo di Troina e Messina. Ma l'Altavilla ebbe una drastica ed  irriducibile   reazione:  fece  arrestare  quel  prelato,   addirittura sull'altare, pur trattandosi di un suo uomo e di un suo principale  consigliere. Era atto ammonitorio: nessun nesso al  di  fuori della  sua persona e della sua autorità consentiva con la  Chiesa di Roma. Gli eventi successivi quali l'impegno per la crociata  e le  controversie  tra  il papa e il partito  imperiale  non  solo attenuarono quel contrasto ma addirittura portarono alla concessione  della  Legazia apostolica cui si è fatto  cenno. 

«Praticamente impotente a modificare una situazione di fatto, Urbano II, che si era  mosso  con prudenza ed abilità, riusciva ad  ottenere  senza venir  meno ai propri principi e provocare  fratture  all'interno della  Chiesa, che i poteri di Ruggero in  materia  ecclesiastica venissero esercitati 'col beneplacito e l'autorizzazione  dell'Apostolico  della  sede  romana'. Dal canto suo  il  granconte  di Sicilia, che otteneva il diritto di portare l'anello, il  bastone pastorale  e la dalmata, simboli propri della  maestà  imperiale, era il primo dei signori normanni a perfezionare, come osserva De Logu,  anche sul piano della ideologia, il concetto della  sovranità:  "la  finalità religiosa riconosciuta  alla  sua  autorità riempiva  di  contenuto giuridico un titolo che Ruggero  I  aveva assunto sul suolo isolano: quello di protettore dei cristiani,  e che riecheggia qualificazioni imperiali bizantine".»[12]

Un  casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto  saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da  Ruggero  I.  Dubitiamo persino che ebbe  notizia  di  essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al  vescovo  francese Gerlando. Nell'anno 1092, [13] dopo  cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna,  giunge  ad  Agrigento, novello vescovo,  Gerlando.  I confini  della  sua diocesi sono stati definiti  da  Ruggero  in persona. Il documento, in latino ([14]), può così tradursi:

«Io,  Ruggiero,  ho  istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è  quella di  Agrigento al cui soglio episcopale viene  chiamato  GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra  di  Zineth [Pietralonga];  indi  sino ai confini di Iatina [Iato]  e  Cefala [Cefaladiana]  e quindi ai limiti di Vicari; indi fino  al  fiume Salso,  che  costituisce il discrimine tra Palermo e  Termine,  e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi  lungo  il mare sino al fiume Torto; e da  qui,  da  dove sorge,  si  estende verso Pira, sotto Petralia;  quindi  sino  al monte  alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia  e da questo punto i confini della diocesi seguono  il  corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento  da  Butera.  Lungo la costa i  confini  della  diocesi corrono da Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini  con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia  la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»

Se  il lettore è stato paziente a seguire lo zig-zag dei  confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al  di  qua  del Salso,  venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un  vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.

Per esser, comunque, normanno, venne  descritto dalla pur tardiva storiografia  secondo  il consunto stereotipo di uomo  di  nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto.   Tale  versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la  riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato  in  Besansone, città della Borgogna,  di  copiosa  dottrina fornito,  eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed  eloquentissimo,  trasse alla fede gran numero di Ebrei e  di  Musulmani.[p. 454]»

 I padri bollandisti ci appaiono più  circospetti. In base ad attente letture dei vari 'privilegi' escludono  che Gerlando fosse il gran cappellano del  conte  Ruggero, carica  che  fu  di GEROLDO, e quanto al resto  si  rifanno  alle postume  storie del FAZELLO e del PIRRO.

I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il  vescovo  Gerlando, sono postumi e  secondo  l'ultima  critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda  metà del  sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti  della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gerlando e  sulla sua esistenza storica non sembra lecito  nutrire  dubbi.

Il  personaggio non  è dunque inventato e questo è già molto.   E il  vescovo  ebbe subito fama di santità, come può  arguirsi  dal Libellus  custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si  parla dell'anima  benedetta del beato Gerlando che,  discioltasi  dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».

Quello  che, invece, lascia increduli certi laici è  quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da  secoli arabo  e solo arabo. Forse residuava un uso del greco  nei  ceppi più tenaci.  Questo vescovo borgognone che chissà  quale  lingua parlasse (pensiamo a quella natia di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo per lui  incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi  furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.   

Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in  mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di  verità  deve pur esservi: forse GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un  certo  colloquio con i potentati locali di lingua  araba.  In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati  poliglotti  che poterono stabilire alcuni contatti, specie di  natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio  Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24  dicembre 1092) - una falsificazione  in  forma originale, secondo il Collura  -  accenna  a nobilati  francesi già presenti in Agrigento, a  concanonici  che officiano  in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti  francesi da  beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi  ed  un cavallo.  Su  tutto  vigila il vescovo Gerlando,  mandato  da  un ROGERIUS  che  ci avrebbe redento da 'demonicis ...  ritibus'  da riti  demoniaci (che pure era la grande religione di Allah).   Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale,  invero, Petrus Maurituniacus). Vi  è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma  greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente,  a  colpirci è il richiamo allo  strumento  giuridico  del PRIVILEGIUM che  viene firmato in presenza di testi e davanti  ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato  'justus'.  Francesi, notai,  prebende  ecclesiastiche, canonici,  vescovi probi ed assennati, ma anche interessati  alle cose  terrene,  tutto  il mondo  della  burocrazia  ecclesiastica romana  vi traspare, ed era passato appena un  quinquennio  dalla conquista  normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto,  villani, schiavi ed oggetto di pii legati.

 


 

AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI

 

 

Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro (a meno che scavi stratigrafici a Gargilata non conducano proprio qui date certe assonanze toponomastiche già segnalate dal compianto padre Salvo); il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere (o capovolgendo, in contrada Zaccanello, se il sopravvissuto toponimo Masciarà di un podere colà ubicato dovesse corrispondere alle ipotesi dell’Amari). Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.

Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il laceramento del fitto buio che oggi lamentiamo. 

Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono denominati saraceni.  Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di I.Peri).  Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i Normanni, di nuove terre. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù. I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.


FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO

 

I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - avrebbe fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio, l’attuale fortezza,  forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Ma il territorio soltanto dopo Manfredi Chiaramente era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’; nel 1358 è ancora semplice “casalis” – mentre al Castelluccio v’è già il “castrum”; e solo nelle carte dei Martino (non prima del 1392) si può leggere l’indicazione castrense anche per l’attuale abitato racalmutese. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio omertoso, addirittura in tema di verità storica?

Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un  cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.

Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente scandagliato dagli storici. All’inizio del secolo XIV un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto. Questi frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese.  In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.

Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VIIa Ind. 1398. Gli viene tolto per assegnarlo ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese, che ci guardiamo bene dall’oscurare.


 

LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO

 


 

La questione feudale racalmutese

 

 

Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [15]  specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto diventare un centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).

Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”,  è proprio come asserisce il De Stefano[16]: faceva  parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuto come tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi del Vespro possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra demaniale.

La dizione del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate da Federico Chiaramonte poco prima del 1311 e molto più sommessamente a quanto noi stessi arguiamo da una patente del 1358.. 

Come e perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile, avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione, visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?

Federico Chiaramonte va comunque considerato il primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo del Vespro. Da espungere dalla verità storica le varie apocrife baronie dei Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria come abbiamo prima accennato.

Il primo riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo, il nostro paese è incontrovertibilmente terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e sprovvedutezze di autori e scrittori locali.


 

 

GIBILLINI

 

Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua dimensione era di 705 salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area urbana e quella terriera. Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo, in un atto giudiziario che tra l’altro recita:

 

«Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:

1.   delli Gibillini e feghi

2.   delli Cometi;

3.   e fegho delli Bigini;

4.   del fegho di Zalora;

5.   del fegho di Scintilìa;

6.   del stato e ducato delli Grotti;

7.   del fegho e principato di Campofranco;

8.   e fegho della Ciumicìa

 

 

e altri confini quale olim tennero e possiderono la quondam Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e Chiaramonte e doppo Mattheo del Carretto come veri signori e padroni ed al presente e de presenti parte di detto fegho come sopra situato e confinato lo tiene e possiede l’illustre don Geronimo del Carretto e Branciforte come vero signore e padrone per la forma dell’antichi privileggij et altre scritture stante che il remanente si ritrova licet nulliter et indebité dismembrato e diviso da detto fegho di Racalmuto come il tutto fù ed è la verità notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et -   -   -  

Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et -   - - ».

Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale.

Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ;[17] il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:

«Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA, v. doc. prec., n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.»

Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem  incidere catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Per Michele da Piazza, i chiaramontani, che pur vivevano nella loro tirannica fede, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.

Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvisi in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani -   [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.[18] Prosegue Giunta [19] «queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere  festose accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.

Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma  da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.

Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches .[20] Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata  a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.

Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario,  iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro  1392 a foglio 221) [21]; col secondo diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada  fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.

Subentrò  Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.[22] 

 Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio  Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum,  [23] per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre  e come suo primogenito. [24]  Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di   Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa  dalle figlie Giovanna e Maria il  22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).

Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).

 

Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .

Beatrice De Marino e Sances  de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di  Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.

Diego Giardina  s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui  le due quote furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).

 

Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria , libro  del 1624-25, f. 214);  viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina  morì a Naro il 24  novembre 1667 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.

Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668  (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).

Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686  dei due terzi, per la morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).

 

Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come  rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).

 

Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).

 

Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.

 

Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini.  Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:

«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).

1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).

 

2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»

 

*   *   *

Le vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione del Castelluccio a Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo decennio del XIV secolo, la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi era il fratello di Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu Cannuni”. Perché due fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in territori così contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci dal Fazello e dall’Inveges - è fallace. [25] Quello che è certo è che sia il feudo di Gibillini (da Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera di Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con Grotte; dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della potente famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo, alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino, prima, e Giardina, poi. Il feudo di Racalmuto viene redento da Matteo del Carretto con astuzie diplomatiche, quanto attendibili Dio solo sa.


 

L’estensione dei feudi

Nell’attuale territorio di Racalmuto insistevano i feudi di Grotticelli, Cometi, Gibillini, Menta-Noce e quello, preminente, del toponimo. A parlare del feudo di Grotticelli è Giovan Luca Barberi, nei primi anni del ‘500. In effetti, il Barberi [26] descrive tre feudi contigui; senza appartenere a Racalmuto, essi s’incuneavano nel territorio racalmutesie ed erano a) Bigini; b) Cometi; c) Gructi (secondo la prima carta del catasto agrigentino, non si tratterebbe di Grotte ma di un piccolo feudo nei pressi delle Grotticelle; in base ai dati del Barberi la località invece sembra essere proprio Grotte). Una parziale annessione mostra in atto il territorio di Racalmuto: la contrada Cometi è segnata al n.° 51 della mappa; Grotticelle al n.° 46; Bigini invece appartiene a Castrofilippo.

 

Traducendo dal latino, secondo il Barberi:

A) Bigini e prima metà di Cometi.


 

«Dei feudi di Bigini, Cometi et Gructi - come vengono volgarmente chiamati - posti in Val di Mazara e nel territorio di Agrigento, quello di Bigini e la metà di quello di  Cometi erano posseduti da Pino di Monteaperto di Siracusa; tuttavia con quale diritto fossero pervenuti nelle sue mani o con quale forma non si rinviene alcun titolo in Cancelleria Regia.

«Alla fine il predetto Pino de Monteaperto, avendo intenzione di vendere il cennato feudo di Bigini e la metà di Cometi, si procurò prima la licenza dal serenissimo Infante Giovanni, padre della vostra Cattolica Maestà, allora Viceré e Vicario del serenissimo re Ferdinando avo di vostra altezza reale. Venne, però, stabilita la condizione che dovesse essere degna la personalità del compratore.

«Il feudo di Bigini e la metà di Cometi, quindi, vennero venduti, sotto il consueto vincolo del servizio militare e fatti salvi i diritti della regia curia e di chiunque altro, nella forma e modo della originaria concessione al detto Pino o ai suoi progenitori e giusta i relativi privilegi, al quondam  Venuto de Brando agrigentino con pubblico contratto a rogito del notaio Pino de Cumbulo catanese in data 15 novembre VIIII^ ind. 1415.

«Dopo otto anni o circa, regnando il serenissimo re Alfonso, il quondam Nicolò Spiziali, allora viceré del regno, avuto riguardo al fatto che allora i feudi erano di esiguo reddito, cioè di appena 5 once, ratificò e confermò, con licenza del Principe,  gli atti di vendita dei feudi che erano stati ceduti  in perpetuo al predetto Venuto de Brando, suoi eredi e successori, (con l’onere tuttavia di corrispondere annualmente tre salme di frumento ai canonici preposti al canonicato del porto di Agrigento, il quale canonicato, come precisai nei Capibrevi ecclesiastici alle carte 317, è di regio patronato) sotto il solito vincolo del servizio militare e fatti salvi i diritti e le costituzioni regie e le ragioni di chiunque altro.

«Quanto sopra ed altro viene più diffusamente narrato nel privilegio dello stesso viceré, in cui è contenuta la detta licenza dell’infante Giovanni, rilasciato a Palermo il 9 dicembre II^ ind. 1423 e annotato nel libro del detto anno della  Regia Cancelleria alle carte 183.

 

«E’ da investigare, pertanto, per quale ragione venditore  e compratori di tali feudi abbiano temporeggiato tanto, quasi otto anni, prima di decidersi a chiedere la conferma della medesima vendita; in ogni caso per disposizione regale e per gli statuti occorrono nella fattispecie la conferma e l’investitura col solito giuramento ed omaggio di fedeltà per il rispetto delle preminenze regie e conseguentemente occorrono le superiori disposizioni per far prestare entro un termine ben preciso l’ossequio di rito.

 

«Morto Venuto de Brando, gli successe in Bigini e nella metà di Cometi Giovanni de Brando, suo figlio, il quale di essi ebbe l’investitura dal quondam don Lupo Ximenem Durrea, viceré del regno, sotto il consueto vincolo del servizio militare e con l’onere delle tre salme di frumento annuali a favore dei canonici del porto di Agrigento, alternativamente  fra l’anno della semina in Bigini e quello della semina in Cometi.

 

«L’investitura  fu conseguita sotto la data del 2 luglio I^ ind. 1451, come riportato nel libro della regia Cancelleria dell’anno 1453, carte 184.

 

«Defunto infine Giovanni de Brando, Bigini e la metà di Cometi passarono ad Antonio de Brando, che non si curò di ottenerne l’investitura; in verità, alla morte del serenissimo re Giovanni, il 12 agosto XII^ ind. 1478, fu presa l’investitura ma non si diede conto dei diritti di successione, ragion per cui non può esserne qui fornita alcuna delucidazione ignorandosi se Antonio de Brando sia discendente dal predetto Giovanni de Brando.

 

«Celebrato il matrimonio tra Costanzella, figlia legittima e naturale di Antonio de Brando, e Gerlando Lo Porto, questa portò in dote i predetti feudi. Gerlando prese possesso  dei predetti feudi e di essi dal quondam don Gaspare di Spes, allora viceré, ebbe l’investitura per se ed i suoi eredi in perpetuo il 20 febbraio I^ ind. 1482 (cfr. libro del 1482 della Regia Cancelleria, carte 172).

 

«Al presente, correndo l’anno 1512, il detto feudo di Bigini e la metà del feudo di Cometi sono posseduti dagli stessi Gerlando lo Porto e Costanzella e rendono annualmente 7 onze.»

 

B) Gructi  e seconda metà di Cometi.


 

 

«Il predetto feudo “li Gructi” e la rimanente metà del feudo “li Cometi” dal quondam Luigi di Moteaperto, e dopo da Antonio di Monteaperto, padre e figlio, erano posseduti da antica data, ma non appare il titolo presso la Regia Cancelleria. Pertanto non si può dare spiegazione alcuna di come siano stati assegnati tali feudi. In particolare non si hanno notizie del perché il feudo di Cometi sia stato diviso in due parti e del perché una metà di esso abbia seguito un’altra assegnazione agnatizia. Ne discende la necessità che venga mostrato il titolo per avere una piena e veridica informazione sui feudi in questione.

«Tanto impone che i possessori vengano costretti a dimostrare la validità dei loro titoli di possesso e in particolare a mostrare la licenza accordata a Pino di Monteaperto dal viceré di allora l’Infante Giovanni,  per conto del serenissimo re Ferdinando avo di vostra Maestà, licenza relativa alla facoltà di vendere i detti feudi in base al titolo originario.

 

«Questa forma era forse rigorosamente “jure francorum”, ed invece la vendita si effettuò in forma molto lata. In ogni caso, i possessori sono attualmente tenuti a rendere di pubblica ragione per maggior cautela della Curia  l’atto di tale vendita.

 

«Deceduto Luigi di Monteaperto, gli subentrò nei detti feudi Antonio de Monteaperto, suo figlio e tuttavia non appare nella Regia Cancelleria alcuna investitura in ordine a tale passaggio da padre in figlio.

 

«Essendo senza figli, Antonio de Monteaperto istituì suo erede Federico de Monteaperto, suo nipote. Costui comparve dinanzi don Lupo Ximenem Durrea, viceré del tempo, e denunciò con giuramento che non  gli era pervenuto alcun privilegio o titolo in ordine ai detti feudi: tuttavia ne ottenne l’investitura  per sé e per i suoi eredi ‘jure francorum’, sotto il consueto vincolo del servizio militare e fatti salvi le costituzioni ed i diritti della regia curia e di chiunque altro, in data 21 giugno I^ ind. 1453, giusta annotazione nel libro del 1453 della Regia Cancelleria alle carte 147.

 

«Passato ad altra vita Federico Monteaperto, gli successe nei detti feudi Gaspare de Monteaperto, suo figlio. In un primo tempo, gli fu fatta opposizione da Pietro de Monteaperto, figlio del quondam Bartolomeo de Monteaperto, che avanzò la pretesa di  avere egli titolo ai feudi di li Gructi e di metà di Bigini, dato che Gaspare de Monteaperto era figlio spurio e bastardo.

 

«Fatta, purtuttavia, la cessione dal detto Pietro allo stesso Gaspare, ai fini dell’investitura, quest’ultimo ne ottenne dal viceré Giovanni di La Nuça il beneficio  per sé, i suoi eredi ed i suoi discendenti ‘jure francorum’ in perpetuo, in data 20 ottobre  I^ ind. 1497 (cfr. il libro del 1497 della Regia Cancelleria, alle carte 97).

 

«Al presente, correndo l’anno 1512,  i feudi di li Gructi e della metà di li Cometi il prefato Gaspare di Monteaperto tiene e possiede. Il reddito annuo è di onze 60.

 

«N.B.: Il predetto Gaspare de Monteaperto, per la morte di Re Ferdinando, ne prese l’investitura da Giovanni de Luna, Preside, in data 19 gennaio V^ Ind. 1516 (cfr. libro dell’anno 1516 foglio 449), denunciando un reddito invariato.»

 

Allegazione sul feudo di li Gructi.

 

«Risulta che al tempo dei serenissimi  re Martino e Maria l’anzidetto feudo di li Gructi fosse posseduto da Ludovico di Monteaperto; purtuttavia si riscontra che il detto feudo fu espropriato e reso libero e disponibile. Quindi dagli stessi re Martino e Maria fu concesso a Filippo de Castrogiovanni messinese, insieme con il feudo Gurafi, di cui faccio cenno sopra alle carte ...; ciò emerge da un privilegio degli stessi re rilasciato in Catania nell’anno 1396, registrato nel libro del 1396 III^ ind.  alle carte 173. Vi si legge, fra l’altro,: “Ci degniamo concedere il detto feudo di Gurafi, nonostante le sottoscritte donazioni da Noi fatte, e cioè la donazione dei feudi di Pascaxie, che furono del conte de Passanato e Pullicarini, nonché di Margherita de Pandolfo, siti e posti nel territorio di Castrogiovanni, così come la donazione del feudo chiamato li Gructi nel territorio della città di Agrigento che appartenne a Ludovico de Monteaperto della città di Agrigento, etc. “ Pertanto, come appare, lo stesso feudo di li Gructi, o per ribellione o per altra causa, fu tolto al detto Ludovico de Monteaperto e concesso al prefato Filippo de Castrogiovanni. Ed allora è da vedere in base a quale diritto ritornò il feudo in potere del Monteaperto, non apparendo nessuna previsione o scrittura di assoluzione o di remissione e di totale restituzione del feudo a Ludovico de Monteaperto.

 

«Al presente il feudo medesimo è detenuto dai successori del medesimo Ludovico, giusta quanto giurato da tali successori, come si è detto sopra; di tal che appare consono che il moderno possessore, visto che una volta il feudo è venuto meno al predetto Ludovico de Monteaperto, dimostri a tutela della Curia la base giuridica del ritorno in potere dei Monteaperto del cennato feudo.»




[1]) Benedetto CROCE, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1947, 9^ ed. pag. 71.
[2]) Denis Mack SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21. Questo libro e il suo autore furono cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli storici siciliani fu persino pateti­ca. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi CORRENTI a pag. 29 della sua Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a lodare il Mack Smith per il suo 'stile provocatorio' rimase il solo Leonardo Sciascia, che però si rifece clamorosamente, facendo decretare al suo amico inglese gli onori del trionfo, in una speciale manifestazione organizzata a Palermo il 6 aprile 1970, niente meno che al palazzo dei Normanni: onore mai concesso a nessuno storico, e assolutamente sproporzionato al merito dell'o­pera (e il primo a stupirsene fu lo stesso Mack Smith).» Secondo il Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe Giarrizzo, Gaetano Falzone, Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la bocca di fronte alla storia siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è oggi universalmente cosiderata un classico, come tante altre opere dello storico inglese.
 
[3]) C. Correnti, op. cit. pag. 85.
[4]) Illuminato PERI: UOMINI, CITTA' E CAMPAGNE IN SICILIA DALL'XI AL XIII SECOLO, Bari 1978, pag. 9
[5]) Aldo A. SETTIA, L'ESPANSIONE NORMANNA, in "La Storia" diretta da N. Tranfaglia e M. Firpo - IL MEDIOEVO, vol. II - Popoli e Strutture politiche, TORINO 1982, cap. IX, pag. 263 e s.
[6]) Salvatore  TRAMONTANA, LA MONARCHIA NORMANNA E SVEVA, in IL MEZZOGIORNO DAI BIZANTINI A FEDERICO II, Torino 1983, pag. 437 e ss.
[7]) BIBLIOTECA ARABO-SICULA - raccolta da Michele AMARI, (Edizione di Torino 1880-1881 ristampata da FORNI Editore Bologna) Cap. LIX, pag. 312 e ss. Per notizie su Ibn Hamdis e sulla sua opera v. pag. LXIII.
[8])  EDRISI, Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo,  libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele  Amari,  Roma 1880.
 
[9]) «Un problema complesso e contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, op. cit. pag. 543.
[10]) Per la curia vescovile di Agrigento, si vedano, fra altri, P. Collura, "Le più antiche carte dell'archivio capitolare  di  Agrigento", op. cit; Attardi Giovanni, "difesa del regio collativo diritto di tutti i  canoni  e benefizi  vacanti del Regno di Sicilia", Girgenti s.d. ma scritto nel 1777; Bernardo Felice, "Memoria  sulle decime  già corrisposte alla Chiesa sulla diocesi di Girgenti". Girgenti 1889; idem, "Memoria  sulle  decime della  diocesi di Girgenti", Girgenti 1892; idem, "Falsità dei documenti sulle decime  siciliane",  Girgenti 1898;  Salvioli Giuseppe, "Le decime di Sicilia" Palermo 1901; Scaduto Francesco e Salvioli Giuseppe,  "Questione  storico-legale delle decime siciliane" - Atti III Congresso int. di scienze storiche del 1903,  Roma 1904,  vol. III, p. XXVII e vol. IX pp. XIV e 39-41; ignoto, "Per il diritto di libera collazione che  su  i canonici  della  cattedrale di Girgenti compete al vescovo di quella chiesa", s.l. et a.,  ma  1760;  Punturo Biagio, "Le decime e la chiesa agrigentina", Caltanissetta 1899; idem, "Le decime di Sicilia ed i  documenti apocrifi", Caltanissetta 1901; Garufi Carlo Alberto, "L'archivio capitolare di Girgenti nel tempo  normanno-svevo ed il Cartulario del secolo XIII, in Archivio Storico Siciliano, n. ser., XXVIII, 1903, p. 140; Rosario  Pirro,  "Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata" , ed. A. Mongitore,  Panormi  1733; Fonseca  C.D., "Le istituzioni ecclesiastiche dell'Italia meridionale e Ruggero il Granconte", in SGNS,  pp. 47-52. 
[11]) S. Tramontana, "La monarchia normanna e sveva", op. cit. pag. 541.
 
[12]) S.  Tramontana, "La monarchia normanna e sveva", op. cit. p. 544-5. Il richiamo riguarda l'opera  di  P. Delogu, "L'evoluzione politica dei normanni d'Italia fra poteri locali e potestà universali", in ACSN  [ATTI DEL  CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI RUGGERIANI (PALERMO, 21-25 APRILE 1954) Palermo 1955] pp.  95-96.  Sui dilemmi  e sui significati della simbolistica e delle insegne del potere in periodo normanno cfr.  R.  ELZE, "Zum K” nigtum Rogers II. von Sizilien, in Festschrift P.E. Schramm, Wiesbaden 1964, I, pp. 102-115.
 
[13]) Secondo  i  BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM, collegerunt ac  digesserunt  Joannes  BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia",  addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -  autori secondo il COLLURA [op.cit.  p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il primo vescovo di Agrigento  post saraceno poté  essere  consacrato  dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi  salì  al  soglio pontificio  (12 marzo 1088). Ma è ipotesi che viene avanzata solo sulla base di un'asserzione  del  PIRRO che  vuole Gerlando consacrato da Urbano II "ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini  diocesani da parte di Ruggero è però del successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo  documento capitolare di Agrigento - fa risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento -  Libellus, c. 18B - afferma: «complens duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino  vicesimo quinto die mensis februarii [1104]». Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento  dell'archivio di Agrigento porta la data appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in proposito  del Collura, op. cit., p. XI e p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma  incidentalmente e senza alcun supporto critico.  
 
[14])  «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius  episcopus vocatur GERLANDUS , cui in parochiam assigno quicquid intra fines  subscriptos  continetur, [  ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et  inde tenditur  per  divisiones Iatinae et Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero  usque  ad  flumen Salsum,  quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore huius fluminis, ubi cadit in mare,  protenditur  haec parochia  de  iuxta mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur, tenditur ad Pira  de  subtus Petram Heliae, atque inde ad altum montem, qui est supra Pira; inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur  cum flumine  Petra Helie, et ex hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum  et Butheriam; atque inde per maritimum usque ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch  tenditur sicut  hoc flumen currit usque de subtus Corilionem , ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione  et Termis.»
 Questo documento è pubblicato sub 2)  dal Collura, ["Le più antiche carte ...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto accurata. Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa  agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA, GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN, LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.  cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una copia incompleta della seconda  metà del XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae  Regni',  I,  codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10 febbraio 1509, ed  in  'Liber  Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L], redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del  1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)" [op. cit. p. 7].
Il  FAZELLO, il religioso di Sciacca nato nel 1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo  documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si avvalsero  dell'opera del Fazello, ma ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul  documento  e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e ss.]. Anche il  Picone  [op. cit. appendice I] riporta il testo con note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia sacra,  t. I, p. 695 e 696],  non ha sottomano i documenti originali di Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di ratifica, del 10  ottobre del 1098.
Il  Pirro  utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti gli altri editori tra cui il MANSI,  il  CARUSO,  il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura, op. cit., p. 21]. Nel 1960 il documento viene edito criticamente dal Collura [op. cit. doc. n. 5, p. 21-24], secondo il quale "nel complesso il testo della bolla è sincero".
 
[15] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Bari 1977, pag. 10 e segg.
[16] ) ibidem, pag. 18.
[17] ) DOCUMENTI PER SERVIRE ALLA STORIA DI SICILIA - SERIE DIPLOMATICA VOL. VIIII (NOVE) - PALERMO 1885 - CODICE DIPLOMATICO DI FEDERICO III DI ARAGONA RE DI SICILIA (1355-1377) - DI GIUSEPPE COSENTINO. VOL. I - PAG. 451-452. DOCUMENTO DCLVII (657) - CEFALU', 21 aprile 1358. ind. XI.
 
[18] ) Matteo Villani, Cron., IV,3.
[19] ) Francesco Giunta, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, Palermo 1953, I, pag. 49 e segg.
[20]) Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol. IV - Quadro 435 - pag. 80.
 
[21] ) con tale privilegio  furono concessi i seguenti beni confiscati ad Andrea Chiaramonte cioé: la contea di Malta e di Gozzo col titolo di Marchese e l'isola di Lipari, la città di Naro, di Mineo e di Sutera, la terra di Delia, di Mussumeli, Manfredi, Gibillina, Favara, Misilmeri,  e la Rocca di Mongellino (PIRRI, Sicilia Sacra, f. 757 - APRILE,  Cronaca Sicula, f. 200 - INVEGES, Cartagine Siciliana, libro 2°, cap. 6, f. 300);
[22] ) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[23] ) Cancelleria, 1492-93, foglio 114.
[24] ) Conservatoria, libro INVEST. , 1495-1511, f. 1182; fu poi reinvestito il 20 gennaio 1417 per il passaggio della Corona (UFFICIO PROTONOTARO DEL REGNO, PROCESSI INVESTITURE, 1560-61).
[25] ) Recentissime ricerche d’archivio (vuoi in quello dello Stato di Palermo vuoi in quello segreto del Vaticano) rendono ormai certo che più antico è il Castelluccio – di sicuro esistente nel 1358 – posteriore di almeno un trentennio quello sito nel centro abitato – non ancora accatastato nel 1376, funzionante nel 1400.
[26]) G. Luca Barberi - I Capibrevi - a cura di Giuseppe Silvestri, Documenti per servire alla storia di Sicilia - Palermo, 1888 - Vol. III - Serie I  - “Diplomatica” n.° 15 - pag. 191-193.

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