Quando Sciascia scrisse le FAVOLE
DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo
attorno al 1944 e un dies ad quem, che
per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò
profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio
Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui
animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo
poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega
(crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare
- annoiatssimo
– dopo) tentava di mettergli “nel piatto
povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a
molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere
il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più
grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava
a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e
Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò
tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non
trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece
Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di
Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel
titolo (chiunque l’abbia messo) . “In
quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia,
persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E
Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori
“rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori
fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la
cattolica e la comunista, tout court
la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di
Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e
Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per
paura di querele. Si pensi che ci
confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di
Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del
Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle
adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con
la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la
musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma
ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si
strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio ……
Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO
ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la
Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese.
Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti,
ora. A Racalmuto - durante il fascismo, sotto Mori, solo un
paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina,
sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del
nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di
bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di
Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto
neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì.
La valentia scrittoria del grande linguista
ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a
chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la
ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è
consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi
non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -
ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a
quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus
non sa dirci altro che un termine
non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”.
E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata:
nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo
violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide
carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli
vituperanti. Sono ora le scimmie a
predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape
vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di
padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare
con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora
capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia –
ricordò al gatto i principi del nuovo
regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli
affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la
cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine
nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso,
ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di
un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo
manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine
nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero
Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una
qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di
un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo
georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte
implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma,
forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova
in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in
questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE
DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo
attorno al 1944 e un dies ad quem, che
per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò
profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio
Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui
animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo
poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega
(crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare
- annoiatssimo
– dopo) tentava di mettergli “nel piatto
povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a
molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere
il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più
grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava
a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e
Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò
tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non
trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece
Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di
Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel
titolo (chiunque l’abbia messo) . “In
quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia,
persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E
Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori
“rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori
fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la
cattolica e la comunista, tout court
la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di
Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e
Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per
paura di querele. Si pensi che ci
confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di
Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del
Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle
adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con
la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la
musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma
ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si
strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio ……
Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO
ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la
Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese.
Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti,
ora. A Racalmuto - durante il fascismo, sotto Mori, solo un
paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina,
sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del
nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di
bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di
Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto
neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì.
La valentia scrittoria del grande linguista
ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a
chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la
ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è
consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi
non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -
ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a
quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus
non sa dirci altro che un termine
non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”.
E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata:
nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo
violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide
carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli
vituperanti. Sono ora le scimmie a
predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape
vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di
padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare
con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora
capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia –
ricordò al gatto i principi del nuovo
regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli
affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la
cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine
nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso,
ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di
un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo
manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine
nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero
Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una
qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di
un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo
georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte
implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma,
forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova
in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in
questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE
DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo
attorno al 1944 e un dies ad quem, che
per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò
profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio
Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui
animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo
poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega
(crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare
- annoiatssimo
– dopo) tentava di mettergli “nel piatto
povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a
molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere
il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più
grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava
a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e
Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò
tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non
trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece
Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di
Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel
titolo (chiunque l’abbia messo) . “In
quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia,
persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E
Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori
“rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori
fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la
cattolica e la comunista, tout court
la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di
Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e
Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per
paura di querele. Si pensi che ci
confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di
Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del
Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle
adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con
la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la
musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma
ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si
strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio ……
Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO
ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la
Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese.
Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti,
ora. A Racalmuto - durante il fascismo, sotto Mori, solo un
paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina,
sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del
nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di
bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di
Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto
neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì.
La valentia scrittoria del grande linguista
ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a
chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la
ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è
consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi
non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -
ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a
quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus
non sa dirci altro che un termine
non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”.
E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata:
nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo
violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide
carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli
vituperanti. Sono ora le scimmie a
predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape
vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di
padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare
con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora
capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia –
ricordò al gatto i principi del nuovo
regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli
affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la
cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine
nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso,
ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di
un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo
manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine
nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero
Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una
qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di
un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo
georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte
implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma,
forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova
in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in
questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
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