Attorno il pane
Provocatorio in
certa misura fu allora, e volutamente in certa misura ambiguo, il titolo
“Attorno il Pane” per la mostra che Agato Bruno tenne nel 1983 presso la
galleria “Due Ruote” di Vicenza, diretta da Virgilio Scapin. Provocatoriamente riprendiamo ancora quel titolo, che non tutti
compresero, chiarendo – per taluni che si ritengono fini intenditori di
letteratura e sono invece schiavi di formule e stereotipi – che né allora né
ora siamo ricorsi in un “lapsus calami”,
e tantomeno in imprecisione di scrittura. Non si volle dire “Attorno al
Pane” che ripeteva un modo antico (e di alto lignaggio) di titolazione ben
acconcio per indicare il tema catalizzatore di riflessione e dialoghi
sviluppati su un piano squisitamente letterario e filosofico: pensiamo al “De
amicitia”, al “De senectude”, al “De divinazione” di Cicerone per non dire il
“De tranquillitate animi” di Seneca e il “De consolazione Philosophie” di
Beozio: Si volle dire e affermare- semplicemente o, se volete crudamente- una
valenza assertiva, cioè il senso molto più ampio di una presenza soggettiva,
rispetto ad una funzione più ridotta come la pura constatazione della presenza
o della identità: valenza dunque ben più che dichiarativa, ben più che… amara
fronte delle asserzioni magrittiane, ad esempio. Insomma l’argomento era il
pane –essenzialmente il pane- nella sua fisicità, nella sua immediata
riconoscibilità figurativa, e quindi nella
sua tautologia al di qua e al di là del simbolico ( il simbolismo non
costituiva per l’autore, allora, uno specifico punto di partenza o di arrivo
per le sue comunicazioni). Ed era sufficiente proprio la tautologia perché
dietro ogni elemento materiale, dietro ogni comportamento umano si potesse
individuare uno spezzone di racconto, l’
“incipit” di una storia esistenziale. Il pane, dunque, nella sua prima e vera
valenza di fatto esistenziale, rappresentata nella ben conosciuta corporeità
figurale e capace di dilatarsi e di espandersi oltre la finitezza fisica. Era
questo il senso del lavoro di Bruno, allora. E questo senso interpretò, e in
modi pertinenti sviluppò, la mia poesia
stampata su un piccolo tagliere di legno che accompagnò la mostra vicentina.
Che quella significanza assertiva fosse coscientemente perseguita nel lavoro di
Bruno e con precisione trasferita in un titolo da alcuni contestato, risulta
ora confermata dalla nuova antologia pittorica dell’artista casertano che Roma
conoscerà in anteprima e per la quale proponiamo il titolo “Attorno il
pane (n° 2)”. Anche qui, ancora qui il
pane: il pane intorno a noi non come emblema o simbolo, né come bandiera di una
carità pelosa di un filantropismo in ghette, di un populismo ovvio, di una
ideologia rivendicativa. Il pane intorno a noi è presenza, non dono, né
miracolo, anzi è realtà fattuale, è storia, è conquista, è cultura che permea i
giorni e le memorie del presente e del passato per chiunque di noi, per la
stessa Maria Antonietta prodiga di “brioches” (e il richiamo alla regina di
Francia –come si vedrà- non è gratuito né superfluo). Anche qui, ancora qui il
pane, divenuto però il fulcro di una ricerca più raffinata, più sottile e
penetrante rispetto a quella condotta nei primissimi anni ’80 quando l’artista
si costrinse non solo ad un rapporto monotematico (di chiara valenza esistenziale,
come si è detto), si costrinse anche all’impatto duro con la grafica: tra
l’esercizio del disegno a china o a matita e l’esercizio dell’incisione con lo
scavo del bulino e degli acidi. Si, allora Bruno si costrinse a scavare, con
mezzi poveri e rudimentali, e a far emergere la cruda dimensione esistenziale:
e furono squarci, interni di case contadine ed operaie ben prossime alla sua
formazione umana, con testi popolari e borghesi proprio del suo “habitat”. Dopo
quindici anni scanditi da esperienze pittoriche molto ricche, il cui punto di
fusione più alto è il telero “Ri(s)guardi” presentato a Gubbio nel 1991 e ad
Anagni nel 1995, Agato Bruno torna con i nuovi racconti del pane. I fili che
l’artista casertano ora mette insieme per dare struttura e forma ai nuovi
racconti sono ben più preziosi, vengono da antiche manifatture, da manifatture
illustri sulle quali la storia e l’arte hanno impiantato pagine importanti. Fra
questi lacerti emblematici che si chiamava e ancora si chiama “Terra di Lavoro”
Bruno ritorna sull’abbrivio del riguardare appunto all’indietro, non per
passione di archeologo o storico, ma per compito d’artista che vive e intuisce
il presente e dai reciproci riverberi delle stagioni presenti e delle passate
trae materia per la sua invenzione/comunicazione artistica. In questo scorcio
finale di secolo, che coincide con la conclusione di un millennio, pesanti nubi
offuscano l’orizzonte dell’umanità: l’incidere lento e inesorabile del deserto,
ad esempio, e gli incrementi demografici mondiali, per non dire di altri
rovinosi squilibri che minano il vivere e il sopravvivere sulla faccia della
terra. E ancora una volta non può non tornare in primo piano il tema del pane,
atavico problema di generazioni e generazioni che ora nuovamente Bruno ripropone
come fattore esistenziale, come valore esistenziale, ma anche come elemento di
una cultura non solo materiale. Se la nostra storia, se la civiltà dell’uomo
non possono prescindere da questo sostegno basilare della vita quotidiana,
sappiamo anche che una rivoluzione non si fermò innanzi alla provocatoria
offerta di “brioches” da parte di una regina. Quella rivoluzione ebbe il passo
lungo, superò le Alpi e dilagò fin nella “Campania Felix”dei Borbone: i
francesi a Caserta entrarono nel 1806 e condizionarono perfino la manifattura
del pane. Alla tradizionale pagnotta rotonda si aggiunse la “pagnotta alla
francese” caratterizzata per alcuni tagli superficiali sulla crosta superiore,
e al lungo filoncino napoletano si aggiunse “lo sfilatino alla francese”
impastato con fiore di farina, bianchissimo e leggero, dalla crosta croccante
per i rilievi e i tagli obliqui nella parte superiore: insomma una versione più
larga e più corta della baguette, dal peso di circa 500 grammi(cfr. Domenico
Ianniello, “il pane francese a Caserta”, in rivista “Frammenti anno 2° -gennaio
1993). L’innovazione riguardò, quindi, non solo la qualità del pane, ma anche i
tipi della panificazione locale. Da poco meno di 200 anni il pane a Caserta si
fa cosi. Bruno viene a conoscenza di questo fatto storico e questo piccolo evento rimette in moto il
meccanismo dell’immagine, saldamente ancorato a taluni capisaldi: la Reggia
Vanvitelliana, S. Angelo in Formis, le “matres matutae”, le sete di San Leucio.
Bruno rivede questa testimonianza e quelle pagine dell’arte /Bosch, Bruegel,
Piero della Francesca) che soggiogarono la sua sensibilità e le
ricontestualizza trasferendo tutto intero il “peso specifico” dello stralcio
architettonico o artistico o artigianale. Cioè gli squarci del Palazzo Reale e della
Basilica di S. Angelo in Formis, cosi come le misteriose “madri di tufo” sono
state estrapolate e riproposte con tutta la loro forte “personalità”, anche nei
dettagli, come “campi” non estrinseci, né refrattari al colloquio con altri
capisaldi dell’arte italiana ed europea. Non solo, ma il dialogare di Bruno –
che va a sussumere spirito e forma della rivoluzione francese, e di questa
anche le propaggini che si attestarono nella città voluta da Carlo III di
Borbone –fonde storia e arte, vita e cultura in una reinvenzione talora ludica,
talora irridente, talora ironica, talora amara. Il pane come elemento non di
mera raffigurazione, ma di reinterpretazione svolge appunto un ruolo
“maieutico” con la sua elementarità rispetto a riproposizioni e a ipotesi culturali
complesse. Se la sostituzione dei fantolini sulle braccia della madre di tufo
si pone in chiave di lettura diretta e immediata (la “mater matuta” come dea
della fecondità, dell’abbondanza ecc.), ben pi ù sottile la riflessione
pittorica sottesa al lavoro “ipotesi per
una pala” nel quale una “Mater” è
sospesa al filo che discende dalla volta vanvitelliana del balcone reale con
evidente richiamo alla pala “Sacra conversazione” di Piero della Francesca
conservata a Brera. Se nel vestibolo della Reggia casertana può sorprenderci un
cappottone appeso ad una colonna, sovrastato da una coppola che sembra
piuttosto una pagnotta tonda, mentre da una tasca fuoriesce una “baguette” (anzi lo sfilatino alla francese), Bruegel
calato al sud celebra (v. “la Mietitura” Metropolitan Museum of Art, New York
city) nel parco vanvitelliano la mietitura intorno ad una albero: forse un
rinato Albero della Libertà. Opera felicissima questa, intitolata “se Bruegel
venuto al sud…”, anche perché nonostante
la serrata trama dei richiami storici – culturali – iconografici l’autore si
sente appagato da una propria interna libertà. E cosi via, da “Pioggia di
fiori, pioggia di pani, a “Camposerico perché il pane ruoti, fino ancora a “Il
pane non ha prezzo” e “Arrivano i francesi”, l’ironia (che è odio-amore) di
Bruno quanto più appare legata e legarsi a contesti artisticamente “imperiosi”
di per se intangibili, tanto più sorprendentemente trova l’appiglio perché
nella visione data o ipotizzata compaia – subdola presenza – lo sfilatino alla
francese. Superfluo ogni ulteriore
suggerimento di lettura per la singola opera o per l’intero ciclo, tra
l’aristocratica “brioche” di Maria Antonietta e il popolare “rivoluzionario”
sfilatino. Ancora una volta Bruno
conferma il più autentico interesse per la condizione e il destino dell’uomo, a
partire proprio da quel livello esistenziale – il vivere, il sopravvivere – che
è del singolo come dell’intero genere umano. I tempi della storia e della
civiltà sono stati quasi sempre contrassegnati dalla lotta per la
sopravvivenza, ancor prima delle pagine scritte e delle immagini rupestri; e
via via l’assalto al forno di manzoniana
memoria. “Pane amaro” di Silone, la sequenza della conquista del pane in “Roma città aperta” di Rossellini. Storie
di ieri, di oggi purtroppo, e purtroppo di domani. Tutto questo è presente e
non soltanto sotteso nei lavori bruniani di questa metà degli anni novanta. Il
millennio sta per essere doppiato lasciando alle spalle un secolo ben ricco di
rivolgimenti ideologici e culturali. Abbiamo assistito alle mutazioni, agli
stravolgimenti e agli snaturamenti della pittura e della scultura fino a
ritrovarci nuovamente con pennelli e scalpelli, tra calchi e forme. Non è il
caso di ripercorrere qui gli stravolgimenti di una storia complessa, che chiede
di essere decantata ancora di scorie e di esibizionismi. Avviandoci alla
conclusione, basta qui dire che Bruno no è stato mai in realtà un
“a-figurativo”. Si, la sua partecipazione al gruppo “ Proposta 66 – Terra di
Lavoro”, come altrove abbiamo rilevato, fu laterale; ed i suoi successivi
esercizi d’arte non sono mai pervenuti alla dissoluzione della pittura: se or
qui, or li “a-figurale”, ma comunque dilatata o aggrumata su tessiture
pittoriche, tra bagliori accecanti e
voluttuose profondità, che non hanno mai inteso annullare la forma, laa figura,
la cosa. In queste opere recentissime Bruno porta a sintesi la sua accuratezza
costruttiva, il suo dipingere terso, i nodi di luce o di buio in impaginazioni
che alla frontalità preferiscono i tagli verticali, i punti di vista obliqui.
Rispetto alla staticità , alla stabilità, alla monumentalità (in sostanza)
l’artista ci induce a ripercorrere visioni trasversali oppure verticalmente
strette che ci consentono di andare un po’ oltre gli strati superficiali ed
ufficiali, e di comprendere quindi i meccanismi e le logiche (antiche e meno
antiche) del predominio e della conservazione del predominio.
Roma, aprile
1996
Vincenzo
Perna
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