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sabato 8 giugno 2013

La magistrale critica di Lara-Vinca Masini su Agato Bruno


Agato Bruno dedica questa sua mostra all’amico più caro, da poco scomparso, Vincenzo Perna, col quale ha diviso una vita di pensieri, di sentimenti, di ideologie, di preoccupazioni e di complicità culturali, didattiche, etiche. Perna ha seguito da sempre il suo lavoro pittorico, chiarendone, forse anche all’autore, con la sua scrittura còlta, raffinata, sensibile, le intenzionalità e gli esiti, facendone talvolta occasione delle sue meditazioni sul mondo attuale, sulla cultura, sull’arte, discutendo anche con lui sui titoli delle opere, come quando ha preso spunto dal titolo di un lavoro di Bruno, Risguardi (un grande telero di 10 metri di larghezza, alto m. 1.50, presentato a Gubbio nel ’91 e ad Anagni nel ’95), per dissertare e distinguere, in un suo testo, “tra chi ha guardato e chi ha riguardato, tra chi ha svoltato l’angolo e chi si è fermato e chi è tornato a svoltarlo per riprendere più consapevolmente il proprio cammino mirando al presente e al futuro, sentendo appunto ‘risvegliata’, la propria coscienza, la propria identità di uomo e di operatore”. In quello che si è definito “postmoderna” in pittura (non parlo del nostro tempo “postmoderno”), il “ri(s)guardo”, come citazione, come ripercorri mento, anche come atteggiamento randomatico e nomade, ha toccato, intenzionalmente, solo la superficie, la pelle della storia, ma è stato, comunque, uno dei percorsi quasi obbligati.

Quello di Agato Bruno è più complesso (e Perna lo ha còlto con grande finezza, da par suo). Anche se il realismo di protesta è la sua origine lontana (come notava Perna egli non è mai stato, tranne in un brevissimo periodo, quando aderiva a “Proposta 66”, un “a-figurativo), non è stato neppure, mai, veramente un realista. Le sue accensioni violente, le sue gestualità dinamiche hanno alla base l’Espressionismo storico, ( che in Italia si trasformava, nel secondo dopoguerra, in una sorta di rielaborazione critica, ispirata anche a Guernica di Picasso), ma anche il Surrealismo nella sua manifestazione più tarda, ispirato ad una simbologia onirica, talvolta quasi fantascientifica.

E, il leit-motiv in tutto il suo lavoro, l’impegno etico-sociale, che lo ha portato ad elaborare temi legati alla vita dell’uomo nel rapporto col mondo, di ogni tempo e luogo, sempre, peraltro, in termini di metafore legate ad una fantasia visionaria, onirica, spesso surreale.

Bruno interpreta queste istanze anche sul filo del “ri(s)guardo” dell’arte antica, quella visionaria e allucinata di Bosch e Bruegel, e, più recentemente, da quando vive nel Veneto, arricchendo il suo senso del colore napoletano con quello veneto, appunto… Parla infatti con calore dei cieli del Veronese, di cui riscopre la morbida, fluida luminosità negli ultimi lavori.

Ha meditato anche sul significato della lunghezza dei “teleri” (Perna cita, in proposito, il Convito in Casa di Levi, del Veronese), che ripropone in questa mostra, con il Cinto di Venere, appunto, e con Paradiso, un altro telero, di 2  metri di altezza e 8 di larghezza. Il primo è un lavoro su carta (una bellissima carta a mano), alto appena 17 centimetri, che si svolge per 6.35 metri, costringendo l’osservatore a muoversi con lo sguardo lungo una storia intersecata, ricca di avvenimenti e di rimandi, una lunga storia tra cielo e mare, in una sorta di continua accelerazione.

 Perna, parlando dei “teleri” di Bruno, si riportava al concetto di “centralità” trattata da Arnheim nel suo “Il potere del centro”, ma aggiungeva anche che nei luoghi dipinti non può esserci un ‘centro’. “Forse” scriveva “c’è un centro che si sposta e scegliamo di volta in volta per nostra economia di percezione e per vantaggio nel guardare ma è certo che l’ipotetico ‘centro’ non è qui una effettiva effettuale caratteristica della visibilità dell’opera”. Si aggiunge, cioè, un “tempo dio percezione”, di memoria, secondo un filo “che si srotola e lega, quasi un filo di Arianna che… non è, né indica un percorso unidirezionale, ma consente l’andare, il proseguire, il ritornare, la ripresa del cammino. Appunto perché – al di là delle decisioni, del momento storico, della volontà manifesta e univoca – esiste sempre per l’uomo lo scatto del ‘background’, la regione della memoria, l’essere più o meno consapevole del proprio radicamento/sradicamento”, il senso cioè dello scorrere della vita, il tempo della coscienza…

Si tratta, dunque, di un nuovo modo di far entrare il tempo e la “durata” nel quadro, quella che i futuristi esprimevano con la ripetizione ritmica del gesto e che qui costringe invece, si è detto, lo sguardo di chi osserva a spostarsi secondo una scansione temporale personale, che ha a che fare appunto, con la presa di coscienza del  proprio guardare e ri-guardare e anche del proprio essere nel mondo. La narrazione ha inizio con la visione di un Nautilus, una splendida conchiglia, simbolo della nascita e dello svolgersi labirintico della vita, prosegue con un accavallarsi continuo e travolgente di elementi, da grandi polipi dai lunghi tentacoli variegati, a mostri emersi da abissi insondabili, da reperti di archeologia fantastiche, alla presenza, per Bruno consueta, quasi ossessiva, di uccelli: ed ecco una mano gigantesca che sembra voler artigliare uno dei mostri marini, mentre l’affacciarsi di una piccola bicicletta ci riporta al senso della presenza dell’uomo e della civiltà. Il lavoro termina con l’immagine di un pellicano, che col sangue del suo fegato rigenera la vita dei propri figli… E tutto questo lungo una bassa fascia permeata di un colore luminoso, carica di una gestualità che si accavalla veloce, inarrestabile. E’ come lo scorrere della vita geologica, dagli abissi della preistoria ad un futuro che “genera mostri”, in una prospettia desolante, ma forse non ancora priva di speranza, finché su questo pianeta risplenderà il cielo e il sole farà brillare il colore, finché l’uomo avrà consapevolezza di se stesso e della propria facoltà di scelte tra l’accavallarsi continuo dei condizionamenti e dei “veleni” che circondano l’uomo: quelli che promana il potere, ammantato di oro e porpora, e che invadono portici e piazze coi segni antichi dell’arroganza”, come ancora scriveva Perna, e il senso della propria autodeterminazione e della propria libertà…

L’altro lavoro presente in mostra è Paradiso, un telero alto 2 metri, largo 8. E’ accompagnato da una serie di bozzetti che, di per sé, si presentano già come opere finite, affidate a temi singoli, votate completamente al colore, che si espande morbido e fluido, e alla luce, alla velocità del segno. Tutto un mondo acquoreo, salmastro, nel quale l’argento delle scaglie si unisce al rosa dorato dei mostri-crostacei, al degradare degli azzurri lungo le ali degli uccelli, si affolla in un accavallarsi morbido e scorrevole. Anche qui una lunga mano bianca tocca creste che sembrano mitrie, grossi becchi cornei sfiorano morbidezze magmatiche…

Qui non c’è più storia né cronaca, c’è, insieme dolente e struggente, un canto alla vita, che è insieme rimpianto e speranza: di chi vede gli abissi ma si accanisce a credere ancora in un possibile, metaforico rinascimento, per una natura che non sarà più quella che conosciamo e che dovremo accettare, forse, anche se stravolta.

 

                                                                                   Lara-Vinca Masini

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