Agato
Bruno dedica questa sua mostra all’amico più caro, da poco scomparso, Vincenzo
Perna, col quale ha diviso una vita di pensieri, di sentimenti, di ideologie,
di preoccupazioni e di complicità culturali, didattiche, etiche. Perna ha
seguito da sempre il suo lavoro pittorico, chiarendone, forse anche all’autore,
con la sua scrittura còlta, raffinata, sensibile, le intenzionalità e gli esiti,
facendone talvolta occasione delle sue meditazioni sul mondo attuale, sulla
cultura, sull’arte, discutendo anche con lui sui titoli delle opere, come
quando ha preso spunto dal titolo di un lavoro di Bruno, Risguardi (un grande
telero di 10 metri di larghezza, alto m. 1.50, presentato a Gubbio nel ’91 e ad
Anagni nel ’95), per dissertare e distinguere, in un suo testo, “tra chi ha
guardato e chi ha riguardato, tra chi ha svoltato l’angolo e chi si è fermato e
chi è tornato a svoltarlo per riprendere più consapevolmente il proprio cammino
mirando al presente e al futuro, sentendo appunto ‘risvegliata’, la propria
coscienza, la propria identità di uomo e di operatore”. In quello che si è
definito “postmoderna” in pittura (non parlo del nostro tempo “postmoderno”),
il “ri(s)guardo”, come citazione, come ripercorri mento, anche come
atteggiamento randomatico e nomade, ha toccato, intenzionalmente, solo la
superficie, la pelle della storia, ma è stato, comunque, uno dei percorsi quasi
obbligati.
Quello
di Agato Bruno è più complesso (e Perna lo ha còlto con grande finezza, da par
suo). Anche se il realismo di protesta è la sua origine lontana (come notava
Perna egli non è mai stato, tranne in un brevissimo periodo, quando aderiva a
“Proposta 66”, un “a-figurativo), non è stato neppure, mai, veramente un
realista. Le sue accensioni violente, le sue gestualità dinamiche hanno alla
base l’Espressionismo storico, ( che in Italia si trasformava, nel secondo
dopoguerra, in una sorta di rielaborazione critica, ispirata anche a Guernica
di Picasso), ma anche il Surrealismo nella sua manifestazione più tarda,
ispirato ad una simbologia onirica, talvolta quasi fantascientifica.
E,
il leit-motiv in tutto il suo lavoro, l’impegno etico-sociale, che lo ha
portato ad elaborare temi legati alla vita dell’uomo nel rapporto col mondo, di
ogni tempo e luogo, sempre, peraltro, in termini di metafore legate ad una
fantasia visionaria, onirica, spesso surreale.
Bruno
interpreta queste istanze anche sul filo del “ri(s)guardo” dell’arte antica,
quella visionaria e allucinata di Bosch e Bruegel, e, più recentemente, da
quando vive nel Veneto, arricchendo il suo senso del colore napoletano con
quello veneto, appunto… Parla infatti con calore dei cieli del Veronese, di cui
riscopre la morbida, fluida luminosità negli ultimi lavori.
Ha
meditato anche sul significato della lunghezza dei “teleri” (Perna cita, in
proposito, il Convito in Casa di Levi, del Veronese), che ripropone in questa
mostra, con il Cinto di Venere, appunto, e con Paradiso, un altro telero, di
2 metri di altezza e 8 di larghezza. Il
primo è un lavoro su carta (una bellissima carta a mano), alto appena 17
centimetri, che si svolge per 6.35 metri, costringendo l’osservatore a muoversi
con lo sguardo lungo una storia intersecata, ricca di avvenimenti e di rimandi,
una lunga storia tra cielo e mare, in una sorta di continua accelerazione.
Perna, parlando dei “teleri” di Bruno, si
riportava al concetto di “centralità” trattata da Arnheim nel suo “Il potere
del centro”, ma aggiungeva anche che nei luoghi dipinti non può esserci un
‘centro’. “Forse” scriveva “c’è un centro che si sposta e scegliamo di volta in
volta per nostra economia di percezione e per vantaggio nel guardare ma è certo
che l’ipotetico ‘centro’ non è qui una effettiva effettuale caratteristica
della visibilità dell’opera”. Si aggiunge, cioè, un “tempo dio percezione”, di
memoria, secondo un filo “che si srotola e lega, quasi un filo di Arianna che…
non è, né indica un percorso unidirezionale, ma consente l’andare, il
proseguire, il ritornare, la ripresa del cammino. Appunto perché – al di là
delle decisioni, del momento storico, della volontà manifesta e univoca –
esiste sempre per l’uomo lo scatto del ‘background’, la regione della memoria,
l’essere più o meno consapevole del proprio radicamento/sradicamento”, il senso
cioè dello scorrere della vita, il tempo della coscienza…
Si
tratta, dunque, di un nuovo modo di far entrare il tempo e la “durata” nel
quadro, quella che i futuristi esprimevano con la ripetizione ritmica del gesto
e che qui costringe invece, si è detto, lo sguardo di chi osserva a spostarsi
secondo una scansione temporale personale, che ha a che fare appunto, con la
presa di coscienza del proprio guardare
e ri-guardare e anche del proprio essere nel mondo. La narrazione ha inizio con
la visione di un Nautilus, una splendida conchiglia, simbolo della nascita e
dello svolgersi labirintico della vita, prosegue con un accavallarsi continuo e
travolgente di elementi, da grandi polipi dai lunghi tentacoli variegati, a
mostri emersi da abissi insondabili, da reperti di archeologia fantastiche,
alla presenza, per Bruno consueta, quasi ossessiva, di uccelli: ed ecco una
mano gigantesca che sembra voler artigliare uno dei mostri marini, mentre
l’affacciarsi di una piccola bicicletta ci riporta al senso della presenza
dell’uomo e della civiltà. Il lavoro termina con l’immagine di un pellicano,
che col sangue del suo fegato rigenera la vita dei propri figli… E tutto questo
lungo una bassa fascia permeata di un colore luminoso, carica di una gestualità
che si accavalla veloce, inarrestabile. E’ come lo scorrere della vita geologica,
dagli abissi della preistoria ad un futuro che “genera mostri”, in una
prospettia desolante, ma forse non ancora priva di speranza, finché su questo
pianeta risplenderà il cielo e il sole farà brillare il colore, finché l’uomo
avrà consapevolezza di se stesso e della propria facoltà di scelte tra
l’accavallarsi continuo dei condizionamenti e dei “veleni” che circondano
l’uomo: quelli che promana il potere, ammantato di oro e porpora, e che
invadono portici e piazze coi segni antichi dell’arroganza”, come ancora
scriveva Perna, e il senso della propria autodeterminazione e della propria libertà…
L’altro
lavoro presente in mostra è Paradiso, un telero alto 2 metri, largo 8. E’
accompagnato da una serie di bozzetti che, di per sé, si presentano già come
opere finite, affidate a temi singoli, votate completamente al colore, che si
espande morbido e fluido, e alla luce, alla velocità del segno. Tutto un mondo
acquoreo, salmastro, nel quale l’argento delle scaglie si unisce al rosa dorato
dei mostri-crostacei, al degradare degli azzurri lungo le ali degli uccelli, si
affolla in un accavallarsi morbido e scorrevole. Anche qui una lunga mano
bianca tocca creste che sembrano mitrie, grossi becchi cornei sfiorano
morbidezze magmatiche…
Qui
non c’è più storia né cronaca, c’è, insieme dolente e struggente, un canto alla
vita, che è insieme rimpianto e speranza: di chi vede gli abissi ma si
accanisce a credere ancora in un possibile, metaforico rinascimento, per una
natura che non sarà più quella che conosciamo e che dovremo accettare, forse,
anche se stravolta.
Lara-Vinca Masini
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