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impiantato pagine importanti. Fra questi lacerti emblematici che si chiamava e
ancora si chiama “Terra di Lavoro” Bruno ritorna sull’abbrivio del riguardare
appunto all’indietro, non per passione di archeologo o storico, ma per compito
d’artista che vive e intuisce il presente e dai reciproci riverberi delle
stagioni presenti e delle passate trae materia per la sua invenzione/comunicazione
artistica. In questo scorcio finale di secolo, che coincide con la conclusione
di un millennio, pesanti nubi offuscano l’orizzonte dell’umanità: l’incidere
lento e inesorabile del deserto, ad esempio, e gli incrementi demografici
mondiali, per non dire di altri rovinosi squilibri che minano il vivere e il
sopravvivere sulla faccia della terra. E ancora una volta non può non tornare
in primo piano il tema del pane, atavico problema di generazioni e generazioni
che ora nuovamente Bruno ripropone come fattore esistenziale, come valore
esistenziale, ma anche come elemento di una cultura non solo materiale. Se la
nostra storia, se la civiltà dell’uomo non possono prescindere da questo
sostegno basilare della vita quotidiana, sappiamo anche che una rivoluzione non
si fermò innanzi alla provocatoria offerta di “brioches” da parte di una
regina. Quella rivoluzione ebbe il passo lungo, superò le Alpi e dilagò fin
nella “Campania Felix”dei Borbone: i francesi a Caserta entrarono nel 1806 e
condizionarono perfino la manifattura del pane. Alla tradizionale pagnotta
rotonda si aggiunse la “pagnotta alla francese” caratterizzata per alcuni tagli
superficiali sulla crosta superiore, e al lungo filoncino napoletano si
aggiunse “lo sfilatino alla francese” impastato con fiore di farina,
bianchissimo e leggero, dalla crosta croccante per i rilievi e i tagli obliqui
nella parte superiore: insomma una versione più larga e più corta della
baguette, dal peso di circa 500 grammi(cfr. Domenico Ianniello, “il pane francese
a Caserta”, in rivista “Frammenti anno 2° -gennaio 1993). L’innovazione
riguardò, quindi, non solo la qualità del pane, ma anche i tipi della
panificazione locale. Da poco meno di 200 anni il pane a Caserta si fa cosi.
Bruno viene a conoscenza di questo fatto storico e questo piccolo evento rimette in moto il
meccanismo dell’immagine, saldamente ancorato a taluni capisaldi: la Reggia
Vanvitelliana, S. Angelo in Formis, le “matres matutae”, le sete di San Leucio.
Bruno rivede questa testimonianza e quelle pagine dell’arte /Bosch, Bruegel,
Piero della Francesca) che soggiogarono la sua sensibilità e le
ricontestualizza trasferendo tutto intero il “peso specifico” dello stralcio
architettonico o artistico o artigianale. Cioè gli squarci del Palazzo Reale e della
Basilica di S. Angelo in Formis, cosi come le misteriose “madri di tufo” sono
state estrapolate e riproposte con tutta la loro forte “personalità”, anche nei
dettagli, come “campi” non estrinseci, né refrattari al colloquio con altri
capisaldi dell’arte italiana ed europea. Non solo, ma il dialogare di Bruno –
che va a sussumere spirito e forma della rivoluzione francese, e di questa
anche le propaggini che si attestarono nella città voluta da Carlo III di
Borbone –fonde storia e arte, vita e cultura in una reinvenzione talora ludica,
talora irridente, talora ironica, talora amara. Il pane come elemento non di
mera raffigurazione, ma di reinterpretazione svolge appunto un ruolo
“maieutico” con la sua elementarità rispetto a riproposizioni e a ipotesi culturali
complesse. Se la sostituzione dei fantolini sulle braccia della madre di tufo
si pone in chiave di lettura diretta e immediata (la “mater matuta” come dea
della fecondità, dell’abbondanza ecc.), ben pi ù sottile la riflessione
pittorica sottesa al lavoro “ipotesi per
una pala” nel quale una “Mater” è
sospesa al filo che discende dalla volta vanvitelliana del balcone reale con
evidente richiamo alla pala “Sacra conversazione” di Piero della Francesca
conservata a Brera. Se nel vestibolo della Reggia casertana può sorprenderci un
cappottone appeso ad una colonna, sovrastato da una coppola che sembra
piuttosto una pagnotta tonda, mentre da una tasca fuoriesce una “baguette” (anzi lo sfilatino alla francese), Bruegel
calato al sud celebra (v. “la Mietitura” Metropolitan Museum of Art, New York
city) nel parco vanvitelliano la mietitura intorno ad una albero: forse un
rinato Albero della Libertà. Opera felicissima questa, intitolata “se Bruegel
venuto al sud…”, anche perché nonostante
la serrata trama dei richiami storici – culturali – iconografici l’autore si
sente appagato da una propria interna libertà. E cosi via, da “Pioggia di
fiori, pioggia di pani, a “Camposerico perché il pane ruoti, fino ancora a “Il
pane non ha prezzo” e “Arrivano i francesi”, l’ironia (che è odio-amore) di
Bruno quanto più appare legata e legarsi a contesti artisticamente “imperiosi”
di per se intangibili, tanto più sorprendentemente trova l’appiglio perché
nella visione data o ipotizzata compaia – subdola presenza – lo sfilatino alla
francese. Superfluo ogni ulteriore
suggerimento di lettura per la singola opera o per l’intero ciclo, tra
l’aristocratica “brioche” di Maria Antonietta e il popolare “rivoluzionario”
sfilatino. Ancora una volta Bruno
conferma il più autentico interesse per la condizione e il destino dell’uomo, a
partire proprio da quel livello esistenziale – il vivere, il sopravvivere – che
è del singolo come dell’intero genere umano. I tempi della storia e della
civiltà sono stati quasi sempre contrassegnati dalla lotta per la
sopravvivenza, ancor prima delle pagine scritte e delle immagini rupestri; e
via via l’assalto al forno di manzoniana
memoria. “Pane amaro” di Silone, la sequenza della conquista del pane in “Roma città aperta” di Rossellini. Storie
di ieri, di oggi purtroppo, e purtroppo di domani. Tutto questo è presente e
non soltanto sotteso nei lavori bruniani di questa metà degli anni novanta. Il
millennio sta per essere doppiato lasciando alle spalle un secolo ben ricco di
rivolgimenti ideologici e culturali. Abbiamo assistito alle mutazioni, agli
stravolgimenti e agli snaturamenti della pittura e della scultura fino a
ritrovarci nuovamente con pennelli e scalpelli, tra calchi e forme. Non è il
caso di ripercorrere qui gli stravolgimenti di una storia complessa, che chiede
di essere decantata ancora di scorie e di esibizionismi. Avviandoci alla
conclusione, basta qui dire che Bruno no è stato mai in realtà un
“a-figurativo”. Si, la sua partecipazione al gruppo “ Proposta 66 – Terra di
Lavoro”, come altrove abbiamo rilevato, fu laterale; ed i suoi successivi
esercizi d’arte non sono mai pervenuti alla dissoluzione della pittura: se or
qui, or li “a-figurale”, ma comunque dilatata o aggrumata su tessiture
pittoriche, tra bagliori accecanti e
voluttuose profondità, che non hanno mai inteso annullare la forma, laa figura,
la cosa. In queste opere recentissime Bruno porta a sintesi la sua accuratezza
costruttiva, il suo dipingere terso, i nodi di luce o di buio in impaginazioni
che alla frontalità preferiscono i tagli verticali, i punti di vista obliqui.
Rispetto alla staticità , alla stabilità, alla monumentalità (in sostanza)
l’artista ci induce a ripercorrere visioni trasversali oppure verticalmente
strette che ci consentono di andare un po’ oltre gli strati superficiali ed
ufficiali, e di comprendere quindi i meccanismi e le logiche (antiche e meno
antiche) del predominio e della conservazione del predominio.
Roma, aprile
1996
Vincenzo
Perna
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