sabato 26 gennaio 2013
LA DONNA DEL MOSSAD - APOLOGO SUL CASO SINDONA parte prima
Calogero Taverna
La donna del Mossad
Proprietà esclusiva dell’autore (non in commercio)
Prefazione (quattro righe, tanto per dire).
Questo è un romanzetto che si può leggere anche con una mano sola
(direbbe Rousseau), ma mi si farebbe un grosso torto.
Cosa voglio dimostrare?
· Contesto Sciascia che parla di Racalmuto quale isola nell'isola accanto all'isola uomo, all'isola famiglia e via di seguito. Un concetto raffinatissimo ma non persuasivo. Comunque io non lo condivido: Racalmuto invece scisto del mondo che tutto vi si riflette sia pure con un raggio pallidissimo, e da qui, come da ogni piccolo villaggio del mondo, si dipartono flebili ma veri, ma vivi, i singulti dell'umana sofferenza, dell'umano gioire, dell'umano redimersi. Un apologo? Guarda caso nella vicenda Sindona entrano - qualcuno da protagonista - il racalmutese Taverna, il racalmutese Sciascia, i racalmutese emigrati in Usa, i fratelli Macaluso, l'arciprete, la villa Macaluso, l'Interfinanza di Racalmuto, i costruttori racalmutesi dell'ambiguo villaggio di Lampedusa (ed io non so tutto). A Racalmuto approda una equivoca giornalista israeliana che poi sparisce nel nulla (la donna del Mossad) ed uno splendido giovanottone un mio nipote acquisito viene concupito da una splendida fanciulla israeliana che fa la spola tra il Lussemburgo, Palazzo Chigi, Birgi (al tempo della crisi libica) ed anche questa poi sparisce nel nulla. Guarda caso Sindona ha il più torbido conto (Nova Scotia) ove affluiscono strani fondi per Israele (o forse Mossad).
· b) Ma Racalmuto resta piccola e solare, goliardica e bevettola nella ricerca di sapori antichi di cibi afrodisiaci perduti, succube di impotenze erotiche in esplosione tra dotatissimi asini raglianti ed eruditismi da seminario maggiore. Ma là, lontano a Roma a Milano, a Mosca a Varsavia, a Londra, ad Atene a Gerusalemme, in Isvizzera, in Usa,nelle isole Cayman si dipana la grande crisi valutaria (al tempo di passaggio dai cambi fissi ai cambi flessibili) e l'eterna temibilissima speculazione planetaria deve vedersela con la controspeculazione che il concerto dei governatori di allora sanno bene orchestrare pilotando banche ultravigilate, sotto mentite spoglie di spregiudicati speculatori.
· c)e piccoli, insignificanti ispettorucoli, persino mal laureati, qualcuno soltanto capitano di lungo corso, vengono inviati a investigare veirità che li trascendono, tecniche di cui ignorano persino il linguaggio. Sono strapagati, sono "arrapati" come ogni buon contadinotto strappato alla terra del Sud: i loro capi son peggio di loro: inventori dell'ora erotica, stupidi ma fedelissimi alla quaterna imperante (giganti, magari giganti del male, ma svettanti rispetto agli gnomi che li circondano che contro sole faranno magari ombre lunghissime, ma sempre gnomi restano).
· d) fortuna per loro che partito rabbiosamente marxista, sindacato genuinamente operaio (si chiamava USPIE), Rinaldo Scheda, Pistulon, Sandro, Ugo, Tommaso e soprattutto l'intellettualissimo Angelo facessero "vigilanza democratica" e presidio delle Istituzioni, dell'autonomia della Banca d'Italia. Una storia ignota, tutta da scrivere (che il romanzetto ovviamente non è in grado di sviscerare. Se non fosse stato per Ivo Turchetti, il sottoscritto sarebbe stato stritolato, messo alla gogna, mandato forse in galera dai vari Oteri, Ciancaglini ed un flaccido calvinista di cui mi sono scordato persino il nome.
· e) Mica posso riscrivere qui il romanzetto. Vi è altro, molto altro che deride Cammilleri, il modo siciliano di far giustizia penale, che per converso esalta il coraggio delle nuove generazioni di giornalisti locali,il vigore delle spinte etiche delle periferie di quel magmatico mondo che è la Regione Siciliana, che irride a Berlusconi, a Veltroni, alle gerarchie di partito, ai palazzi del potere romano. Troppa carne a cuocere in appena 72 cartelle: presunzione massima di un sicilianuzzu che senza la sua amata-odiata banca d'italia sarebbe rimasto a fare l'apprendista barbiere a Racalmuto cimentandosi magari nelle ruffianesche serenate tanto icasticamente vezzeggiate dal suo grande paesano Sciascia.
CONCOMITANZE
Alla Farnesina d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone, lucide d’oro, allicchittate[1] e poi gli anodini arazzi, gli squallori di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì, il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino ad una certa epoca della sua enfiata era.
I molteplici salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte: spezzata provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente, fuori degli storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla poteva. Il primo ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici verso i già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti e remissive, anche il V*** s’era lasciato andare ad assiomatiche inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Roma per momentanea permissione di monsignor Rubicchi arcigno modenese in eterno astio verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure benedettine del nonantolese. Durò poco il canuto Violo e sparì di scena: sapeva d’affari e gli esperti suoi familiari seppero arricchire nell’interscambio astuto con gli astuti ex sovietici.
Fu un pomeriggio del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina di trasmigrare ad Ostia per la lasciva contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane. Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:
- ma che cavolo mi porti?
- dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore Michetti.
- ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli … che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci amici quando comandavano … al soldo del Kgb …
Il dottor Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero: nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:
- non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua eccellenza, prima che altri lo notassero.
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