Calogero Taverna
La donna del Mossad
Proprietà
esclusiva dell’autore (non in commercio)
Prefazione (quattro righe, tanto per
dire).
Questo
è un romanzetto che si può leggere anche con una mano sola
(direbbe
Rousseau), ma mi si farebbe un grosso torto.
Cosa voglio dimostrare?
· Contesto Sciascia che parla di Racalmuto quale isola
nell'isola accanto all'isola uomo, all'isola famiglia e via di seguito. Un
concetto raffinatissimo ma non persuasivo. Comunque io non lo condivido:
Racalmuto invece scisto del mondo che tutto vi si riflette sia pure con un
raggio pallidissimo, e da qui, come da ogni piccolo villaggio del mondo, si
dipartono flebili ma veri, ma vivi, i singulti dell'umana sofferenza,
dell'umano gioire, dell'umano redimersi. Un apologo? Guarda caso nella vicenda
Sindona entrano - qualcuno da protagonista - il racalmutese Taverna, il
racalmutese Sciascia, i racalmutese emigrati in Usa, i fratelli Macaluso,
l'arciprete, la villa Macaluso, l'Interfinanza di Racalmuto, i costruttori racalmutesi
dell'ambiguo villaggio di Lampedusa (ed io non so tutto). A Racalmuto approda
una equivoca giornalista israeliana che poi sparisce nel nulla (la donna del
Mossad) ed uno splendido giovanottone un mio nipote acquisito viene concupito
da una splendida fanciulla israeliana che fa la spola tra il Lussemburgo,
Palazzo Chigi, Birgi (al tempo della crisi libica) ed anche questa poi sparisce
nel nulla. Guarda caso Sindona ha il più torbido conto (Nova Scotia) ove
affluiscono strani fondi per Israele (o forse Mossad).
· b) Ma Racalmuto resta piccola e solare, goliardica e
bevettola nella ricerca di sapori antichi di cibi afrodisiaci perduti, succube
di impotenze erotiche in esplosione tra dotatissimi asini raglianti ed
eruditismi da seminario maggiore. Ma là, lontano a Roma a Milano, a Mosca a
Varsavia, a Londra, ad Atene a Gerusalemme, in Isvizzera, in Usa,nelle isole
Cayman si dipana la grande crisi valutaria (al tempo di passaggio dai cambi
fissi ai cambi flessibili) e l'eterna temibilissima speculazione planetaria
deve vedersela con la controspeculazione che il concerto dei governatori di
allora sanno bene orchestrare pilotando banche ultravigilate, sotto mentite
spoglie di spregiudicati speculatori.
· c)e piccoli,
insignificanti ispettorucoli, persino mal laureati, qualcuno soltanto capitano
di lungo corso, vengono inviati a investigare veirità che li trascendono,
tecniche di cui ignorano persino il linguaggio. Sono strapagati, sono
"arrapati" come ogni buon contadinotto strappato alla terra del Sud:
i loro capi son peggio di loro: inventori dell'ora erotica, stupidi ma
fedelissimi alla quaterna imperante (giganti, magari giganti del male, ma
svettanti rispetto agli gnomi che li circondano che contro sole faranno magari
ombre lunghissime, ma sempre gnomi restano).
· d) fortuna per loro che partito rabbiosamente
marxista, sindacato genuinamente operaio (si chiamava USPIE), Rinaldo Scheda,
Pistulon, Sandro, Ugo, Tommaso e soprattutto l'intellettualissimo Angelo
facessero "vigilanza democratica" e presidio delle Istituzioni,
dell'autonomia della Banca d'Italia. Una storia ignota, tutta da scrivere (che
il romanzetto ovviamente non è in grado di sviscerare. Se non fosse stato per
Ivo Turchetti, il sottoscritto sarebbe stato stritolato, messo alla gogna,
mandato forse in galera dai vari Oteri, Ciancaglini ed un flaccido calvinista
di cui mi sono scordato persino il nome.
· e) Mica posso riscrivere qui il romanzetto. Vi è
altro, molto altro che deride Cammilleri, il modo siciliano di far giustizia
penale, che per converso esalta il coraggio delle nuove generazioni di
giornalisti locali,il vigore delle spinte etiche delle periferie di quel
magmatico mondo che è la Regione Siciliana, che irride a Berlusconi, a
Veltroni, alle gerarchie di partito, ai palazzi del potere romano. Troppa carne
a cuocere in appena 72 cartelle: presunzione massima di un sicilianuzzu che
senza la sua amata-odiata banca d'italia sarebbe rimasto a fare l'apprendista
barbiere a Racalmuto cimentandosi magari nelle ruffianesche serenate tanto
icasticamente vezzeggiate dal suo grande paesano Sciascia.
CONCOMITANZE
Alla Farnesina
d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era
da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone,
lucide d’oro, allicchittate[1] e poi gli anodini arazzi, gli squallori
di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in
minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì,
il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino
ad una certa epoca della sua enfiata era.
I molteplici
salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di
colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte: spezzata
provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente, fuori degli
storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla poteva. Il primo
ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici verso i già
licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza ormai
desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche
crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine
fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti
e remissive, anche il V*** s’era lasciato andare ad assiomatiche
inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Roma per
momentanea permissione di monsignor Rubicchi arcigno modenese in eterno astio
verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure benedettine del
nonantolese. Durò poco il canuto Violo e sparì di scena: sapeva d’affari e gli
esperti suoi familiari seppero arricchire nell’interscambio astuto con gli
astuti ex sovietici.
Fu un pomeriggio
del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi
padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina di trasmigrare ad Ostia per la lasciva
contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima
generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane.
Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi
spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:
-
ma che cavolo mi porti?
-
dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore
Michetti.
-
ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora
trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui
anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli
… che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci
amici quando comandavano … al soldo del Kgb …
Il dottor
Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero:
nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica
nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:
-
non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel
telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua
eccellenza, prima che altri lo notassero.
[1]
) non nel senso del Traina (= parlar con
facezie), ma in quello del paese mio, come dire agghindate ma sciattamente; intraducibile dunque.
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