ARRIVA LA CIVILTA’ ARABA
Con gli
Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi
che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi
a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze
scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo
illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è,
appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare
che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi -
a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della
parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione
saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria
normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni
arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi
locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben
condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici,
religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza
fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente
intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’
(frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà
terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non
possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento
di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo
ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più
sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento
così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità
dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca
è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva
1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il
governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir
Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([1])
Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate
Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca
di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella
che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la
«tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso
pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non
mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la
falsità, e precisamente nelle Parrocchie
di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i
racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo
(v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella
falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza
se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, ribadisce, come
abbiamo visto quella diceria. Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia
sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo Sciascia sia altra o
più attendibile rispetto a quanto ebbe a sostenere Tinebra Martorana (v. pagg.
33 e segg.). Comprensibile, quindi, se ancor oggi su Internet, compulsando i
siti a carico della collettività, siamo tenuti a credere:
Nell'827 d.C. sulle rovine di Casalvecchio, i
saraceni che avevano conquistato gran parte della Sicilia, edificarono
Rahal-Maut. Sotto il dominio arabo Racalmuto progredì rapidamente,
s'intensificò l'agricoltura mentre le miniere di zolfo e le saline diedero un
impulso maggiore al commercio della città. Nel 1038 Racalmuto fu conquistata
dal generale bizantino Maniace e nel forte di Minsciar (l'attuale
Castelluccio), sventolò per quattro anni la bandiera di Costantinopoli.
Se quanto abbiamo sinora dibattuto ha
una qualche attendibilità, queste chiose di pretesa storia locale rasentano
stadi di demente visionarietà – ben diversa da quella romantica, alla Sciascia
– e attestano solo lo sperpero del pubblico denaro. Il generale Maniace che sta
a fare sventolare il vessillo bizantino al Castelluccio (la cui esistenza in
quel tempo si dà per certa, ed il cui toponomo è mutuato dall’Edrisi di oltre
un secolo dopo), dovrebbe destare beffardo sorriso, se il parto letterario non
fosse a carico del contribuente: le miniere di zolfo e le saline – attive e
proficue dall’IX al XI secolo, non ci vien detto in quale landa racalmutese –
sono presenze che sconvolgono ogni attuale conoscenza storica.
Sciascia, purtroppo,
è drastico nell’assegnare il toponimo Rahal-Maut al locale Ottocento arabo: ne
lima scaramanticamente la portata funerea; il richiamo agli inferi, sotteso al
“Paese dei morti”, si stempera nel più attendibile “paese distrutto dalla
peste”. Invero Racalmuto ebbe consuetudine con le epidemie: «a peste fame et
bello, libera nos Domine» era litania cantilenata nei millenni, con
accoramento, con atavico terrore contadino. Erano davvero malanni con cui si
doveva avere familiarità.
I nostri excursus storici sono contrappuntati di
desolazioni endemiche. Peste nel IV secolo, peste nel 1355, morte e sgomento
per peste dal 1374 al 1375, tentativo di sfruttare l’epidemia del 1576 per
pietire qualche sgravio fiscale; famigerata fu quella del 1624 ove si prodigò
il medico racalmutese Marco Antonio Alaimo; contro la devastante peste del 1671
nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non
annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quella
economica a quella sociale; da quella dell’umano vivere a quella del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; d. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del
1802; un temendo cataclisma era stato il colera del 1837. Un fraticello del
Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa agghiacciante testimonianza [2]:
«Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto
morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto
al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in
San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone particolari;
poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo,
che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.» Alla fine del XIX
secolo altra morìa endemica, e per sovrappiù la “spagnola” nel 1919.
Se Sciascia, dunque, si concede
la licenza storica di fari derivare il toponimo del apese da un’impressionante
peste, ha le sue brave ragioni letterarie. E come tali, finiamo per accettarle
e rispettarle. Ma non sono verità storiche né narrabili né adombrabili.
Il
toponimo si diffonde in Sicilia nel 1178 e riguarda una località, che, sia
chiaro, nulla ha a che fare con Racalmuto e che riguarda addirittura la lontana
Polizzi Generosa.
Racalmuto
si affaccia alla storia documentata con un plateale falso, quello confezionato
dal celebre abate Vella, di cui al Consiglio
d'Egitto del grande Sciascia . Quell'ingegnoso falsario propina a Mons.
Airoldi questa pagina su Racalmuto, che, a nostro avviso, non era a quel tempo
neppure sorto:
«O mio Padrone Grande assai, il servo della sua grandezza
con la faccia per terra le bacia le mani e le dice che l'Emir di Giurgenta mi
ha ordinato che avessi a numerare la popolazione di Rahal-Almut e dopo dovessi
scrivere alla sua Grandezza una lettera e mandarla a Palermo. Ho numerato tutti
ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole.
Tutti questi fanciulli sia Musulmani che Cristiani sono sotto i 15 anni. Onde
con la faccia per terra le bacio le mani e mi sottoscrivo così:
Il
Governatore di Rahal-Almut: AABD-ALUHAR, per
bontà di Dio servo dell'Emir
ELIHIR DI
SICILIA.
24 del mese Regina (gennaio) 385 di Maometto (che
corrisponde all'anno 998 dell'era cristiana)».
L'Abate
Vella, evidentemente, era a conoscenza delle particolari attenzioni che mons.
Airoldi dedicava in quel tempo alle rilevazioni statistiche della Sicilia
Araba. Cercò, così, di assecondarlo. Resta, però, il fatto che il monsignore -
fattosi avveduto dopo le note vicende giudiziarie del suo protetto - espurgò
dai sui appunti di statistica demografica quell'accenno alla popolazione araba
di Racalmuto. Di Rahal-Almut non troviamo infatti alcun cenno nelle serie
demografiche dell'Airoldi pubblicate, nell'Ottocento, dal Ferrara, il noto
economista siciliano.
Non così,
invece, il nostro Tinebra Martorana che riporta integralmente la ghiotta pagina
di pretesa storia locale. A dire il vero egli avverte, sia pure in nota[3]
e con qualche astuzia linguistica, che trattasi di un falso. Ma forse ebbe a
pensare che anche i falsi un qualche fondamento storico ce l'hanno pur sempre,
e tanto valeva richiamarli. Si dava, purtroppo, il caso che nella circostanza
il falso era totalmente falso ed anziché fornire un qualche lume, finiva con il
far sviare del tutto dalla ricostruzione storica di un periodo racalmutese fra
i più oscuri (e più chiacchierati, forse appunto perché oscuri).
Leonardo
Sciascia sembra aver dato credito, in un primo momento, al falso dell'abate
Vella e nelle Parrocchie di Regalpetra, Racalmuto figura esistente sin dal 998 «.. anno ..
dell'era cristiana [in cui] il governatore arabo di Regalpetra scriveva
all'emiro di Palermo "ho numerato
tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502
figliuole"» . Ma, già nella Morte dell'Inquisitore, l'abbaglio viene
emendato ed il dato demografico scartato. Al tempo poi della elaborazione del
magistrale "Il Consiglio d'Egitto" lo scrittore conosce intus et in cute il grande imbroglio
dell'intraprendente abate maltese. Rimembra il lapsus delle
"Parrocchie" ed in fondo in fondo gliene dispiace. Si spiega così
l’acre rimbrotto[4] che
rivolge al suo - tutto sommato - apprezzato Tinebra Martorana, che suona un po’
falso, visto che la ripubblicazione delle "Memorie" del Tinebra
l'aveva voluta proprio Sciascia.
Chi scrive,
dal canto suo, è propenso a ritenere che bisogna risalire al tardo 1271 per avere
il primo documento certo dell'esistenza storica di Racalmuto. Tutto quello che
precede è frutto o di fantasia o di imbroglio - letterario o storico, poco
importa - o di campanilismo visionario. Tutta la faccenda dell'etimo arabo di
Racalmuto si tinge di bizzarria intellettualistica. Iniziarono certi araldisti
del Seicento e da ultimo ci si è messo pure uno specialista di assoluto valore,
il Pellegrini[5], che
propina un Racalmuto equivalente a "Paese del Moggio".
E nel primo
documento disponibile - quello appunto del 1271, che si conservava negli
archivi angioini di Napoli - Racalmuto viene trascritto, quanto correttamente
non si sa , come RACHAL CHAMUT. A questa trascrizione qui ci si aggancia per
affermare che se un senso ha il toponimo "Racalmuto" questo non può
allontanarsi di molto dal significato di "Fortezza di Chamuth". Come
voleva il padre Parisi, e come affermava lo storico Garufi.
Il
più antico documento ove viene menzionata una località denominata Rahal-kamuth
risale – come si disse – al 1178: stilato in greco, fu pubblicato nel 1868 dal
grande paleologo siciliano Salvatore Cusa. [6]
Vi
si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo
sito in RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre
di quell'anno, fu tale Pietro di Nicola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed
ai figli Tommaso e Nicola. Il toponimo
Rachal Chammoùt ((((((rakal
kammou/t) figura naturalmente scritto in greco e la vendita del terreno
viene fatta al monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi
Generosa.
Il
rimarchevole diploma del 1178 ha suscitato un particolare interesse in
Garufi, un grande storico cui fa ricorso Sciascia nella Morte dell’inquisitore, il quale sembra opinare che il toponimo sia
da riferire a Racalmuto, e così argomenta: [7]
«soggiungo che l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta
d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m
u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata
tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di
compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout,
nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i
testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero
dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
L'autorevole
storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto
Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come
il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare
questo documento con una sua copia in latino riportata e studiata dal Di
Giovanni[8],
e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sulla fondatezza della tesi del
Garufi.
Non si
riferisca pure a Racalmuto, il documento, tuttavia, illumina sui processi di
colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E tanto potrebbe
giovare all'ipotesi di un insediamento benedettino a Racalmuto, come vorrebbe
ad esempio il Pirri.[9]
Sinora, La storia di Racalmuto resta purtroppo vincolata all'opera giovanile di
Tinebra Martorana. I tanti tentativi posteriori non hanno per il momento, a dir
poco, avuto presa sull'intellettuale collettivo del paese. Molto ha contribuito
Sciascia nel rendere incorrodibile quel libretto di storia locale: il substrato
che ne ha fatto per i lavori a dichiarato sfondo racalmutese (Le Parrocchie di Regapetra e Morte dell'Inquisitore) lega il nome del
al dire del Tinebra, sublimato dal paradigma letterario sciasciano; la
splendida prefazione scritta nel 1982 diffonde un'autorevolezza spropositata
sulla fatica giovanile di quel medico racalmutese. Parole, come queste,
risuoneranno magiche ed imperative in tempi futuri anche non prossimi: «Il
libro [quello del Tinebra Martorana], per i racalmutesi, per me racalmutese, va
bene così com'è: col gusto e col sentimento degli anni in cui fu scritto e
degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica ed un tantino
melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi
mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro
l'acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono
nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»[10]
I Normanni a Racalmuto
Conquistata Agrigento
nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il
terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol
dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi
di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto
per un ritorno al cristianesimo.
Ma chi erano questi
normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio
rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio
saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal
giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura
confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero
ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza,
patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di
'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche
spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi
smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere
espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del
re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in
Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([11])
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe
stata edificata una famosa dinastia». ([12])
*
* *
Che cosa ne è stato
della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo
sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle
sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in
definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni
(quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e
fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi
racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in
testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome
diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II
deportò tanti arabo-siculi.» ([13])
*
* *
Dopo i
primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una
sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma
Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò
sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei
primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di
Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era
appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni
da seminare ben coltivati.» ([14])
Gli storici
stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il
risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a
vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche
l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità. ([15])
Del resto in
Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo
quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in
un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli,
qualche volta dotandoli di beni. Si
rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di
frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di
scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e
le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e
organiche strutture ecclesiastiche. Le
sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e
quindi di vita quotidiana della gente e
di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che
affidava un ruolo di protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.» ([16])
Ruggero non
ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato.
Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una
religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e
forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa
latino. Le preoccupazioni politiche
erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di
fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu -
ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale
quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire
della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di
essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata
al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, [17]
dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna,
giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sarebbero stati
definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino ([18]),
può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le
sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini
della diocesi corrono dal Licata
sino al fiume Belice, che costituisce i confini
con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude
Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato paziente nel seguire il
zig zag dei confini avrà subito colto
che Racalmuto, quale centro al di qua
del Salso, venne in quella bolla
assegnato a GERLANDO, un vescovo santo
ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto steriotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di
gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede gran
numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti
ci appaiono più circospetti. In base
alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della
Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra
lecito nutrire dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo
ebbe subito fama di santità, come può
arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove
si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella
sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a
Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo
e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei
ceppi antichi più tenaci. Questo
vescovo borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di
Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di
capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di
certo, per lui, incomprensibilmente. E
le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i
'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24 dicembre 1092) - una falsificazione in
forma originale, secondo il Collura
- accenna a nobilati
francesi già presenti in Agrigento, a
concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a
parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia
di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un Rogerius che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus'
da riti demoniaci (che pure era
la grande religione di Allah). Emerge
il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con
una gamma greca nel bel mezzo della
grafia latina. Principalmente, a
colpirci, è il richiamo allo
strumento giuridico del privilegium
che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio 'Rosperto
notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il
suo consiglio viene giudicato 'justus'.
Francesi, notai, prebende
ecclesiastiche, canonici, vescovi
probi ed assennati, ma anche interessati
alle cose terrene, tutto il
mondo della burocrazia
ecclesiastica romana vi traspare,
ed era passato appena un
quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
[2] )
Archivio di Stato di Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S.
Francesco d’Assisi - Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[3]) NICOLO' TINEBRA MARTORANA
- RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI
RACALMUTO 1982. A pag. 36 si può leggere questa rivelatrice nota: «Codice diplomatico arabo - Torino 3°, p. 1, f - Si dubita però della
autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per
falsità».
[4]) Nel
licenziare l'opera del Tinebra, Sciascia sembra più interessato ai valori
letterari del libro di quel ventenne studente in medicina che alle risultanze
della ricerca storica. Il Tinebra Martorana avrebbe, secondo Leonardo Sciascia
(cfr. pag. 8), cercato «.. di non
ignorare tutto quello che, in opere di storia generale e locale, riguardasse
Racalmuto: ma sentiva fortemente la tentazione dell'accensione visionaria,
fantastica. Ne è spia di questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia, il
suo non resistere al piacere di riportare
un documento falso pur sapendo che è falso: ed è la letteradel governatore
arabo di Racalmuto (Rahal-Almut) all'Emiro di Palermo, fabbricata, come tutto
il codice che la contiene, dal famoso Giuseppe Vella: un personaggio di cui ho
raccontato ascesa e caduta nel Consiglio
d'Egitto. E voglio confessare che anch'io non mi sono privato del piacere
di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle
Parrocche di Regalpetra. Solo che Tinebra Martorana, facendo storia, aveva
minore libertà di quanto io ne avessi, e perciò quella sua strana, per un libro
di stora, nota : "Si dubita però
dell'autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per
falsità". Altro che dubitare: se ne era , nel 1897, certissimi.»
[5])
Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici
italiani - UTET 1990. Racalmuto - vi si legge - "deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e
221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di
lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli
Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino
Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema
che suonasse simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi.
[7])
Cfr. CARLO ALBERTO GARUFI, 'PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA
FONDAZIONE IN SICILIA' in ARCHIVIO
STORICO SICILIANO, anno 1947, parte II dell'articolo, pag. 34.
[8]) ARCHIVIO
STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il
Monastero di S. Maria la Gàdera poi
Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e
segg.
[10]) Cfr. Prefazione in
NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI
BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982,
pag. 9.
[12]) Denis Mack SMITH,
Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21.
Questo libro e il suo autore furono cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli
storici siciliani fu persino patetica. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi
CORRENTI a pag. 29 della sua Storia di Sicilia come storia del popolo
siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a lodare il Mack Smith per il suo 'stile
provocatorio' rimase il solo Leonardo Sciascia, che però si rifece
clamorosamente, facendo decretare al suo amico inglese gli onori del trionfo,
in una speciale manifestazione organizzata a Palermo il 6 aprile 1970, niente meno che al palazzo dei Normanni:
onore mai concesso a nessuno storico, e assolutamente sproporzionato al merito
dell'opera (e il primo a stupirsene fu lo stesso Mack Smith).» Secondo il
Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe Giarrizzo, Gaetano Falzone,
Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la bocca di fronte alla storia
siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è oggi universalmente
cosiderata un classico, come tante altre opere dello storico inglese.
[13] ) Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondatori Milano 1979, p. 12. E potremmo
citare “Occhio di Capra” ove l’arabismo scasciano plana addirittura nell’onirico.
[14]) EDRISI, Sollazzo
per chi si diletta di girare il mondo,
libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele Amari,
Roma 1880.
[15]) «Un
problema complesso e contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie
del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana,
La monarchia normanna e sveva, op.
cit. pag. 543.
[17])
Secondo i BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM,
collegerunt ac digesserunt Joannes
BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De
S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia", addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud
Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -
autori secondo il COLLURA [op.cit.
p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il
primo vescovo di Agrigento post saraceno
potè essere consacrato
dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi salì
al soglio pontificio (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene
avanzata solo sulla base di un'asserzione
del PIRRO che vuole Gerlando consacrato da Urbano II
"ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini diocesani da parte di Ruggero è però del
successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo documento capitolare di Agrigento - fa
risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento - Libellus, c. 18B - afferma: «complens
duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino vicesimo quinto die mensis februarii [1104]».
Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento dell'archivio di Agrigento porta la data
appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in
proposito del Collura, op. cit., p. XI e
p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma incidentalmente e senza alcun supporto
critico.
[18]) «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia
episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius episcopus vocatur GERLANDUS , cui in
parochiam assigno quicquid intra fines
subscriptos continetur, [ ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de
subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et inde tenditur
per divisiones Iatinae et
Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero usque
ad flumen Salsum, quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore
huius fluminis, ubi cadit in mare,
protenditur haec parochia de iuxta
mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur, tenditur ad
Pira de
subtus Petram Heliae, atque inde ad altum montem, qui est supra Pira;
inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur
cum flumine Petra Helie, et ex
hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum et Butheriam; atque inde per maritimum usque
ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch tenditur sicut hoc flumen currit usque de subtus Corilionem
, ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione et Termis.»
Questo documento è pubblicato sub 2) dal Collura, ["Le più antiche carte
...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto accurata.
Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu
ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA,
GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN,
LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.
cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una
copia incompleta della seconda metà del
XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in
Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae
Regni', I, codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10
febbraio 1509, ed in 'Liber
Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L],
redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del
1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)"
[op. cit. p. 7].
Il FAZELLO, il religioso di Sciacca nato nel
1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di
Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si
avvalsero dell'opera del Fazello, ma
ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul documento
e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e
ss.]. Anche il Picone [op. cit. appendice I] riporta il testo con
note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia
sacra, t. I, p. 695 e 696], non ha sottomano i documenti originali di
Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il
documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono
per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può
leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di ratifica, del 10 ottobre del 1098.
Il Pirro
utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti gli altri editori tra cui
il MANSI, il CARUSO,
il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura, op. cit., p. 21]. Nel 1960 il
documento viene edito criticamente dal Collura [op. cit. doc. n. 5, p. 21-24],
secondo il quale "nel complesso il testo della bolla è sincero".
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