mnia Racalmuto
...per mestiere spiego
bene agli altri quello che per me non comprendo.
giovedì 18 settembre 2014
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sabato
13 settembre 2014
IL PITTORE ANTONIO
ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro
d’Asaro fu costretto a fare, per fini fiscali, nel 1637, viene dichiarato un
tale Giuseppe
di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre personali ricerche ci portato a
credere che si tratti di quel Gioseppi Di Benedetto che il 29 ottobre 1648
sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m° Luigi e della defunta sig.a Paola.
Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa publice
senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del reverendissimo Sig. V.G. date nella citta di NARO a 22 del
presente et presentate in questa terra a 28 dello predetto mese. Questo fu celebrato
con la presentia di don Francesco Sferrazza ECONOMO presenti per testimoni don
Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di
Carlo et fatte le denunciatione doppo a 28 di novembre foro in questa ma
matrice benedetti per don Federico La Matina cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo
pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p.
Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso, un po’
troppo quando scrive [1] «Tra i lavori fatti dal
padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi Crispino e
Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo
di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte,
restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto
cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi
lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare,
a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore
canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre
ricerche d’archivio danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da
Agrigento Antonio Capizzi per
“stucchiare e pingere” la navata centrale della Matrice: il contratto prevede
29 onze di ricompensa. A riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della
“fabrica”:
17.11.1660 A
Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto
di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della
matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro
Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato
et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d. -/ 8;
.
6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di Girgenti
onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze 29. et
sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere la
nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede all'atti di notar Michelangelo
Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d. --- -/
8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si
pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e
PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante
dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17.
9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a
sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662
Ad Antonio Capizzi onze tre quali si ci pagano a complimento di onze
vinticinque et in conto d'onze vintinovi si li devono per conto della fabrica
della matrice come per mandato et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d.
appare;
10.2.1662
Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze
vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro
vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice
chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per
mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
Ventinove onze sono
molte di più di quelle 12 che, secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il
rev, Santo Agrò nel 1622 per dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia
ci delizia con queste annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina di
un numismatico ed ad immaginarne dodici una sull’altra, anche se non sappiamo
precisamente a quante lire corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri
giorni [a circa Lit. 7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente
soggiungere noi, n.d.r.] una pala
d’altare di un pittore che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i
contemporanei soltanto Guido) non possiamo dirla mal pagata.» [2] etc. Chissà cosa
avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo vecchio libro di
contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi
si trova, comunque, bene a Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una
nidiata di figli ma con una serva nella numerazione delle anime del 1664
(custodita anche questa in Matrice):
708
|
CAPIZZI
|
ANTONINO
|
C.
|
4
|
6
|
10
|
MASTRO
|
|
GERLANDA
|
M.
|
C.
|
||||||
GASPARU
|
||||||||
PASQUA
|
||||||||
BARTOLA
|
||||||||
BARTOLOMEO
|
||||||||
GIUSEPPE
|
||||||||
ROSALIA
|
||||||||
NARDA
|
||||||||
CATARINA
|
||||||||
VENA
|
C.
|
1
|
1
|
FAMULA DI D.O DI CAPIZZI
|
Ma non ha altro titolo
di distinzione che quello di semplice “mastro”: niente “don” dunque; se
“pittore” fu, lo fu nel senso moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe
nascerà il 5 maggio 1683 il pittore Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu
davvero, ed anche se non può avere praticato una qualche bottega di pittura
degli eredi di Pietro D’Asaro (Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando
il Capizzi era ancora in fasce) affinità stilistiche attestano una scuola
racalmutese alla Pietro d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE
RACALMUTESE DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre Adamo [3] la nostra piacevole
scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro
dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi
lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale che ormai
appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa
dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era
trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi
rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La
più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al
grande affresco della natività di Maria: «Antonius
Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731»
Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per
inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate
costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di
s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto
Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti
particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a
quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno,
sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore
di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi
in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si
chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici:
almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si
sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda
nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che
ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel
Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di
p. Fedele da S. Biagio.[4]
Non si può, poi escludere, che taluno dei
tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al
pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e
consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire
dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine
stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel
secolo.
Non ci intendiamo d’arte per
sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon conto epigoni della scuola
racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore di Delia con gli inceppi
dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza di mero decoro, il
paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto – e la composizione
prolissa che si sfilaccia in riquadri
disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con Sciascia, «nell’epigonia
manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi», vi è solo lo stracco
imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza passioni come l’inespressivo
sguardo che sembra doversi assegnare alla agiografica rappresentazione dei
santi da venerare nei santuari. E per il Capizzi non disponiamo – diversamente che per l’Asaro –
di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire «un che di
misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto, forse la
spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi in
Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico
rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
Pubblicato da Calogero
Taverna a 15:51
lunedì
21 aprile 2014
I
preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto – alle chiese forse
terrorizzati per l’incombente acceso agli inferi, per pratiche usurarie. Ma le
volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il sacerdote Pietro
Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti legati,
«instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile chiesa fi
S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona Septembris,
prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si doveva vendere
tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa – ed il
ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della detta ven.
Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore soggiunge: «li
frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed effetti
ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si
ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti
suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e
questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di
rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e –
non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni
della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra
persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven.
Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D.
Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore
Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
Ancor oggi non si sa se il Santuario sia rifacimento o ampliamento o –
molto più probabilmente – una nuova costruzione che venne addossata alla
vecchia chiesa, divenuta sacrestia. Il padre Morreale è molto meticoloso ed
ovviamente agiografico. [5] Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una
«nuova chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e
solo attorno al 1746 l’antica chiesa si sarebbe venuta «a trovarsi dentro la
nuova.» Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione,
peraltro ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico,
la chiesa del Monte: «Sorge sul poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu
costruita nel 1738. Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia.
All'interno è ubicata la leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine
di fattura gaginesca. Maria SS. del Monte è la compatrona e regina di
Racalmuto ed ogni anno, nella seconda settimana di Luglio, si celebra la festa
in suo onore. Durante i tre giorni della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con recite, cortei con cavalieri in abiti del 500 e
prumisioni che consistono nell'offerta del grano alla Madonna
da portare a piedi o su cavalli che, spronati dalla folla, devono salire
lungo la scalinata che porta al santuario. Altro momento esaltante della
festa è la pigliata di lu ciliu
(una sorta di cero alto alcuni metri) che consiste nella conquista della bannera da parte di giovani borgesi
scapoli. La lotta per conquistare la bandiera è talvolta violenta, con pugni
e calci da parte degli avversari. Tutto si quieta quando uno dei borgesi
afferra il drappo.»
|
Sciascia, che ebbe ad
infilzare proprio il mansueto padre Morreale, forse perché gesuita, a proposito
della ricerca storica sulla venuta della statua della Madonna del Monte, ora
finge di non dargli peso per codeste ricerche testamentarie del sacerdote
Pietro Signorino. Al giovane Tinebra Martorana aveva accordato il peso della
sua autorevolezza e in un caso analogo, quello del testamento del sacerdote
Santo d’Agrò, non si era lasciato sfuggire il destro per sardoniche
bardote sul prete in “alumbiamento”.
Altrettanto poteva fare anche in questa circostanza della Chiesa del Monte, ma
se ne è astenuto. E dire che piccante poteva risultare la ricerca del gesuita
p. Morreale sulle propensioni a beneficiare una pinzochera da parte del pio
testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel testamento – il padre Signorino
– determinò alcuni legati a favore della Perpetua». Invero, la preoccupazione a
beneficiare Caterina d’Alberto è pressante. «Item il sudetto testatore hà
legato – si legge nel corpo delle disposizioni testamentarie – e per ragione di
legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una casa, prezzo e capitale di onze
10 circa, quale vuole che se li dovesse comprare dalli ssopradetti suoi
fidecommissarii» e nel codicillo, in termini ancora più chiari anche se in
latino, «item dictus codicillator ligavit et ligat sorori Mariae de Alberto
bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo vocata Caratina eius famulae ultra
illas uncias decem in dicto eius testamento legatas tre infrascripta domus de
membris et pertinentiis eius tenimenti domorum » e passando al volgare «nempe
la prima entrata, la camera ed il catoio sotto detta camera della parte di
occidente, seu della parte di San Gregorio» e tornando al latino «de quibus
quidem tribus corporibus domorum ipsa
soro Maria, habet et habere debet solum usum exercitium». Non solo, ma «dumtaxat
– cioè vita natural durante – [le si devono] tumuli otto di frumento, un letto
fornito, due tacche di tela sottile, il mondello, due sedie di corina, la
criva, la sbriga e maiella, ed alcuni arnesi di cocina.»
Almeno, quello svolazzo del codicillo,
una funzione la esplica: dà materia per un eventuale museo etnografico.
LA SCUOLA PITTORICA DI
PIETRO D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO
ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro
d’Asaro fu costretto a fare, per fini fiscali, nel 1637, viene dichiarato un
tale Giuseppe
di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre personali ricerche ci portato a
credere che si tratti di quel Gioseppi Di Benedetto che il 29 ottobre 1648
sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m° Luigi e della defunta sig.a Paola.
Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa publice
senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del reverendissimo Sig. V.G. date nella citta di NARO a 22 del
presente et presentate in questa terra a 28 dello predetto mese. Questo fu
celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza ECONOMO presenti per
testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo Brutto, Petro Pistone et
cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo a 28 di novembre foro in
questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo
pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p.
Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso, un po’
troppo quando scrive [6] «Tra i lavori fatti dal
padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi Crispino e
Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo
di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte,
restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto
cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi
lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare,
a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore
canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre
ricerche d’archivio danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da
Agrigento Antonio Capizzi per
“stucchiare e pingere” la navata centrale della Matrice: il contratto prevede
29 onze di ricompensa. A riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della
“fabrica”:
17.11.1660 A
Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto
di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della
matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro
Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato
et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d. -/ 8;
.
6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di Girgenti
onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze 29. et
sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere la
nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede all'atti di notar Michelangelo
Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d. --- -/
8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si
pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e
PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante
dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17.
9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a
sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662
Ad Antonio Capizzi onze tre quali si ci pagano a complimento di onze
vinticinque et in conto d'onze vintinovi si li devono per conto della fabrica
della matrice come per mandato et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d.
appare;
10.2.1662
Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze
vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro
vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice
chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per
mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
Ventinove onze sono
molte di più di quelle 12 che, secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il
rev, Santo Agrò nel 1622 per dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia
ci delizia con queste annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina
di un numismatico ed ad immaginarne dodici una sull’altra, anche se non
sappiamo precisamente a quante lire corrispondano nella galoppante inflazione
dei nostri giorni [a circa Lit. 7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo
pedantemente soggiungere noi, n.d.r.]
una pala d’altare di un pittore che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i
contemporanei soltanto Guido) non possiamo dirla mal pagata.» [7] etc. Chissà cosa
avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo vecchio libro di
contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova,
comunque, bene a Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di
figli ma con una serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche
questa in Matrice):
708
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CAPIZZI
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ANTONINO
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C.
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4
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6
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10
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MASTRO
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GERLANDA
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M.
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GASPARU
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PASQUA
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BARTOLA
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BARTOLOMEO
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GIUSEPPE
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ROSALIA
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NARDA
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CATARINA
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VENA
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C.
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FAMULA DI D.O DI CAPIZZI
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Ma non ha altro titolo
di distinzione che quello di semplice “mastro”: niente “don” dunque; se
“pittore” fu, lo fu nel senso moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe
nascerà il 5 maggio 1683 il pittore Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu
davvero, ed anche se non può avere praticato una qualche bottega di pittura
degli eredi di Pietro D’Asaro (Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando
il Capizzi era ancora in fasce) affinità stilistiche attestano una scuola
racalmutese alla Pietro d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE
RACALMUTESE DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre Adamo [8] la nostra piacevole
scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro
dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi
lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale che ormai appare
decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa
dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era
trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi
rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La
più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al
grande affresco della natività di Maria: «Antonius
Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731»
Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per
inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate
costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di
s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto
Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti
particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a
quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno, sempreché
la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore
di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi
in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si
chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici:
almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si
sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda nostalgia
della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che ciò non
rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel
Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di
p. Fedele da S. Biagio.[9]
Non si può, poi escludere, che taluno dei
tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al
pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e
consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire
dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine
stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel
secolo.
Non ci intendiamo d’arte per
sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon conto epigoni della scuola
racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore di Delia con gli inceppi
dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza di mero decoro, il
paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto – e la composizione
prolissa che si sfilaccia in riquadri
disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con Sciascia,
«nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi», vi è solo
lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza passioni come l’inespressivo
sguardo che sembra doversi assegnare alla agiografica rappresentazione dei
santi da venerare nei santuari. E per il Capizzi non disponiamo – diversamente che per l’Asaro –
di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire «un che di
misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto, forse la
spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi in
Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico
rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se
volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio
spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare
riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia;
alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude
in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del
1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo
l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi
in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso
periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che
cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20
ottobre 1735) lo chiudono sotto un
duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna
ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel
1710 aveva di molto rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli
arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco
Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure
come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba
arcipretura di Antonio Scaglione - sino
ai nostri giorni.
Sull’interdetto
del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare.
Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di
cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di
Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9
cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale
viene ripartito il c.d. “donativo”. [10]
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720
v’è un allentamento della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta
celebre il caso[11] del bandito Raimondo
Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette
essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la
sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta
tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore
di d. Fabrizio Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un
quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi
confratelli se costoro si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220
seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto
vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un
tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora:
veramente tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di
rappresentare una volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione
Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati diritti di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i
quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti,
l’ampia gamma di aliquote per tasse matrimoniali dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario dei diritti
di stola per il matrimonio celebrato in chiesa, a Racalmuto, sotto l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al 1738
LIBER PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET ORDINIS SACRIS INSIGNIRI
CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE AD ANNUM 1770
TASSA PER
L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in questa terra
LE SPESE SONO CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL PARROCO DELLA TERRA DOVE
ABITA IL
SPOSO-------- T. 1
SEDE DI DENUNCIE---------- T. 2
10 GRANI
ORDINE PER IL COPIARI TESTES T. 1
LETTERE ALLA G.C. : T. 1
P. SOVRATASSA DI DETTA LETTERA
NELLA QUALE DONA LICENZA
DI SPOSARSI T. 1
TASSA T. 3 10
GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 10 0
..
LETTERA REG.RE AL PARROCO
T. 0 10 GRANI
TESTI
T . 2
?? T. 1
LIC. REGOLARE T. 2 10 GRANI
TASSA DELLA LETTERA DI GI.GNTI
T. 10 GRANI
//
15 GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 7 5 GRANI
SE PERO' LA SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD. DEL COPIARE LI TESTES
T. 1
SEDE DI DENUNCIA T. 2 10
Dobbiamo
però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano
la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo
della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della
chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso
la questione del quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro
d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item
il quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui –
come per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa,
tendo a credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità
del 1637 (molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo
del 1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o
della Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641,
s’impegnano a sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui
spazio antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei
suoi eredi, previa destinazione alla “Fabbrica”
di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo
Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del
sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad annotare che «non sono
sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie
di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del
SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654
non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di
un’oncia dell’eredità Agrò[12].
L’elaborato algoziniano che si conserva
presso l’archivio vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato
della comunità racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731,
l’arciprete consegna al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo
Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande nelle istruzioni
dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita
pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con bolla
pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio 1731) e
all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e pignolo.
Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive
risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado
di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a
quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le
chiese “secolari”, nove nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono
quelle dei “regolari”. In totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il
paese:
1. la Matrice chiesa
sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed Amministratore
il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2. Oratorio del SS.mo
Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr
D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo
Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3. Chiesa sotto titolo di
S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D.
Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che l’amministrano;
4. Chiesa sotto titolo di
S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come Padroni;
5. Chiesa sotto titolo di
S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a
Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6. Chiesa sotto titolo di
S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco
Pistone;
7. Oratorio sotto titolo
di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò
Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8. Chiesa sotto titolo di
S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino
Beneficiale;
Chiesa
sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò
mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro
Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le
chiese di campagna, denominate “chiese fora le Mura”:
1. Chiesa sotto titolo di
S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2. Chiesa sotto titolo di
S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3. Chiesa sotto titolo di
S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4. Chiesa sotto titolo di
S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5. Chiesa sotto titolo di
S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6. Chiesa sotto titolo
del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano
fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed
oratori domestico” (queste saranno di moda alla fine del Settecento e si
protrarranno sino alla seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei
monasteri che sono “cinque conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1. Convento di S. Maria
del Carmine;
2. Convento di S.
Francesco de Padri Minori Conventuali;
3. Convento di S. Maria
de Padri Minori osservanti;
4. Convento di S.
Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5. Ospizio di S. Giuliano
de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6. Monastero de Monache
dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano
conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto
la giurisprudenza dei Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi
erano ancora monti di pegno.
In compenso operavano due confraternite
e cinque “compagnie”.
1. Confraternità di S.
Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana
e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2. Confraternità di S.
Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e
Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla Prima
Domenica di Gennaro;
3. Compagnia del SS.
Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo
Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre
mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4. Compagnia del Thaù
fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti
Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre mesi,
incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del mese, li
presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5. Compagnia dell’Anime
del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore
Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La
Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima
Domenica di Gennaro;
6. Compagnia di S. Maria
del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac.
D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio dura anno uno,
incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7. Compagnia di S.
Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed Ignazio
Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda
domenica di Gennaro.
8.
Ci
viene fornito un dato anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto
precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a
Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o
abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti per ogni nucleo
familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però
ammalati cronici 24. In ogni modo un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183
abitanti. Ecco l’elenco:
1. Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D.
Filippo Algozini;
2. Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario
Foraneo;
3. Sac. D. Filippo Cino;
4. Sac. D. Francesco Pistone;
5. Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6. Sac. D. MichalAngelo Rao;
7. Sac. D. Ignazio
Laudito;
8. Sac. D. Paulo Spagnolo;
9. Sac. D. Gerlando Carlino;
10. Sac. D. Antonino Macaluso;
11. Sac. D. Francesco Torretta;
12. Sac. D. Gaspare Casucci;
13. Sac. D. Vincenzo Casucci;
14. Sac. D. Leonardo La Matina;
15. Sac. D. Calogero Pumo;
16. Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17. Sac. D. Antonino Mantione;
18. Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19. Sac. D. Isidoro Amella;
20. Sac. D. Vincenzo Avararello;
21. Sac. D. Francesco De Maria;
22. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23. Sac. D. Baldassare Biondi;
24. Sac. D. Pietro Signorino;
25. Sac.
D. Orazio Bartolotta;
26. Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27. Sac. D. Ignazio Pumo;
28. Sac. D. Santo Farrauto.
Ma le vocanzioni non mancavano; erano
già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella.
Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7
accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito;
Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano
Raspini e Grispino Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo
Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo
ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza,
Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno
quelli che cominciavano ad esserli nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere
di una nuova classe, quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie
escluse, non sono ancora di riguardo. Tra queste i Tulumello che poi
domineranno. I Matrona mancano perché ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici
“coniugati”, forse per i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D.
Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici
“coniugati” Agostino Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però
eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno
disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da
potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre
all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci:
Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La
Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai
Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il
sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo
Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a
Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute rendite i fratelli – i
“fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.
I francescani conventuali erano quelli
del convento di S. Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo
sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo
Surci (semplice “fratello”).
Non così invece a S. Maria di Gesù:
quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P.
Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli
e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da
Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra
Geronimo da Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano
all’ordine francescano dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove
ora c’è il cimitero e sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure
con alterna fortuna.
A S. Giovanni di Dio, adibito
soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra
Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele
fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano poi infondate.
Il convento di S. Giuliano doveva essere
chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccocelo vivo e vitale – sia pure ora
inquadrato nell’ordine di S. Agostino
della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo vedremo quando
commenteremo una dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del
1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da
Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da Racalmuto,
fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici
dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca”, le elemosine in
natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il turno del convento delle
monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluso, in uno spazio che per quanto
ampio costituiva una specie di carcere per donne di diversa estrazione, di
diversa età e persino di diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa
chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di
conferenza. I loro resti umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza
un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui,
con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è
dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da famiglie di spicco: suor
Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza, suor Maria Lanciata Di
Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria Crocifissa Signorino, suor
Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor Angelica Maria Signorino,
suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino; da forestieri o
da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie superflue tra
le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa
Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito,
suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e
Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica
monastica – erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La
Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla
per queste vite umane, per queste vittime di una condizione femminile
settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la
lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio
aristocratico.
I benefizi ecclesiastici sono appena
quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di
S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria
da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed
infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a
pagamento in Matrice, sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore,
l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a
ricevere le confessioni sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e
d. Francesco Torretta; gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don
Vincenzo Casucci, don Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino,
don santo Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e
Morreale) sono bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti
all’altezza delle confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare
Biondi e don Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire
l’assoluzione dai peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici
economici che il cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non
sarà mai beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare
Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà
la ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o
scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della religione e dei
precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo
del questionario:
1. Non vi sono
scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la communione
paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij, concubinarij,
adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che ostinatamente
abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure ostinatamente
non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua moglie; né pure
vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2. Vi sono due maestri di
scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3. Quattro medici fisici
dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed
il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4. Chirurghi dui il
clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5. Due levatrici, Angela
Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come
l’arciprete Algozini descrive la Matrice:
1. Il titolo della chiesa
è Maria SS.ma dell’Annunciazione ;
2. Si celebra la festa
nel giorno proprio;
3. Non vi sono abusi;
4. La chiesa non è
consecrata;
5. Il Padrone è il
vescovo;
6. Fu eretta alli 20
giugno 4a Ind. 1621;
7. Nella Cappella di S.
Maria del Suffraggiov’è la Liberazione dell’Anime ogni lunedì e nell’ottava de
morti ad septemnium per breve concesso dalla Stà di Benedetto XIII di fel. mem.
a 17 settembre 1728 e nessuno altare ha Padrone.
Della
struttura della Chiesa
1. Questa Chiesa Matrice
è construita con due ordini di colonne, con che si forma la nave e due ali;
2. Ha semplice tetto;
3. Non dona umidità;
4. Vi sono sei finestre,
cioè tre con vitriate e tre senza;
5. delle quali entra
vento;
6. le pareti della chiesa
in alcune parti sono di piedre quadrati, in alcune con incrostatura in alcune
incolte;
7. senz’erbe;
8. La fabrica da pertutto
ben soda;
9. senza veruna servitù;
10. v’è choro situato
nell’altare maggiore dell’istesso sito della Cappella;
11. senza sedili o stalli
distinti, ma fra breve vi si faranno ad eccitazione del detto rev. Archiprete;
12. non v’è separazione di
luoco per le donne;
13. il pavimento è di gisso
intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato
dell’edificio e sul suo assetto interno:
1. Tocca alla Maramma la
reparazione che ha onze 3.15.6 di rendite annue e cioè: dal sac. Isidoro Amella
onze 2; dal rev.do sacerdote don Vincenzo Casucci e consorti tarì 13.19; da
Antonino di Salvo Ruggeri tarì 4.10; dagli eredi di Giovan Battista Petruzzella
e consorti tarì 10.10; da Giovanne d’Alaymo Trombetta tarì 8.5; dall’erede di
Salvatore Corbo tari 8.2.
2. S’amministrano dalli
quattro deputati della chiesa che sono il rev. Archip. Dr. D. Filippo Algozini,
il rev. Vicario Foraneo D. Salvatore Lo brutto, don Francesco Pistone e don
Gaspare Casucci.
L’Algozini ci informa che «v’è dentro la
Cappella del SS.mo Sacramento di questa Chiesa Madre la compagnia del
Santissomo Sacramento; l’officiali sono l’antedetto rev.do arciprete dr. D.
Filippo Algozini, M° Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di Rosa.» Aggiunge: «Dentro questa Matrice chiesa non
vi sono cappellanie se non le sacramentali che adesso sono il rev.do sacerdote
D. Francesco Torretta ed il rev.do sacerdote D. Leonardo La Matina.»
Abbiamo peraltro «un beneficio di S.
Antonio Abbate posesso come sopra dal rev.do sac. Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono i
chierici Pietro Santo Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze,
quattro pagari dal rev. Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento,
onze 1.10 dalla Cappella di Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre
Cappelle in ragione di tarì 6 per una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico,
la descrizione e la disposizione degli altari:
1. Vi sono quattordeci
Altari, il Maggiore;
2. quel del venerabile;
3. della SS.ma
Annunciata;
4. di S. Maria del
Suffraggio;
5. del SS.mo Crocifisso;
6. di S. Vito;
7. di S. Giovan Battista;
8. di S. Leonardo;
9. di S. Antonio Abbate;
10. di S. Ignazio;
11. della Ss.ma
Assunzione;
12. delli S.ti
tré Reggi;
13. di S. Giuseppe;
14. di S. Maria Maddalena.
«Per quante diligenze s’abbiano fatto –
soggiunge l’arciprete – non si sa dell’erezione di ciascheduna.» Nel dettaglio:
«Sono l’altaretti conservati nello stipite e non ve ni sono portatili; sono
intieri nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno [altare] privilegiato di S.
Maria del Suffraggio; nessun altare ha padrone; non hanno rendite per
suppellettili e manutenimento, se non quelli che si devono contribuire dalli
celebranti secondo la tassa e reduzione ultimamente fatta. L’altare però di S.
Ignazio ha tarì 19 annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro Mulè paruzzo in virtù
di contratto per l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10 settembre 7a
1713, e tarì 7 dal notaio Michelangelo Vaccaro in virtù del contratto per
l’atti del quondam notaio Francesco Pumo a 11 gennaio X a ind.
1717.»
Gravano sugli altari vari pesi per
messe:
1. La cappella del SS.mo
Sacramento messe n° 163;
2. Cappella della SS.ma
Annunciata messe n° 58;
3. Cappella di S.
Giuseppe messe n° 144;
4. Cappella delli S. Tré Reggi
messe 3;
5. Cappella di S. Maria
del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane
trattenute dalla detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in
Sacrestia.»
L’inventario
del Casucci.
Questo l’arredo della chiesa e degli altari secondo l’inventario del tempo:
«Questo
è l’inventario di tutti i beni mobili e stabili semoventi, frutti, rendite,
raggioni azzioni e spese di qualsiviglia sorte della chiesa Matrice di
Racalmuto, sotto il di Primo Aprile 1731, fatto per me D. Gaspare Casucci
Economo di detta Chiesa con la presenza e l’assistenza delli Rev.di Sac. D.
Filippo Cino e D. Gerlando Carlino previamente informati dei beni, frutti e
rendite, e sono l’infrascritte:
La
sudetta chiesa Matrice è posta nella
strada del Castello a frontespizio della Piazza; ha d’un lato le case di M°
Giuseppe Di Rosa e dall’altro le case della ven.le Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una
ricostruzione storica che non sembra avvalorata dai documenti da noi investigati. Ad ogni buon
fine, quella ricostruzione casucciana la riportiamo egualmente:
«Fu
finita di fabriche l’anno 1620: benedetta con licenza di Monsignor Vescovo di
Girgenti sotto li 20 Giugno di detto anno.» A nostro avviso, c’è qui
l’abbaglio della strana ripartizione della parrocchia tra don Vincenzo del
Carretto e don Paolino d’Asaro del 1608 ed il successivo ricongiungimento delle
due parti in capo alla chiesa dell’Annunciata sotto un unico arciprete che a
noi risulta essere don Filippo Sconduto. Il Casucci non ci pare molto ferrato
nella storia della sua chiesa.
Attendibile invece quando parla delle
Cappelle, di cui curava in definitiva l’amministrazione:
La
Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata da D. Gaspare Lo Brutto e
Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li superlettili di detto Altare,
come di tutti gli altri altari e chiese sono li seguenti:
In
primis una Cappella bianca di lama, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole
manipoli e palio;
Item
una Cappella violacea di lama, con suoi Tunicelle, casubula, cappa, stole,
manipoli e palio d’altare;
Item
una cappella virde, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio
d’altare;
Item
una Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio
d’altare;
Item
una Cappella nigra di felba [13] con scuti ricamati, con sue tunicelle, casubula,
cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item
una casubula di stolfo russa , con sue stola e manipole;
Item
una casubula bianca d’asprino con manipola e stola;
Item
dui casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item
dui casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item
trè casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item
una casubula bianca raccamata di seta usata con stola e manipole;
Item
una casubula verde usata con stola e manipole;
Item
sei cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre di tela sottile, con suoi
cingoli ed ammitti;
Item
altri tre cammisi usuali per la giornata, con suoi cingoli ed ammitti.
Altare
maggiore
In
primis un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura, con cornice scartocciata
indorata d’oro;
Item
n° sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item
n° sei tabole per ornamento dell’altare, indorate di mostura;
Item
una cornice dell’altare indorata di mostura;
Item
la carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item
due tovagli d’altare;
Item
un tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore precisazione che abbiamo
dall’Algozini, datata 1° giugno 1731, parla anche di un dischio foderato di damasco verde usato.
Altare
della SS.ma Annunciata
Item
la statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di ligname indorati di mistura;
Item
un Reliquario di Ligname indorato di mistura con sue reliquie dentro;
Item
due candilieri con sua croce usati;
Item
una carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item
due tovaglie usate per l’altare;
Item
una cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item
tré pialli d’altare usati;
Item
un lampero di ramo.
In più, stando all’integrazione
dell’inventario da parte dell’Algozini: sei
candileri con suoi vasi novi indorati di mistura con sei rami di talco novi.
Altare
di S. Maria del Suffraggio
Item
un quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item
sei candileri con la croce e sei vasi;
Item
sei rami usati;
Item
quattro candileri piccoli;
Item
una carta di gloria col’imprincipio e lavabo con le cornici indorate di
mistura;
Item
Item due tovaglie d’altare;
Item
un palio di seta violaceo e bianco con cornice indorata di mistura per detto
Altare;
Item
un lamperi di ramo novo.
Altare
del SS.mo Crocifisso
Item
l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce indorata;
Item
un quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua cornice;
Item
quattro candileri con sua croce usati;
Item
una carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con “concice indorata”
(v. Algozini);
Item
un palio d’altare di pittura con cornice indorata, che è “di stolfo
violetto e rosso con gallone d’oro, novo” (vedi inventario del 1° giugno 1731).
Integra l’Algozini: sei candileri con sei vasi indorati di mistura novi; sei rami di talco stagnolati
novi;
Altare
di S. Vito
Item
L’imagine di S. Vito di ligname;
Item
una tovaglia ed un palio d’altare usati.
Altare
di S. Giovanni Battista
Item un quadro con la figura di detto santo
con la cornice;
item
l’imprincio e lavabo usati, item un palio di pittura;
itemdue
candilera vecchi, ed una croce senza pede.
Altare
di S. Leonardo
Item
un quadro con la figura di detto santo;
Item
una tovaglia ed un palio di pittura;
Altare
di S. Antonio Abb.
Item
la statua del santo di ligname;
Item
quattro candileri con sua croce e rami vecchi;
Item
la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
Item
una tovaglia per detto altare;
Item
un palio d’altare di pittura;
Item
un lamperi di ramo.
Altare
di S. Ignazio.
Item
il quadro con sua cornice indorata di mistura;
item
quattro anegli per candeleri;
item
una croce usata;
item
la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item
un palio d’altare di pittura con cornice indorata di mistura.
Altare
della SS.ma Assunzione
Item
il quadro con sua cornice;
item
quattro candileri vecchi;
item
carta di gloria con l’imprincipio e lavabo vecchi;
item
un palio d’altare di pittura con sua cornice.
Altare
delli santi tre Reggi
Item
il quadro di pittura;
item
due candileri con sua croce
item
la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo.
Altare
di S. Giuseppe
Item
la statua di detto santo con il suo Bambino di legname indorati
Item
sei candileri con suoi vasi e rami usati, e croce;
item
la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
item
un palio d’altare di seta vecchio con sua cornice;
item
due tovaglie per detto altare.
Altare
di S. Maria Maddalena.
Item
il quadro con la figura di detta santa;
item
sei candilera con la croce, quattro vasi e quattrorami;
item
la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item
palio d’altare di seta con cornice indorata di mistura.
Altare
del SS.mo Sacramento
Item
una custodia di marmo con suo tabernacolo indorato. Item un Padiglione di seta
violaceo con sua guarnizione d’argento;
item
quattro candileri con sua croce;
item
quattro vasi per li rami;
item
dui tovaglie per l’altare;
item
un palio d’altare di seta con sua cornice indorata.
L’Algozini aggiunge: due padiglioni di tela stampata; un
portaletto di damasco rosso con suo gallone d’argento usato; sei candileri con
suoi vasi e rami di talco stagnolati, una campanella nova per servizio delle
messe e due padiglionetti per l’ogli santi.
Ovvio che è la sacrestia ove sono
custoditi paramenti sacri, ornamenti vari, addobbi ed altro. Significativo l’inventario, anche perché
potrà un domani servire per un museo parrocchiale veramente rievocativo della vita
religiosa dei nostri antenati, contadini e pii.
Item
dui crocifissi per la preparazione;
item
dui chiomazzelli per detta preparazione verdi usati;
item
altri dui di tela per detta preparazione;
item
due coverte di tela per detta preparazione;
item
uno stipo grande con altri due piccoli a lato novi;
item
due coverte per il fonte battesimale di seta violetta con frinza ed altra di
coiro con frinza, usati;
item
due dischi;
item
un’ombrella per il fonte battesimale;
item
quattro lanterni novi;
item
una coverta di tela rossa sopra la boffetta della cridenza;
item
un portale di tela per l’organo;
item
una stola di stolfo rossa;
item
altra stola di damasco di diversi colori;
item
una fodera per l’ombrella;
item
un palio d’altare dinnanzi il battisterio;
item
una sponza di ramo;
ietm
un lamperi di stagno;
item
una pisside con il piede di ramo;
item
un altro vaso a forma di pegno con il piede d’argento per il stabile;
item
un baldacchino d’asprino con li quattro asti indorati;
item
un stendardo d’aspino, con altri due palietti del medesimo drappo;
item
un ombrello del medesimo drappo d’asprino con n° venticinque campanelli
d’argento di bolla;
item
altri sei palietti, cioè due di stolfo e l’altri di diversi colori, con suoi
lanterni ed asti;
item
altro baldacchino bianco ed un stennardo usuali;
item
una sfera grande con il piede d’argento con la lonetta indorata;
Item
l’incensero e navetta con sua cocchiarella d’argento;
item
una sponza d’argento ;
item
tre calici con piedi di ramo indorati, con tre patene;
item
altro calice con il piede d’argento con sua patena;
item
una cocchiara d’argento per il fonte battesimale;
item
dui vasetti d’argento per l’oglio santo del battesimo;
item
altro vaso per l’oglio santo dell’estrema unzione;
item
tre paviglionetti per il vaso del SS.mo Viatico;
item
tre portaletti per la custodia;
item
una tovaglia bianca di taffità con guarnazione d’argento;
item
altra tovaglia di taffità bianca vecchia;
item
cinque corporali;
item
n° undeci veli di calici di tutti colori usuali;
item
n° dieci borze con suoi palli di diversi colori;
item
cinque messali usuali;
item
quattro missaletti;
item
una cassetta con tre vasi di stagno con l’oglio santo;
item
un rituale e graduale vecchi;
item
dui calamara di stagno con una bussola nel battisterio;
item
un particolario; item un sicchetto di ramo;
item
due boffette nella sacrestia, tre cascie vecchie, un scabello, un
genuflessorio, tre tovagli di facci, dui chiomazzella di felba russa usati, un
crocifisso per il Pulpito, una cappa e tonicella neri lavorati, item tre
incerati, un tisello (o tusello v.s.) di legname, un triangolo di ferro con
cilio di cera, altro triangolo per le tenebre;
item
quattro campanelli;
item
una tela azola per la porta;
item
tre confessionarij;
item
una seggia per il SS.mo Viatico;
item
un organo di cinque registri ed un polpito;
item
tre trispiti;
item
tre campane nel campanile, cioè una grande di sei cantara, altra mezzana di
due, ed il segno.
Si chiude qui l’inventario che reca la
sottoscrizione del sacerdote D. Gaspare Casucci, economo e quella del sacerdote
D. Gerlando Carlino.
[3] ) Giuseppe Adamo, Storia di Delia dal 1596 ad oggi,
Palermo 1988, pp. 163; 171 e riproduzione policroma dopo p. 192.
[4] ) P. Fedele da S. Biagio, Dialoghi familiari sovra la pittura
col Sig. avvocato D. Pio Onorato palermitano, Palermo 1788.
[5] ) Girolamo M. Morreale,
S.J. – Maria SS. del Monte di Racalmuto
– Racalmuto 1986, sparsim ma in particolare p. 49 e ss.
[8] ) Giuseppe Adamo, Storia di Delia dal 1596 ad oggi,
Palermo 1988, pp. 163; 171 e riproduzione policroma dopo p. 192.
[9] ) P. Fedele da S. Biagio, Dialoghi familiari sovra la pittura
col Sig. avvocato D. Pio Onorato palermitano, Palermo 1788.
[10] ) ) Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia
dall’anno MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della
Maestà del re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp.
304-305.
[12]) Tra le carte della Matrice è però custodito un
documento che si riporta in appendice che comprova la rendita della Cappella
della Maddalena, risalente appunto a don Santo d’Agro, che si continua
apercepire ancora nel Settecento e nell’ Ottocento.
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