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domenica 14 settembre 2014

Matteo del Carretto


MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto


 

 

 

Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.

Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.

Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo ([1]) ne fornisce indubbia testimonianza.

 

 

Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e si è cercato prima di tentare in qualche modo una sintesi esplicativa delle faccende di casa nostra: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Orde di militari famelici e predoni scorrazzavano per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.

Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.

Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che questi finisse proprio male. La storia di Andrea Chiaramonte l’abbiamo già prima abbozzata. La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([2]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([3]): «Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passa nelle mani di  Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. ([4]) 

Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo, almeno, ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:

"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio  de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”

Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.

Il diploma prosegue:

"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.

Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.

Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.

E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.

Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.

Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.

La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?

La chiosa finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento di noi tutti racalmutesi da parte dei liguri del Carretto.

Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria ([5]) che ha modo di narrare:

«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...

Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ([6])

 

Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto.

 

 

 

RACALMUTO NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400

 

Poco abbiamo sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale emerge dalle carte dei del Carretto. Un truce episodio di antisemitismo getta sinistra luce sull’intolleranza razziale di Racalmuto a ridosso dalla tristemente nota cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di fine secolo. Il medioevo si chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di morte, con misfatti e depredazioni letali che richiamano il biblico Caino, sotto un’intermittente signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed insediata al Cannone oppure dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte della opulenta sede dei vescovi agrigentini.

Pochi tratti della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in cui visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.

Sino al 1412 i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto in guerra per un empito di personale orgoglio -  mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione siciliana. Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità indipendentista  - per unione personale del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita morale – catoneggia il De Stefano [7] -  congiunto al mancato ricambio della vita economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città non avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano. Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che centotrent’anni, perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a maturità la crisi interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi della mutata situazione internazionale.»

La Sicilia perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni furore, di ogni empito vuoi di furore vuoi di generosa dedizione. Il parlamento  del 1413 si limita a chiedere che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito. Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il governo.

Tralasciamo qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni rifiutò.  

Sotto Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico può abbagliare, ma la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente – sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta straordinaria che si aggiungeva al reticolo impositivo, specie a livello locale, con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e strutture parrocchiali esigevano puntigliosamente.

Migliora l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause  - scrive sempre il De Stefano [8]   - l’impedì: la concessione del mero e misto impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione, dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le cause riguardanti i singoli cittadini che il comune; […] la dilatazione del foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»

Con fermezza Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione regia nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel trapanese. Fu arrestato il minorata visto che propalava «multa enormia concernentia contra catholicam fidem.»

Alfonso (1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue anni: morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata alle Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia spagnola. Più per amore di patria che per convinzione, il De Stefano [9] crede che la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con un’anima e un pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella appartenenza nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale. La cultura giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue istituzioni particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali con la grande nazione italiana.»

Giovanni d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau, sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno anni  di regno aragonese.

Nel 1475 fu creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso farsi rappresentare dai loro delegati.

Succede a Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).

Il Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes, nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione  degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi per l’economia e la cultura.

In tale contesto, Racalmuto fa raramente capolino, come si è detto. La sua vicenda storica, in questa congiuntura, si fonde e finisce per coincidere con quella tutta baronale dei Del Carretto. Almeno per la prima metà del secolo, occorre mutuare le ricerche di Henri Bresc[10] per capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).

 

Con lo storico francese dobbiamo convenire che gli  anni 1390-1416 introdussero nella storia del feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie sono domate e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [11] Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona ormai ogni infrazione della legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente in mano agli spagnoli. La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa; la Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara ogni sua elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni eccellenti. [12] La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e fortemente contrassegnata dall’elemento catalano ad opera dei Martino, deve fronteggiare l’avversa congiuntura che caratterizzò la fine del XIV secolo: una rendita decrescente che non compensa più le usurpazioni facili delle rendite del Patrimonio reale,  ora difese da un’amministrazione castigliana strettamente legata alla casa d’Oltremare ed un indebitamento cronico in crescita insopportabile a causa degli sperperi per doti insufflate. Nel servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i profitti ed i posti prestigiosi riservati all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme al modello ispanico. [13]


Questi ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una classe di notabili della piccola borghesia comunale, determinano un ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.

Una buona gestione patrimoniale, il consenso generale della pubblica opinione e della monarchia che vedono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e dello Stato, la ripresa economica dopo una pausa di più di 50 anni,[14] permettono alla feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto di svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di questo raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi dell’interno. [15] Nel 1513, Giovan Luca Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che riportano la  rendita – sulla quale poggia l’imposta feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al 193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di questi due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale sono, in effetti, numerose.

L’interesse  dell’aristocrazia feudale e delle famiglie della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai  “latifondi” che riesplode, dopo la fase di stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo  dozzina di donazioni di feudi ai monasteri aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere una investitura di beni ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi spogliano puntualmente vescovadi e monasteri delle relative rendite e si adoperano per la risoluzioni di antichi contratti.[16]  Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed estendono la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando a proprio beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato feudale terriero.

Del pari, dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre” abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende il potere feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio di finanziamenti della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene sempre più perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la parentesi della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta alla difesa dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento della terra, un incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più redditizia gestione della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il sacrificio di qualche salma di terra, per giardini o per le infrastrutture sociali occorrenti ai nuovi abitanti.

Questa nobiltà che accetta la pace col re, non rinuncia né al prestigio della cavalleria né al dominio violento. Se, nella mischia feudale, le grandi famiglie cozzano fra loro, la nobiltà terriera tiene comunque al suo stile di vita, alla sua autorità, ai propri vassalli, altera del suo rango. Ma non si lascia andare alle “serrate”: questa aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, distinzione, prestigio attirano, affascinano. E il rinnovamento delle famiglie permette la mobilità del capitale feudale e, spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e l’aristocrazia fondiaria.

 

Le suesposte considerazioni del Bresc trovano, invero, riscontro nelle vicende racalmutesi per quanto ha tratto con il consolidarsi, esplicitarsi ed evolversi della signoria baronale quattrocentesca dei del Carretto. Riprendiamo la genealogia carrettesca da dove l’abbiamo lasciata. Morto Matteo del Carretto, mentre era alle prese con la curia palermitana nel tentativo di farsi riconoscere l’improbabile titolo nobiliare su racalmuto, ecco succedergli il figlio Giovanni del Carretto.




[1] ) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[2] ) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[3] ) Rosario Gregorio fu storico e paleologo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso  delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[4] ) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[5] ) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[6] ) [Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
 
[7] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, UL Bari, 1977, p. 68.
[8] ) ibidem, p. 73.
[9] ) ibidem, p. 83.
[10] ) Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile – 1300-1450. – Palermo 1986 p. 865 e ss.
[11] ) Nel 1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re, e, verso il 1459, quella del feudo Taya  ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[12] ) Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454, accorda a pagamento permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella per la mano della figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo). Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32 sono catalani, 5 napoletani, e solamente 12 siciliani (più un rabbino siciliano); quasi tutti sono nobili, o per lo meno in carriera militare o sono addetti alla corte. Le giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui 9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate, qualche volta successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea!; ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[13] ) I dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV secolo, da cavalieri urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello, Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo). La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[14] ) Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per un’alleanza matrimoniale con il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La conquista del regno napoletano ha così permesso di ridurre in Sicilia la concorrenza, all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf. E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[15] ) Nel 1446 la locazione del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826, 17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17 once: 58% d’aumento in 5 anni.
[16] ) Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato, i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150 salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.

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