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venerdì 26 settembre 2014

QUELLO CHE POTEVA ESSERE E NON FU. VINSE L'ALTRO PARCO LETTERARIO LEONARDO SCIASCIA, QUELLO DELLA CELEBRE SIGNORA DEL NISSENO.

Il Parco Letterario al nome di Leonardo Sciascia, quale qui concepito, davvero sarebbe di volano per un salto qualitativo dell’addormentata realtà economica racalmutese e per un lancio nei futuri, prevedibilissimi flussi turistici che, in vigenza di moneta unica, esploderanno verso l’incantevole Valle dei templi agrigentina (contermine con Racalmuto) e si dirameranno a margherita inondando la ormai celeberrima terra natia di Sciascia, Racalmuto. Sul TCI questo ameno centro della Sicilia dovrà venire ridisegnato. Oggi è malconciamente ridotto a «grosso centro agricolo che prese nome dall’arabo Rahalmaut.» Ed è subito questa una “cervellotica etimologia” come annota, per altre occasioni, il grande storico Garufi. I nuovi storici locali ecco, ad esempio, come affrontano questa tormentata vicenda dell’etimologia del toponimo di Racalmuto:

« Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini  ne specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.

Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.

Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.

Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronuovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.

A metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.

Quello che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.

Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.»





Prosegue il TCI: «fino al ‘300 l’abitato sorgeva presso il luogo detto Casalvecchio [è invenzione del tutto infondata, n.d.r.]; l’odierno si venne fondando attorno al castello dei Chiaramonte [anche qui inesattezze a profusione: il primo nucleo databile attorno al 1250 si stabilì nelle grotte sotto il Carmine; il castello sorge postumo verso il 1310 a seguire il Fazello; codesto pur immenso storico del ‘500 non è perspicuo ad ipotizzare l’erezione dell’attuale castello racalmutese da parte di un cadetto dei Chiaramonte e comunque è molto circospetto per suffragare la ricorrente diceria di un castello chiaramontano a Racalmuto, n.d.r.]. E’ patria del pittore Pietro d’Asaro, d. il Monocolo (1597-1647) [è ormai pacifica la data di nascita del Pittore: 1579 e non 1597, n.d.r.]. Sul Corso Garibaldi, al centro sorge la chiesa Matrice (dell’Annunziata), della fine del ‘600, nel cui interno si conservano due dipinti dell’Asaro (Madonna e Santi e Madonna della Catena) [da rettificare: l’Annunciata è chiesa preesistente sin da prima del XVI secolo; l’attuale chiesa Madre ha laboriosa gestazione, ma può dirsi disegnata nel primo trentennio del 1600 e definita negli anni ’60 del XVII quando la fine del ‘600 era lontana; nessun quadro certo di Pietro d’Asaro vi si conserva, men che meno quelli sopra citati, n.d.r.]. A d. della Matrice, in fondo alla piazza Umberto I, è il Castello, fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte [banalizzazione di una cauta nota del Fazello: a credere a codesto grande storico il castello andrebbe datato 1310: le torri rotonde - fortezze abbisognevoli di alta perizia indisponibili ai tempi di Federico Chiaramonte - fanno invece pensare a Federico II lo Svevo,  cioè al 1240 circa. Quando scavi sotto le torri metteranno alla luce i tanti reperti archeologici della dominazione araba - oggi totalmente oscura sotto il profilo dei manufatti - ampia luce ne promanerà anche ai fini del disvelamento della veridica storia dei musulmani in Sicilia. I locali già sanno di tali reperti; la locale Sovrintendenza sembra ignorarli del tutto,  n.d.r.]: ha due torri cilindriche e nell’interno conserva un sarcofago romano del secolo IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina [inculture passate e presenti hanno oscurato del tutto l’effettivo luogo del ritrovamento dell’importante sarcofago; oggi di certo non è più conservato al Castello ma nel chiostro dell’ex convento di Santa Chiara; la datazione è del tutto cervellotica, n.d.r.]. A sin. del castello si scende alla chiesetta di San Nicolò [in effetti S. Nicola di Bari, e si crede che nessun forestiero sarà in grado di raggiungere la chiesetta con siffatte indicazioni topografiche, n.d.r.], nella quale è una tela del Monocolo, con S. Nicola di Bari (firmata e datata 1603) [c’era una volta, ora non più; sbagliata la data che invece è quella del 1613, n.d.r.]; in Santa Maria di Gesù, fuori del paese, Madonna del Rosario, (firmata dallo stesso 1636). [Il quadro è disinvoltamente dichiarato “completamente distrutto”, n.d.r.] Altre chiese interessanti: la chiesa del Carmelo, con un Crocifisso dell’Asaro [pare, invece, che il quadro dati ad almeno mezzo secolo prima della nascita del Pittore, n.d.r.] e la tomba di Girolamo III del Carretto (1600) [Girolamo III del Carretto morì oltre un secolo dopo, nel 1710; quello di cui tratti è il secondo dei Girolami del Carretto, che comunque fu “occisus a servo” nel 1622, un quarto di secolo dopo n.d.r.]; San Giuliano, con una Madonna della Cintura dell’Asaro [si sostiene essere dell’Asaro solo il San Giuliano che si vorrebbe del 1608; codesta “Madonna” non è oggi identificabile ed in ogni casi giammai sembra essere stata esposta in San Giuliano, n.d.r.]; il santuario di S. Maria del Monte, del sec. XVIII, [si dà invece il caso che la chiesa è visitata dal vescovo Tagliavia già nel 1540, n.d.r.] con una Vergine degli Afflitti, [chissà perché la si vuol chiamare “degli afflitti” quando ha un viso radioso!, n.d.r. ], della scuola del Gagini, [mero topos quando non si sa che dire di una statua marmorea di fine secolo XV, n.d.r.], e un altare con rilievi medioevali [ben strano in una chiesa che prima si affermava essere del XVIII secolo; l’attuale altare maggiore è invero databile XVIII secolo. Non si comprende come nessun cenno vi sia a chiese importantissime e di maggior valore storico ed artistico rispetto a talune chiese invece menzionate: ci riferiamo alle chiese del Collegio, di Sant’Anna, dell’Itria, di Santa Chiara, di San Pasquale e soprattutto della chiesa più antica: S. Francesco.  n.d.r.]. - A N. e NO del paese, lungo il Vall. Pantano o di Racalmuto, sono numerose miniere di zolfo (oggi tutte inattive, ma intelligentemente riadoperabili per insediamenti turistici o per itinerari folkloristici in tipici carretti siciliani alla scoperta delle fonti d’ispirazioni sciasciane, n.d.r.] e di salgemma [da cui quel Sale sulla piaga, titolo che Sciascia avrebbe voluto per le sue Parrocchie di Regalpetra e che volle per la traduzione in inglese, n.d.r.], fra cui la salina Pantanella [ove il 12 maggio 1955 ebbe a trovare tragica morte il salinaio, i cui funerali vengono angosciosamente e con empiti d’ira descritti da Leonardo Sciascia ne “Le parrocchie di Regalpetra” in quel mirabile squarcio su “i salinari”. Escursione al M. Castelluccio m. 721, ore 1.30 circa. Si segue la strada per Montedoro e a 5 km. C. si sale a d. sul monte ove si trovano avanzi notevoli di una fortezza dei Chiaramonte, del sec. XIV, ma fondata nel ‘200 da Abba Barresi [il quale - normalmente chiamato Abbo - nulla ebbe mai a che fare con Racalmuto e dintorni: la fortezza, sede del feudo (in senso giuspubblicistico) di Gibillini [1], pertiene, a dire il vero, alle nobili famiglie medievali dei Podiovirid; Simone di Chiaromonte, Moncada, Alagona,  De Marinis e Telles, Giardina Guerara ed altri, una lunga storia che trascende il dato segnaletico che la pur pregevole pubblicazione turistica fornisce, n.d.r.]. La strada continua per altri km.3,5 alla zolfara Gibellina. Indi prosegue fino, hm. 13,5, a Montedoro.[Nulla sulle interessantissime necropoli sicane; nulla sulle “garbere” del Monte Pernice; nulla sull’ipogeo cristiano delle “grotticelle”; nulla sui cinquecenteschi mulini ad acqua a valle di Racalmuto; nulla sugli “zubbi” di S. Anna (ove esplodono scisti di flora tropicale); nulla sulle “calcarelle” note a Solino e che Brydone cercava ancora nel ‘700; nulla sugli insediamenti bizantini attestati da ritrovamenti numismatici al centro dell’attenzione dei più grandi bizantinisti; nulla sulle “tabulae sulphuris” studiate da Mommsen nell’ottocento ed attualmente motivo di lambiccamento dei più accorti archeologi romanisti; nulla sui fenomeni carsici così atipici in un’isola del mediterraneo e nulla tant’altro, n.d.r.]. »

Non val la pena - anche per il TCI - attivare un parco letterario in un cosiffatto territorio? Non si reputa del caso propiziare studi storici, scavi archeologici, ricerche paleografiche in una plaga - per sua ventura patria di Leonardo Sciascia - ove dovranno prima o poi affluire scienziati, storici, archeologici alla scoperta di mondi antichi i cui flebili echi si nascondono ancora nel grembo di quella terra e che non è bene che siano negletti o peggio deformati da pur eccelse pubblicazioni turistiche? Noi tentiamo qui una qualche progettazione: senza inquinamenti politici, senza cointeressamenti sospetti, senza padrinati colpevoli.

 

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