Il “paragio”.
Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in
base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e
nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi
potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro
rango.
Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto
di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle
fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese
economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile
Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto
tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia
Tagliavia-Aragona della vicina Favara.
E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini
del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’) e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla
moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia
agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto
nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari documenti
un fratello dell’infelice conte
di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e
nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito
‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di
un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel
‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè
tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche
se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della
esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).
Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i
danni? Tutto lo fa pensare.
Donna
Aldonza del Carretto
Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del
Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì,
proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure
sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio
verso il fratello primogenito.
Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi
universali, che invece limita alle
sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna
Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen
legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del
convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni
in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di
paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con
li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere
detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di
quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia
leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non
obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia
testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa
voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore,
conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di
paraggio, una con li frutti di quelle, siano
et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso
che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di
Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni
et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non
aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la
quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire
più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova
havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio:
Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte
corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro
bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna
Aldonza.
E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere
un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera
comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum
solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor
numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del
Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle
denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli
quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et
pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della
legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di
detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono
amore».
Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello
Giuseppe. Forse perché già morto?
Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura
dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto, morta nel settembre del 1592.
I del
Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore
Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
Poi, si aggiungeranno
i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale,
il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale
complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti
doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte
del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione
ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e
tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto
dava l’anima a Dio.
Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte
Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre
poeta Antonio Veneziano, nel crollo
delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno
[1593] - precisa un diarista - dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione
della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il
castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati;
fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di
Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori,
et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte
di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina
grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora,
uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»
Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è
chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il
presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano
riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte
dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel
tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che
abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in
quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo . Se è così, non poteva influire
sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata
esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette
cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di
Pretore di Palermo.
I Diari parlano del «pretore l’ill.mo sig.
D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e
narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti
li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare
la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel
pubblico agone. Negli stessi Diari (pag.
142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro
«andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro
titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di
Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..».
Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.
Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di
Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui -
stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa
sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa,
piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che
ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di
Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a
Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è
chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi
(difettava di liquidità?) e presta
giuramento il 18 settembre 1600.
I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano
frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che,
dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne
ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e
secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi
giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto
prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione
(1710).
Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone
di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni,
muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de
Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes, juratus et interrogatus supra capitulo
probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro
prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don
Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in
la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in
ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito
legitimo et naturali, et accussì tempore
eius vitae lo vidio teneri, trattari et
reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino
canuxuto et canuxino ... quia
instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».
Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di
Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio. Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del
secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per
far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.
Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con
la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i
Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz.
1593 - Diego figlio del s.or Gioseppi e
Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu
l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria
del Carretto.»
Quattordici anni prima,
il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe
del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del
magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini:
ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo poco, come si vede.
Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il
genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno
permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.
I del
Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva.
Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra
Congregazione dei Vescovi e Regolari,
avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si
è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente
famiglia locale dei Montaperto.
Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni
acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto
compresi.
La fosca storia del chierico Vella
Sulle vicende del chierico Vella fornisce
notizie Mons. De Gregorio:
«Le controversie poi per la giurisdizione o
esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.
«A Racalmuto il chierico in minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della
morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere
contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo
fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.
«“In detta terra li preti e clerici non godono
franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella
et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.
«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo
Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a
notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati
per molti giorni tenendoli a lassari exequiri
l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella stessa terra lungamente il conte
contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte
dell’arciprete Michele Romano.»
* * *
Nei registri della Matrice si hanno, tra
l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del
tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto
delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata
Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i
beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni
di S. Agata.
Non si sa se nel 1596
sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa. In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella
illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec.
XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di
Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione
[fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si
tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo
alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui,
prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria
Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S.
Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al
poeta non pareva un guiderdone condegno.»
IL MERO E MISTO IMPERIO
Nel 1582, nel testamento di don Girolamo del Carretto primo
conte di Racalmuto, il lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di
equivoco, la contea di Racalmuto con il «..mero
et misto imperio dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste le successive contese, giocò forse il fatto che nel
più importante privilegio di casa del Carretto - quello della sua erezione a
contea con firma autografa di Filippo II di Spagna - latita un esplicito
richiamo al mero e misto imperio, anche se non mancano le locuzioni
equipollenti.
Tra le varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal
latino):
«Concesse e concede a
Don Giovanni del Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in
detto stato, terra, titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto
stato e contea di Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle,
mercati, terre, terraggi, terraggioli,
censi, servitù, giurisdizioni civile e
criminale, mero e misto imperio, con il
titolo e la dignità di conte.»
Concetto che ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili,
allodiali e burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, ..
nonché il detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle,
mercati, terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il
“mero e misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».
Nel Privilegium
concessionis Comitatus Racalmuti in personam Don Hieronimi de Carretto, dopo la buriana dell’esecuzione
per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto, il “mero e misto
imperio” non si dubita neppure essere prerogativa della Contea di Racalmuto.
Il diploma regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con
la nostra indulgenza, ed a te don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo
di nuovo e concediamo, investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con
la sua terra, i suoi dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e
territori, nonché la baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro
confini, con le case, i mulini, i corsi
d’acqua, i boschi, e con tutte le altre singole cose della detta Contea
e Baronia e relative pertinenze, comunque e dovunque inerenti, unitamente
all’integrità dello stato con ogni sua causa e modo, nonché alla giurisdizione,
il mero e misto imperio, la
’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli universi singoli diritti a detta
Contea e Baronia spettanti, con tutte le prerogative, dignità, preminenze e clausole
come tuo padre e tuo nonno ed i tuoi antecessori legittimamente avevano avuto,
tenuto e posseduto ... »
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi
feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e
“terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano
intendere) o in forma mista.
Non vi erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche
i beni allodiali della famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami
cadetti (che erano soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo
gioco del ‘paraggio’.
Racalmuto secondo il rivelo del
1593.
I beni ecclesiastici di Racalmuto.
Il singolare vescovo di Agrigento Horozco, con cui già ci
siamo imbattuti, ebbe modo d’interessarsi delle finanze ecclesiastiche
concernenti Racalmuto nella seconda “Relatio ad limina” della diocesi di
Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14 settembre, VIII^ ind. 1599). Il
vescovo dichiarava di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù
bisogno andare alli bagni » e pertanto non «hà possuto venire personalmente a
baciar i piedi di Nostro Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo
fiduciario l’arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva
prescelto come suo mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia.
Lo stato di infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente
all’odiata famiglia dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto,
preso di mira dall’Horozco nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il
17 di agosto 1598 il potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis
Agrigenti” [cfr. Relatio cit. f.15].
Dalla documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia
Cathedralis Agrigentina” era in grado di “ingabellare” 9.500 onze di rendita diocesana. In via
diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:
•
al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che
vale di Mensa onze 130”;
•
tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene
rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il
Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la
utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come
abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100;
•
l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de
mensa onze 250”.
Tirando le somme, i racalmutesi a fine secolo XV erano
chiamati per decime religiose e tasse episcopali a qualcosa come onze 480,
senza naturalmente includervi tutti gli oneri di battesimo, matrimonio morte e
simili, da conteggiare a parte. Era un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana
annui pro-capite.
Ma, allora - come del resto anche oggi - le pubbliche
autorità, civili e religiose, non amavano riscuotere direttamente le loro
tasse: le davano in appalto (in gabella, recita il documento) e gli aggi
esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è
forse da ottimisti.
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