GIOVANNI V DEL
CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a
Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi:
Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il
battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II
ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è
già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra
a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva
un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere
davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai
non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via
che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad
un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se
la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando
scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti
era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere
si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria
Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia.
Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il
conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e
protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più
grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto
erano dediti.»
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi
a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso:
«Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte
del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato
successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo
del regno e di capo del braccio militare,
potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere
riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a
scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima
successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la
monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della
nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più
di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e
pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la
falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice
e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di
maggiore importanza e che con più simulazione
aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo
confidente, i dubbi promossi per la
successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto
cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che
alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima
destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale,
che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima
qualità, fra le quali il conte di
RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello
del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe
Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de'
principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e
molti altri.
[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di
Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra'
Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto.
[.....] Fu rispedito il MERELLI
[genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni]
al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore
della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli
avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè]
l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don
Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno
1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior
sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi
maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da'
due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il
Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò,
che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator
Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati
alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione,
dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio
consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio
Siciliano.
Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata
l'intrepidezza e la costanza del Pesce,
il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati
costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche
voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi
le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a
ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte.
Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto
silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e
principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la
quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi
torbidi servirono, per così dire, di scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni
V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che
Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina
. Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica.
Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni
del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò
che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in
caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del
regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la
notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli
Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato
privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e
nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da
testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino
della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo
de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di
Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma
infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi
passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del
Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri,
per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato
castigo.» [v. pag. 367]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma
Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei
vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato,
c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento
ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini
di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che
possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le
pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo
Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di
essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che
passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile
della Badia.
Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del
Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la
stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita) e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e
Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una
cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse
eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona
che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di morte.
Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte.
Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che
invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna
Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione,
salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del
convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni
in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di
paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con
li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere
detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di
quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia
leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non
obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia
testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa
voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore,
conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di
paraggio, una con li frutti di quelle, siano
et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso
che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di
Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni
et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet competenti et competituro et non
aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la
quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire
più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova
havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio:
Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte
corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro
bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del
1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce
il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa
terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è
del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione
dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere
spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre
Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha
dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i
loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel
chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di
bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare
una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di
Giaijmo LO BRUTTO e della quondam
Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di
Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo
e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo
Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i
sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel
1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole
signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per
esigenze di bilancio familiare.
Dovevano bene
ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i
Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi,
dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e
di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per
sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed
oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno
pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle
monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte
della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche
un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai
governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la
sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una
sorta di ricorso perverso, viene riesumato a danno sul nostro Giovanni V del Carretto. Un
documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano. E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del
Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare
dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di
Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una transazione)
con il dottore in utroque Giuseppe
Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. () Si trattava in
effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile convento di Santa
Rosalia” in Palermo.
Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una
“provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del
5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva
condannato a pagare entro un mese al
monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d.
Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle
che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni
IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687,
diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua
cifra di quasi quattro miliardi e mezzo.
Ma che diavolo era avvenuto?
Come si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso
convento di Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro
il fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la
vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del
fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione
dei diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue
eredi universali.
In base ad una clausola del testamento di Donna
Aldonza, il destino del futuro conte
Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo
intraprendente, sorge una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle
tante sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza,
donna Margherita, e donna Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si
sostiene che sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del
chiostro palermitano.
Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa,
quale protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro
il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno
conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de
Uzeda, consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane
conte ad una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal
Gaspare Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a
quell’alieno convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo
detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre
del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta
di paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a
quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa
conventuale.
Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia.
E’ una corsa ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei
diritti di baglia di Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi
giudicanti. Il padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine
palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni
sui poveri e riluttanti racalmutesi.
I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze
annuali.
In un arido documento
palermitano v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto
che va qui sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al
conte 12 tarì per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del
feudatario che stava a gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non
desta meraviglia che i 1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000
abitanti) tenessero ad apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare
quell’imposta catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il
prete Bonafede lo sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali
avverso evasori e gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti,
monache, conventi, indigenti, confraternite etc.)
Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un
accordo con il conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita
annua (ma perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e
dei suoi successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha
migliori consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo
di pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta
revisionata.
Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote
Bonafede.
Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si consegue l’avallo delle superiori autorità.
La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di
Racalmuto per onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di
Santa Rosalia in Palermo.
La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali
messi in bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della
rievocazione e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi
opifici, spesso capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed
abbandonati, corrono il rischio di sparire per sempre.
L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo
che nel suo nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione
delle predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per
cento di un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani.
Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia
potute far rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le
modalità e per le vicende prima ricordate.
Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con
gli interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di
Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per
apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette
sobbarcarsi a soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi.
Circa 80 milioni di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire
nelle ingorde mani degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di
Palermo. Nulla legava l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: un
esborso dunque a vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà
curtense dei nostri compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo
andavano quelle imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del
Carretto o in quelle del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il
fine era più nobile! Ma si racchiude tutta qua
la giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura
feudale.
Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo
ebbe. Ebbe bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio
Grillo che comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il
San Martino de Spucches - avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre
10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe
di Giovanni V del Carretto
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo
conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit
illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui
duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et
naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis
Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.
Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può.
Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia
per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo
Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae
13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol.
Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis
et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in
criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni
Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene
delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in
Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne
di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso
da raptus estraeva le casse, le
apriva, e ci si curcava sopra. Questi
paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte
pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di
Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava
l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente
ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in
Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte
furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si
trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13
januar. [1632].” Tanto per chi avrà
voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei
diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632
(A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito
della faccenda, così ce la racconta il
Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem
litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter
Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte
le furie: se ne dispiacque proprio summopere,
forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a
Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini,
caduti in un indegno crimine (indignitas
facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere
penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse
il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso
denaro (e già perché anche allora Roma era ...
Roma ladrona). Fatto sta che
immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che
Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto
deve tornare come prima: ad pristinum
rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini
terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come
vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro
d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era
soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del
Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere
feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto
notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta
iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti
notabili:
Universitas terrae et comitatus
Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae
terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus
Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae
terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente
congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto
Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque
non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria,
un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre
agevolazioni ai borgesi racalmutesi
che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni
feudali: ()
Il Viceré comunica ai Giurati delle
terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO,
Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le
istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere
viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale
1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si
legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni,
Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi
riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus etc.
Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno
nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti
fidelibus regi dilectis salutem.
Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari
et arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio
nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno
et convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo
commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al
dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per
l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi die octobris
4^ inditioni 1636.
Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno
di far dar soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza
informare delli borgesi che sono in
detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per
seminare come per ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio
presentato per li maysi futuri e per il governo delli seminati e terre et si sono persone che, essendo soccorsi, si
serviranno veramente del soccorso per seminare e governare li seminati et a
quelli che saranno tali et haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli
padroni et affittatori degli feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di
apparecchio et in caso che detti padroni et affittatori non siano abili a
soccorrere essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti
per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano affatto
inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per comprarli, farrete dar
soccorso da persone facultuse habili a darlo promettendo loro che se li terrà
memoria del servito che in ciò faranno nelle occorrenze et occasioni et che per
la restitutione se li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra
gravezza etiamdio delli terraggi [] et che per la restitutione non se li
concederà per il pagamento di detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che
essendovi borgesi che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi,
o terre disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di
affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le medesime
prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare
doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare quel
soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il
soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo
suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene
inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato
il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio
a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e
senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et
massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto quello et
quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la
diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto
benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose
premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la
gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum
Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El
Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox
clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più
commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa
Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero
nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un
piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo?
Per avere alleggerite le onnivore tasse.
Gli
arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era
succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi
giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino
Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor
meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente
Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare
il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume
aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura
di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto
e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome
Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una
caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena
a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la
pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina.
Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura
come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del
1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il
convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi
aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del
“paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo,
diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri
contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un
pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in
favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono
nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina
al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede
per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete
Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò:
sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza,
dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn.
Sancti de Agrò. Che cosa abbia
disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di
sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante
ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che
in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali,
entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano
mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del
defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete
addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto
l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal
signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il
Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag.
143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A
dire il vero l’alumbriamento più che
nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco
Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale,
con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai
limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del
Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro
quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una
secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli
atti della Matrice segnano:
30/8/1648
Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il
cappellano detentore dei libri annota:
Il
d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto
d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice
chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante
peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella
macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti
caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae
libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo
pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui
racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un
protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua
Storia della Sicilia.
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