Secondo
processo d’investitura di Giovanni III del Carretto
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è
costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta
un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere:
aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré
anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita
media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome
spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era
già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto,
questa moglie di Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la
nipote. Costei inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro
disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del
Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui
si possono attribuire non più di n.° 500
abitanti, elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono
Bertrando du Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli
fuochi in cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano
più di due chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose
erano notevolmente cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente
accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento
racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era
barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento
del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3.479
|
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto
era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita
demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate
condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti;
contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro
quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra
l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia,
tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c)
Fontana o quartiere fontis, l’altro
spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa
dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis
comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche
allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva
pagare uno jus proprietatis ai del
Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui
nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se
la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli,
Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono
termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si
accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare al Tinebra; vi
fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora
sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo
arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese
sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì
eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò
suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso.
Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il
barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra
fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto
diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo
peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le
confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per
garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto
dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito,
venute in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo
in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili
alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà
(sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del
loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno
riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi
sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini, vidici la
missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite
ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno
deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta
indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica,
tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni
anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma
con scarso successo.
Gli aridi inventari
episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione
critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle
chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di
S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla
prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è
fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla
fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il
culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu
vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel
1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta
in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei
beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù,
Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. Tre anni dopo, il paese subì, come si è
accennato, una più seria indagine da parte del
vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio
del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della
vita religiosa locale di grande interesse.
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don
Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco,
diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus
agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà
delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam
omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor
capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica
Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo
arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio
della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco
(famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un
altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di
frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus
archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam
solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei,
exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto
percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22
di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui
48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi
a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per
quell’epoca. Nel rivelo del 1548,
sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti.
Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e
degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere
duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i
seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si
perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno
in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i
proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i
proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi
(“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata
dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della
Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per
prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia
di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle
primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25
frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius
misse quotidie» Ma tre anni dopo, il
vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e
quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum
pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa
sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene
ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia
[maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta,
ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.»
Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561
la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di
Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un
qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté
essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani
che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete
Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del
Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra
di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da
rappresentante del vescovo sul luogo. A
lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia
agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato,
forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del
beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella
parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete
Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del
canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita.
Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi
racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a
quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed
era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare,
nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il
merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de
Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo
null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che
fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se
è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre
un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le
tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da
tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte
Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo
spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano
corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non
risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di
giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi
diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di
Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi
edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e
completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il
vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della
Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione.
Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i
confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che
vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto
vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino
della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale
tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è
ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle
primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543
si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di
San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
|
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali
del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
•
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto
iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
•
Santa
Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
•
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche
fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano
non v’era nulla di vecchio.
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