Caro Carmelo,
ti parlavo della
realtà sociale di Favara in un documento del vescovo di Agrigento del 1699. Te
lo riporto con qualche annotazione.
Trattasi di una
“relatio ad limina” che si conclude con queste annotazioni su Favara e quindi
s.Anna:
Favaria
Oppidum
sexmillequingentarum sexaginta animarum (ed altri dati);
quindi è la
volta di Sanca Anna chiamata “oppidulum quingentarum animarum” e dopo quattro
righe e mezza s’inizia con un capoverso che sembra rientrare tra i ragguagli
sell’oppidulum dell’oppidum di Favaria . A dire il vero è il curiale del papa
che vi casca per primo tanto da fargli annotare:
«in clero
saeculari oppiduli Sanctae Annae hoc malum
…” e quindi un provvedimento che sembrò attagliarsi solo, non tanto a
Sant’Anna quanto a Favara.
Da lì la diceria
di Favara centro di raccolta di
rifugiati in odore di alta mafia.
Eccoti il passo,
liberamente tradotto, con alcune note di una memoria al giornalista del
Corriere della Sera Felice Cavallaro ( racalmutese, se non lo sapessi)[1]:
Il 20 settembre del 1699
il vescovo Ramirez – quello esiliato per le sue intemperanze al tempo della
controversia liparitana – licenziava una pagina agghiacciante sullo stato della
diocesi di Agrigento: vi sono tutti i geni della endemica piaga siciliana della
mafia. E’ una pagina [2]
ignota alla pubblicistica sulla mafia ma per questo non significativa. Il
vescovo fa sapere alla Santa Sede alla fine del ’600 che, dopo una visita in
lungo e in largo per l’intera diocesi di Girgenti, ha riscontrato una
virulentissima piaga sociale di cui i protagonisti sono taluni sacerdoti. Dato
il particolare regime feudale che rende despoti i baroni in quasi tutto il
regno di Sicilia, un abuso si accresce ogni giorno di più: codesti baroni
assoldano degli individui insigniti del carattere sacerdotale per
l’amministrazione delle cose temporali. Costoro vengono denominati sacerdoti
“secreti”, nome prescelto a testimonianza del particolare ministero ufficiale a
fronte delle incombenze effettive che sono quelle di un esattore di frumento,
orzo, vino olio e degli altri frutti della terra spettanti ai baroni. E di
codesti baroni tali preti “secreti” dividono le terre tra i villani per le
coltivazioni con tanta ingiuria ai poveri, mentre li costringono alla conduzione
di quelle terre, terre che devono coltivare non tanto per il loro sostentamento
sibbene per il tornaconto dei baroni. I preti “secreti” diventano i custodi
della giurisdizione laicale, tanto civile, quanto criminale. E sebbene vi siano
i ministri laici, nel cui nome si giudica, tuttavia costoro non emettono
sentenza alcuna senza l’intervento o il beneplacito di siffatti sacerdoti, che
sovrintendono sia ai Capitani sia ai Birrari:
e, per esempio, questo carcerano, quello liberano dal carcere; a questo o
quello infliggono le pene o concedono la grazia. Spesso con le loro stesse mani
liberano dalle carceri pericolosi criminali, con sommo pericolo per l’ordine
pubblico.
Si aggirano armati di
tutto punto, sono dediti alla caccia ed a chiassate venatorie e come soldati
armati accompagnano i baroni quando questi hanno necessità di recarsi qui o là.
I “segreti” spessissimo
angustiano gli altri sacerdoti o gli altri ecclesiastici dei villaggi, così
come abbiamo detto per i villani, quando costretti a coltivare le terre non
tanto per il loro interesse quanto per il tornaconto dei baroni. Si adoperano
per la riscossione delle gabelle, specie quelle che i baroni impongono. Codesti
speciali sacerdoti s’ingeriscono persino nelle sacre funzioni, prescrivono riti
e cerimonie entro le chiese. Molti sono quelli che non permettono la
somministrazione dei sacramenti nei loro casali se non da parte di quei
sacerdoti che sono loro graditi, diversamente vengono minacciati e vessati,
anche con la carcerazione o l’esilio dei parenti e congiunti sino alla rinuncia
del ministero.
Similmente operano contro
i vicari foranei, se non si conformano ai loro desideri. A nessuno è concesso
di rivolgersi al vescovo per qualche affare, se non si è ottenuto il benestare
di questi preti “secreti”. Questi spesso decidono le cause ecclesiastiche
direttamente o tramite ministri amici. Perseguitano sacerdoti ed ecclesiastici
ed arrivano persino ad incarcerarli. Amministrano a loro piacimento i beni
delle chiesa e degli altri luoghi pii, dirimono le liti insorgenti, quel che
viene lasciato ad una chiesa viene dirottato ad altra o per altro ministero e
si è riscontrato che beni stabili delle chiese sono stati affidati a laici per
le migliorie. Né gli ecclesiastici vessati possono ricorrere al vescovo, perché
verrebbero a mancare le prove di legge quando avverse ai potenti signori o
anche ai ministri laici di costoro. I vassalli non possono deporre in nessun
modo, allorché i prelati indagano su qualche affare: subito nascerebbe il
sospetto che agirebbero ispirati dagli ecclesiastici, anche quando la
controversia è in favore del fisco. E così gli imminenti mali sono peggiori
della misera condizione servile.
Spesso abbiamo voluto –
scrive il vescovo Ramirez – mettervi mano a difesa degli ecclesiastici, ma
questi, inginocchiandosi, ci hanno supplicato di lasciar perdere, consapevoli
che quella difesa si sarebbe risolta in una peggiore rovina di quelli che
cercavamo di affrancare: e così tollerano un miserrimo servaggio.
I baroni si atteggiano
come se fossero nelle loro terre i padroni assoluti delle cose sia profane sia
religiose. »
Non può certo concedersi
al Ramirez troppa fiducia; egli è quel vescovo fazioso, ambizioso, subdolo che
i funzionari sabaudi ci descrivono al tempo della famigerata vertenza
liparitana. Eppure come negarsi un valido fondamento al fenomeno inquietante
che il vescovo stigmatizza pur trattandosi di suoi sacerdoti. Le stigmate di
una insorgente cultura mafiosa affiorano riconoscibilissime. Inquieta il
carattere sacrale, persino sacerdotale di preti capimafia che agiscono con
crudeltà in difesa e per l’arbitrio dei loro referenti, baroni avidi e
sopraffattori. Una strana cupola emerge ante litteram: i referenti
insospettabili e distaccati; gli aguzzini di non spregevole condizione, dei mammasantissima insigniti persino
dell’ordine sacerdotale per un’autorevolezza sacrale (omnis auctoritas a Deo, sembra quasi che sia), “uomini di
rispetto”, insomma; e quindi un mondo contadino vessato e sfruttato; una
giustizia privata che si consuma nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, senza
possibilità di appello alcuno presso estranei tribunali, siano pure quelli
episcopali. Lo schioppo sempre a portata di mano, apparentemente per le
diversificazioni venatorie o per la scorta del tronfio barone, all’occorrenza
strumento di morte, lupara omicida. E
si badi: siamo nel 1699, siamo in Sicilia, siamo ad Agrigento, siamo a
Racalmuto.
Il vaticano non capì
questa valenza regionale: il burocrate romano annotò frettolosamente «in clero
saeculari oppiduli Sanctae Annae [est] hoc malum». Per Roma era dunque un
fenomeno estremamente marginale di quel minuscolo “oppidilum” che era il
villaggetto di Sant’Anna. Bastava mandare circolari e disposizioni «ne
permittant Sacerdotes immisceri officiis et servitiis laicalibus». Cioè bastava
vietare quel tipo di ministero “secreto”, a metà tra il sacerdozio e la
vessazione mafiosa. Anche allora ci si affidava a vuote leggi ed ad esangui
strutture dell’antimafia per debellare culture criminali profonde e radicate,
con connivenze altolocate e con interessi economici devastanti.
L’inquinamento mafioso
suffragato da preti a mezzo tra l’aspersorio e la lupara ci pare che a
Racalmuto ebbe a rarefarsi con l’avvento di un arciprete racalmutese DOC d.
Fabrizio Signorino sin dal 1697. Prima vi era stato l’arciprete Lo Brutto in
rapporti cordiali sia con il conte sia con il vescovo Rini. Il conte Girolamo
terzo del Carretto se ne stava ora lontano a Palermo alle prese con il figlio
Giuseppe e con la giovane seconda moglie. Non crediamo che avesse voglia di
accreditare “padrini-preti” in quel di Racalmuto. Con il clero non era stato
tenero specie per quella controversia delle terrae
nulliter possessae da parte della crestomazia sacerdotale locale. Ciò non
esclude che qualche “prete burduni” si atteggiasse a fiduciario del conte
Girolamo taglieggiando i vassalli
contadini.
Don Fabrizio Signorino
ebbe certamente a cuore le sorti dei suoi compaesani e cercò di difenderli
durante le temperie militari, religiose, economiche e sociali del primo
quindicennio del Settecento. E’ ossequiente ma non troppo nei confronti della
curia del Ramirez; rispetta l’interdetto ma cerca di attenuarne i rigori.
Seppellisce fuori dalle chiese, ma basta un appiglio anche improbabile per
derogare. Il suo omonimo d. Pietro Signorino palesa tutta l’ostilità che sempre
vi è stata tra il basso clero racalmutese e la saccente e prepotente curia di
S. Gerlando. Nel lasciare beni e denari per la ricostruzione (o ampliamento)
della chiesa del Monte nel 1737 è categorico: niente intrusioni della “Generale
Curia vescovile di Girgenti”; il “testatore” ha solo fiducia nei
fidecommissarii da lui prescelti e cioè don Baldassare Biondi, don Melchiore
Grillo ed il rev. Sac. Don Elia Lauricella. La fiducia non è però totale, il
“testatore vuole ed espressamente comanda che si dovesse depositare nel monte
della pietà di Girgenti” il capitale “fintanto che dalli detti fidecommissari
si ritroverà l’impiego”.
La mafia di “preti
secreti” sembra dunque affievolirsi a Racalmuto con il nuovo secolo dei lumi.
La crisi feudale della contea, connessa alla fine della dominazione
carrettesca, disperde i referenti della cupola.
Il subentrante duca di Valverde, del ceppo dei Gaetano di Naro, si
ritrova contro tutte le forze clericali per questioni di terraggio e
soprattutto di terraggiolo. Quando, poi, ritorna l’influenza degli eredi dei
Del Carretto, i Requisenz, un qualche prete esattore con licenza di lupara pare allignare nel paese. Se
crediamo al Tinebra ed a Sciascia, dovremmo annoverare il prete Savatteri. Noi,
che non abbiamo uzzoli anticlericali, riteniamo però – e crediamo con
fondamento – personaggio positivo e rimarchevole don Giuseppe Savatteri e
Brutto. Ma di ciò, dopo.
Confesso
che ritenevo basilare quel passo:
Hos
Sacerdotes secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium,
nempè, ut sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad
Barones spectantium.
Ecco,
mi ero detto: la genesi sacro-criminale del peculiare fenomeno dell’omertà
siciliana. Ho dovuto però ammettere che “secretus” è nel diritto feudale
siciliano (che si trascina sino ai primi anni dell’800) l’equivalente del
nostro esattore dell’imposte, un affiliato agli esattori Salvo – tanto per
intenderci. Spero di spingere il mio amico Virgilio – attualmente presidente
del CGA di Palermo – studioso intelligentissimo di cose del diritto pubblico e
tributario – di darmi una mano, ma essendo un collerico difficilmente ci
riuscirò.
Il 20 settembre del 1699
il vescovo Ramirez – quello esiliato per le sue intemperanze al tempo della
controversia liparitana – licenziava una pagina agghiacciante sullo stato della
diocesi di Agrigento: vi sono tutti i geni della endemica piaga siciliana della
mafia. E’ una pagina [3]
ignota alla pubblicistica sulla mafia ma per questo non significativa. Il
vescovo fa sapere alla Santa Sede alla fine del ’600 che, dopo una visita in
lungo e in largo per l’intera diocesi di Girgenti, ha riscontrato una
virulentissima piaga sociale di cui i protagonisti sono taluni sacerdoti. Dato
il particolare regime feudale che rende despoti i baroni in quasi tutto il
regno di Sicilia, un abuso si accresce ogni giorno di più: codesti baroni
assoldano degli individui insigniti del carattere sacerdotale per
l’amministrazione delle cose temporali. Costoro vengono denominati sacerdoti
“secreti”, nome prescelto a testimonianza del particolare ministero ufficiale a
fronte delle incombenze effettive che sono quelle di un esattore di frumento,
orzo, vino olio e degli altri frutti della terra spettanti ai baroni. E di
codesti baroni tali preti “secreti” dividono le terre tra i villani per le
coltivazioni con tanta ingiuria ai poveri, mentre li costringono alla
conduzione di quelle terre, terre che devono coltivare non tanto per il loro
sostentamento sibbene per il tornaconto dei baroni. I preti “secreti” diventano
i custodi della giurisdizione laicale, tanto civile, quanto criminale. E
sebbene vi siano i ministri laici, nel cui nome si giudica, tuttavia costoro non
emettono sentenza alcuna senza l’intervento o il beneplacito di siffatti
sacerdoti, che sovrintendono sia ai Capitani sia ai Birrari: e, per esempio, questo carcerano, quello liberano dal
carcere; a questo o quello infliggono le pene o concedono la grazia. Spesso con
le loro stesse mani liberano dalle carceri pericolosi criminali, con sommo
pericolo per l’ordine pubblico.
Si aggirano armati di
tutto punto, sono dediti alla caccia ed a chiassate venatorie e come soldati
armati accompagnano i baroni quando questi hanno necessità di recarsi qui o là.
I “segreti” spessissimo
angustiano gli altri sacerdoti o gli altri ecclesiastici dei villaggi, così
come abbiamo detto per i villani, quando costretti a coltivare le terre non
tanto per il loro interesse quanto per il tornaconto dei baroni. Si adoperano
per la riscossione delle gabelle, specie quelle che i baroni impongono. Codesti
speciali sacerdoti s’ingeriscono persino nelle sacre funzioni, prescrivono riti
e cerimonie entro le chiese. Molti sono quelli che non permettono la
somministrazione dei sacramenti nei loro casali se non da parte di quei
sacerdoti che sono loro graditi, diversamente vengono minacciati e vessati,
anche con la carcerazione o l’esilio dei parenti e congiunti sino alla rinuncia
del ministero.
Similmente operano contro
i vicari foranei, se non si conformano ai loro desideri. A nessuno è concesso
di rivolgersi al vescovo per qualche affare, se non si è ottenuto il benestare
di questi preti “secreti”. Questi spesso decidono le cause ecclesiastiche
direttamente o tramite ministri amici. Perseguitano sacerdoti ed ecclesiastici
ed arrivano persino ad incarcerarli. Amministrano a loro piacimento i beni
delle chiesa e degli altri luoghi pii, dirimono le liti insorgenti, quel che
viene lasciato ad una chiesa viene dirottato ad altra o per altro ministero e
si è riscontrato che beni stabili delle chiese sono stati affidati a laici per
le migliorie. Né gli ecclesiastici vessati possono ricorrere al vescovo, perché
verrebbero a mancare le prove di legge quando avverse ai potenti signori o
anche ai ministri laici di costoro. I vassalli non possono deporre in nessun
modo, allorché i prelati indagano su qualche affare: subito nascerebbe il
sospetto che agirebbero ispirati dagli ecclesiastici, anche quando la controversia
è in favore del fisco. E così gli imminenti mali sono peggiori della misera
condizione servile.
Spesso abbiamo voluto –
scrive il vescovo Ramirez – mettervi mano a difesa degli ecclesiastici, ma
questi, inginocchiandosi, ci hanno supplicato di lasciar perdere, consapevoli
che quella difesa si sarebbe risolta in una peggiore rovina di quelli che
cercavamo di affrancare: e così tollerano un miserrimo servaggio.
I baroni si atteggiano
come se fossero nelle loro terre i padroni assoluti delle cose sia profane sia
religiose. »
Non può certo concedersi
al Ramirez troppa fiducia; egli è quel vescovo fazioso, ambizioso, subdolo che
i funzionari sabaudi ci descrivono al tempo della famigerata vertenza
liparitana. Eppure come negarsi un valido fondamento al fenomeno inquietante
che il vescovo stigmatizza pur trattandosi di suoi sacerdoti. Le stigmate di
una insorgente cultura mafiosa affiorano riconoscibilissime. Inquieta il
carattere sacrale, persino sacerdotale di preti capimafia che agiscono con crudeltà
in difesa e per l’arbitrio dei loro referenti, baroni avidi e sopraffattori.
Una strana cupola emerge ante litteram: i referenti insospettabili e
distaccati; gli aguzzini di non spregevole condizione, dei mammasantissima insigniti persino dell’ordine sacerdotale per
un’autorevolezza sacrale (omnis
auctoritas a Deo, sembra quasi che sia), “uomini di rispetto”, insomma; e
quindi un mondo contadino vessato e sfruttato; una giustizia privata che si
consuma nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, senza possibilità di appello
alcuno presso estranei tribunali, siano pure quelli episcopali. Lo schioppo
sempre a portata di mano, apparentemente per le diversificazioni venatorie o
per la scorta del tronfio barone, all’occorrenza strumento di morte, lupara omicida. E si badi: siamo nel
1699, siamo in Sicilia, siamo ad Agrigento, siamo a Racalmuto.
Il vaticano non capì
questa valenza regionale: il burocrate romano annotò frettolosamente «in clero
saeculari oppiduli Sanctae Annae [est] hoc malum». Per Roma era dunque un
fenomeno estremamente marginale di quel minuscolo “oppidilum” che era il
villaggetto di Sant’Anna. Bastava mandare circolari e disposizioni «ne
permittant Sacerdotes immisceri officiis et servitiis laicalibus». Cioè bastava
vietare quel tipo di ministero “secreto”, a metà tra il sacerdozio e la
vessazione mafiosa. Anche allora ci si affidava a vuote leggi ed ad esangui
strutture dell’antimafia per debellare culture criminali profonde e radicate,
con connivenze altolocate e con interessi economici devastanti.
L’inquinamento mafioso
suffragato da preti a mezzo tra l’aspersorio e la lupara ci pare che a
Racalmuto ebbe a rarefarsi con l’avvento di un arciprete racalmutese DOC d.
Fabrizio Signorino sin dal 1697. Prima vi era stato l’arciprete Lo Brutto in rapporti
cordiali sia con il conte sia con il vescovo Rini. Il conte Girolamo terzo del
Carretto se ne stava ora lontano a Palermo alle prese con il figlio Giuseppe e
con la giovane seconda moglie. Non crediamo che avesse voglia di accreditare
“padrini-preti” in quel di Racalmuto. Con il clero non era stato tenero specie
per quella controversia delle terrae
nulliter possessae da parte della crestomazia sacerdotale locale. Ciò non
esclude che qualche “prete burduni” si atteggiasse a fiduciario del conte
Girolamo taglieggiando i vassalli
contadini.
Don Fabrizio Signorino
ebbe certamente a cuore le sorti dei suoi compaesani e cercò di difenderli
durante le temperie militari, religiose, economiche e sociali del primo
quindicennio del Settecento. E’ ossequiente ma non troppo nei confronti della
curia del Ramirez; rispetta l’interdetto ma cerca di attenuarne i rigori.
Seppellisce fuori dalle chiese, ma basta un appiglio anche improbabile per
derogare. Il suo omonimo d. Pietro Signorino palesa tutta l’ostilità che sempre
vi è stata tra il basso clero racalmutese e la saccente e prepotente curia di
S. Gerlando. Nel lasciare beni e denari per la ricostruzione (o ampliamento)
della chiesa del Monte nel 1737 è categorico: niente intrusioni della “Generale
Curia vescovile di Girgenti”; il “testatore” ha solo fiducia nei
fidecommissarii da lui prescelti e cioè don Baldassare Biondi, don Melchiore
Grillo ed il rev. Sac. Don Elia Lauricella. La fiducia non è però totale, il
“testatore vuole ed espressamente comanda che si dovesse depositare nel monte
della pietà di Girgenti” il capitale “fintanto che dalli detti fidecommissari
si ritroverà l’impiego”.
La mafia di “preti
secreti” sembra dunque affievolirsi a Racalmuto con il nuovo secolo dei lumi.
La crisi feudale della contea, connessa alla fine della dominazione
carrettesca, disperde i referenti della cupola.
Il subentrante duca di Valverde, del ceppo dei Gaetano di Naro, si
ritrova contro tutte le forze clericali per questioni di terraggio e
soprattutto di terraggiolo. Quando, poi, ritorna l’influenza degli eredi dei
Del Carretto, i Requisenz, un qualche prete esattore con licenza di lupara pare allignare nel paese. Se
crediamo al Tinebra ed a Sciascia, dovremmo annoverare il prete Savatteri. Noi,
che non abbiamo uzzoli anticlericali, riteniamo però – e crediamo con
fondamento – personaggio positivo e rimarchevole don Giuseppe Savatteri e
Brutto. Ma di ciò, dopo.
Confesso
che ritenevo basilare quel passo:
Hos
Sacerdotes secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium,
nempè, ut sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad
Barones spectantium.
Ecco,
mi ero detto: la genesi sacro-criminale del peculiare fenomeno dell’omertà
siciliana. Ho dovuto però ammettere che “secretus” è nel diritto feudale
siciliano (che si trascina sino ai primi anni dell’800) l’equivalente del
nostro esattore dell’imposte, un affiliato agli esattori Salvo – tanto per
intenderci. Spero di spingere il mio amico Virgilio – attualmente presidente
del CGA di Palermo – studioso intelligentissimo di cose del diritto pubblico e
tributario – di darmi una mano, ma essendo un collerico difficilmente ci
riuscirò.
Le segnalo, poi,
che in un locale del prof. Macaluso – il padre del giornalista suo collega – è
provvisoriamente depositato l’archivio comunale: proprio quello su cui Sciascia
ebbe a scrivere una sua pungentissima nota su Malgradotutto. Quando si trovava
al castello chiaramontano, ho riscontrato che sia pure illegittimamente vi
erano i diari giornalieri dei carabinieri di Racalmuto dalla fine
dell’Ottocento sino alla chiusura della Pretura.
Vi ho trovato
inchieste penali contro il famoso don Calogero Vizzini, contro il “pericoloso
comunista” Edoardo Romano. Ho sbirciato anche i verbali quotidiani del
carabinieri dell’epoca allorché vi fu il confino di notissime famiglie mafiose
racalmutesi in quel di Roma (celebre quella insediatasi al Governo Vecchio)
all’epoca del fascismo. La sensazionale esecuzione del famigerato nidale vi è
indagata giorno per giorno più e meglio di un romanzo giallo.
Quanto ad altri
aspetti, non mancherò di tediarla (sempreché lo ritenga del caso)
Con viva
cordialità
Dott. Calogero
Taverna
[1] ) Butto giù come mi viene.
Se lo riterrai opportuno può partire da qui una discussione tra noi due.
[2]
) In Clero Seculari hoc malum inter alia reperimus, quod cum totum ferme[quasi]
Regnum, eiusque oppida sub immediata iurisdictione Baronum, abusus inolevit[da
inolesco: si accrebbe], quod hi assumunt sibi viros sacerdotali caractere
insignitos pro temporalium rerum administratione. Hos Sacerdotes secretos
appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut sint
exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones
spectantium. Præfatorum Baronum terras dividunt inter Oppidanos ad
excolendum,ut plurimum non sine pauperum iniuria, dum eos cogunt ad conducendas
terras præfatas, non quas possunt
excolere, nec pro pensione, super qua deberent
pacisci [pattuirsi], sed pro beneplacito Baronum.
Custodes sunt
Iurisdictionis Laicalis, tam Criminalis, quam Civilis. Et quamvis designatos
teneant Laicos Ministros, quorum nomine causæ iudicantur: nihil tamen illi
disponunt absque interventu, aut certe dispositione præfatorum Sacerdotum, qui
tam Capitaneis, quam Birruarijs præcipiunt [prendono anticipatamente]; hunc,
verbi causa, modo carceribus addicendum, illum e carceribus extraendum, hunc
aut illum, hac vel illa pæna plectendum[punendo], sive ab ea absolvendum, atque
sæpius homines criminosos proprijs ipsorum manibus capiunt carceribus
mancipandos, non sine irregularitatis periculo. Incedunt armis onusti,
venationibus clamosis [pieno di clamori], et venationibus dediti sunt, atque ut
milites sclopis (?), alijsque similibus armati comitantur Barones, quando iis
hinc inde [hinc inde, da una parte e dall'altra] commigrari contingit. Hinc
plura audent contra Ecclesiasticas personas, et Iurisdictionem Ecclesiæ, sicut
et contra locorum Sacrorum Immunitatem, quibus in gratiam Baronum infestissimi
sunt.
Cogunt
sæpissime cæteros Sacerdotes, at alias Ecclesiasticas personas oppidorum, sicut
diximus de Vassallis laicis, ad acceptandum terras ad seminandum pro pensione
sibi benevisa, atque solvere gabellas, ad minus eas quas in sui favorem
imponunt Barones. Horum Sacerdotum ministerio usque ad Sacratissimas functiones
Ecclesiasticas se ingerunt, præscribunt Ritus, et Cæremonias intra Ecclesias.
Plurimi sunt qui nec permittunt Sacramenta administrare in illorum oppidis,
nisi illis Sacerdotibus, de quibus sciunt omnia ad beneplacitum eorum
ordinaturos; aliter tot mala contra eosdem machinatur, etiam per carcerationem,
et exilium parentum, vel coniunctorum, quod compelluntur Ministerio renunciare.
Atque similiter faciunt contra Vicarios foraneos, si omnia ad eorum nutum non moderentur. Nulli licet pro negotio
aliquo ad Episcopum recurrere, non obtenta prius ab eis venia. Ipsi Causas
Spirituales sæpius decidere faciunt per se, vel per suos ministros oretenus.
Sacerdotes, et alias Ecclesiasticas personas mulctant et carceribus addicunt.
Ecclesiarum bona, et aliorum piorum locorum pro illorum placito administrantur,
lites insurgentes dirimunt, quod relictum fuit pro una Ecclesia, vel pro aliquo
opere applicant alteri Ecclesiæ, vel pro
alio ministerio, atque inventi sunt qui bona stabilia Ecclesiarum concesserunt
Laicis ad meliorandum. Nec audent ita vexati Ecclesiastici ad Prælatum
recurrere, tum quia impossibiles sunt iuridicæ probationes, cum contra dominos,
et potentes, quin etiam eorum ministros laicos, Vassali ullo pacto ad deponendum adigi non possint; tum
quia si aliquam super negotio inquisitionem faciant Prælati, statim suspicio
oritur quod querelis Ecclesiasticorum permoti hoc agant, quamquam pro Fisco
Causa formetur, et tunc mala, quæ imminent, graviora sunt hac misera servitute.
Sæpe voluimus mittere manum pro
Ecclesiasticorum defensione; at vero
illi poplite flexo rogaverunt, ut manum retraheremus, scientes quam certo defensionem cessuram in maximam illorum
ruinam, quorum libertati consulebamus: unde miserrimam tolerant servitutem;
tutant enim, et iactant Barones se in proprijs Oppidis esse rerum tam
prophanarum, quam ecclesiasticarum, ut supremos
moderatores.
His accedit
quod anno proxime elapso per omnes
Civitates, et Oppida promulgatum fuit Laicale proclama, quo monebantur
omnes ministri Iurisdictionis
Temporalis, nullum familiarem aut
ministrum Laicum Episcoporum
debere gaudere privilegio fori Ecclesiastici; Et cum oporteat tenere ad minus ministros inferiores, quales sunt Birruarij, Laicos; ut
primum isti pro defensione Iurum Ecclesiarum, vel Ecclesiasticorum, nomine
Curiæ Spiritualis monent aliquem, ut desistat ab offensione, vel citant pro præfata tuitione, carceribus mancipant,
si monitio, aut citatio sit contra aliquem Laicum Ministrum, aut contra ab eis
dependentes. Nec datur (tam longe, lateque in hoc Regno gravaminum patet
campus) in propriam defensionem aliquid moliri; cum non solum actus iuridicos
efformare, sed nec verbum quidem
proferre liceat, quod statim aditum non
præstet gravamini decidendo …
Iudice qui pro Regula Iudicandi habet præfatum laicale proclama.
Hinc
Ecclesiastica disciplina prolapsa, Prælatorum Iurisdictio enervis, Subditorum
audacia petulantior, in quibus nec obedientia, nec modestia, personarum Deo
Sacratarum propriæ reperiuntur, quippe sæpissime in delinquendo seculares
facinorosos enormiter excedunt. Augentur hæc
mala ex nimia facilitate obtinendi
exemptionem … Prælatis, quæ tanta promptitudine occurrit, ut nullus eam
pro libito non consequatur. Si autem nolit exemptionem generalem circa omnes causas, et in aliquo
delinquat, sufficit ut non possit corrigi … Prælato, dicere se esse gravatum.
Vel oportebit Prælatum in alio Trubunali facere partes actoris tot causarum
quot habet subditos. Unde modo Prælati nihil agere possunt præterea, quæ ut in
plurimum facere possunt alibi, in villulis Vicarij foranei Episcoporum.
Regularium
Virorum res non fælicius se habent, quia similia patiuntur, vel potius eadem
tam subditi, quam Superiores illorum: Patiuntur tamen Regularium res aliud
notabile malum contra Regularem Observantiam, et disciplinam quam, etiam si
vellent amplecti, non possent ad præscriptum Regulæ vivere ob paucitatem
fratrum commorantium in Conventibus. Plures enim sunt Conventus in quibus duo
tantum habitant fratres, in alijs tres, aut quatuor ad summum. Unde nec
Ecclesiæ decenter tenentur, neque horæ Canonicæ in Choro in similibus domibus
recitantur, et sæpius potius scandalo, quam exemplo populi sunt; Quapropter
prudentiores, laicorum, immo et Regularium
putant, putant consultissimum
fore, si præfati supprimerentur conventus, et Fratres in eisdem existentes ad
alios, in quibus ob maiorem numerum posset institui Regularis Observantia, trasferrentur.
[3]
) In Clero Seculari hoc malum inter alia reperimus, quod cum totum ferme[quasi]
Regnum, eiusque oppida sub immediata iurisdictione Baronum, abusus inolevit[da
inolesco: si accrebbe], quod hi assumunt sibi viros sacerdotali caractere
insignitos pro temporalium rerum administratione. Hos Sacerdotes secretos
appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut sint
exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones
spectantium. Præfatorum Baronum terras dividunt inter Oppidanos ad
excolendum,ut plurimum non sine pauperum iniuria, dum eos cogunt ad conducendas
terras præfatas, non quas possunt
excolere, nec pro pensione, super qua deberent
pacisci [pattuirsi], sed pro beneplacito Baronum.
Custodes sunt
Iurisdictionis Laicalis, tam Criminalis, quam Civilis. Et quamvis designatos
teneant Laicos Ministros, quorum nomine causæ iudicantur: nihil tamen illi
disponunt absque interventu, aut certe dispositione præfatorum Sacerdotum, qui
tam Capitaneis, quam Birruarijs præcipiunt [prendono anticipatamente]; hunc,
verbi causa, modo carceribus addicendum, illum e carceribus extraendum, hunc
aut illum, hac vel illa pæna plectendum[punendo], sive ab ea absolvendum, atque
sæpius homines criminosos proprijs ipsorum manibus capiunt carceribus
mancipandos, non sine irregularitatis periculo. Incedunt armis onusti,
venationibus clamosis [pieno di clamori], et venationibus dediti sunt, atque ut
milites sclopis (?), alijsque similibus armati comitantur Barones, quando iis
hinc inde [hinc inde, da una parte e dall'altra] commigrari contingit. Hinc
plura audent contra Ecclesiasticas personas, et Iurisdictionem Ecclesiæ, sicut
et contra locorum Sacrorum Immunitatem, quibus in gratiam Baronum infestissimi
sunt.
Cogunt
sæpissime cæteros Sacerdotes, at alias Ecclesiasticas personas oppidorum, sicut
diximus de Vassallis laicis, ad acceptandum terras ad seminandum pro pensione
sibi benevisa, atque solvere gabellas, ad minus eas quas in sui favorem
imponunt Barones. Horum Sacerdotum ministerio usque ad Sacratissimas functiones
Ecclesiasticas se ingerunt, præscribunt Ritus, et Cæremonias intra Ecclesias.
Plurimi sunt qui nec permittunt Sacramenta administrare in illorum oppidis,
nisi illis Sacerdotibus, de quibus sciunt omnia ad beneplacitum eorum
ordinaturos; aliter tot mala contra eosdem machinatur, etiam per carcerationem,
et exilium parentum, vel coniunctorum, quod compelluntur Ministerio renunciare.
Atque similiter faciunt contra Vicarios foraneos, si omnia ad eorum nutum non moderentur. Nulli licet pro negotio
aliquo ad Episcopum recurrere, non obtenta prius ab eis venia. Ipsi Causas
Spirituales sæpius decidere faciunt per se, vel per suos ministros oretenus.
Sacerdotes, et alias Ecclesiasticas personas mulctant et carceribus addicunt.
Ecclesiarum bona, et aliorum piorum locorum pro illorum placito administrantur,
lites insurgentes dirimunt, quod relictum fuit pro una Ecclesia, vel pro aliquo
opere applicant alteri Ecclesiæ, vel pro
alio ministerio, atque inventi sunt qui bona stabilia Ecclesiarum concesserunt
Laicis ad meliorandum. Nec audent ita vexati Ecclesiastici ad Prælatum
recurrere, tum quia impossibiles sunt iuridicæ probationes, cum contra dominos,
et potentes, quin etiam eorum ministros laicos, Vassali ullo pacto ad deponendum adigi non possint; tum
quia si aliquam super negotio inquisitionem faciant Prælati, statim suspicio
oritur quod querelis Ecclesiasticorum permoti hoc agant, quamquam pro Fisco
Causa formetur, et tunc mala, quæ imminent, graviora sunt hac misera servitute.
Sæpe voluimus mittere manum pro Ecclesiasticorum
defensione; at vero illi poplite flexo
rogaverunt, ut manum retraheremus, scientes quam certo defensionem cessuram in maximam illorum
ruinam, quorum libertati consulebamus: unde miserrimam tolerant servitutem;
tutant enim, et iactant Barones se in proprijs Oppidis esse rerum tam
prophanarum, quam ecclesiasticarum, ut supremos
moderatores.
His accedit
quod anno proxime elapso per omnes
Civitates, et Oppida promulgatum fuit Laicale proclama, quo monebantur
omnes ministri Iurisdictionis Temporalis,
nullum familiarem aut ministrum
Laicum Episcoporum debere gaudere
privilegio fori Ecclesiastici; Et cum oporteat
tenere ad minus ministros
inferiores, quales sunt Birruarij, Laicos; ut primum isti pro defensione
Iurum Ecclesiarum, vel Ecclesiasticorum, nomine Curiæ Spiritualis monent
aliquem, ut desistat ab offensione, vel citant
pro præfata tuitione, carceribus mancipant, si monitio, aut citatio sit
contra aliquem Laicum Ministrum, aut contra ab eis dependentes. Nec datur (tam
longe, lateque in hoc Regno gravaminum patet campus) in propriam defensionem aliquid moliri; cum non solum actus iuridicos
efformare, sed nec verbum quidem
proferre liceat, quod statim aditum non
præstet gravamini decidendo …
Iudice qui pro Regula Iudicandi habet præfatum laicale proclama.
Hinc
Ecclesiastica disciplina prolapsa, Prælatorum Iurisdictio enervis, Subditorum
audacia petulantior, in quibus nec obedientia, nec modestia, personarum Deo
Sacratarum propriæ reperiuntur, quippe sæpissime in delinquendo seculares
facinorosos enormiter excedunt. Augentur hæc
mala ex nimia facilitate obtinendi
exemptionem … Prælatis, quæ tanta promptitudine occurrit, ut nullus eam
pro libito non consequatur. Si autem nolit exemptionem generalem circa omnes causas, et in aliquo
delinquat, sufficit ut non possit corrigi … Prælato, dicere se esse gravatum.
Vel oportebit Prælatum in alio Trubunali facere partes actoris tot causarum
quot habet subditos. Unde modo Prælati nihil agere possunt præterea, quæ ut in
plurimum facere possunt alibi, in villulis Vicarij foranei Episcoporum.
Regularium
Virorum res non fælicius se habent, quia similia patiuntur, vel potius eadem
tam subditi, quam Superiores illorum: Patiuntur tamen Regularium res aliud
notabile malum contra Regularem Observantiam, et disciplinam quam, etiam si
vellent amplecti, non possent ad præscriptum Regulæ vivere ob paucitatem
fratrum commorantium in Conventibus. Plures enim sunt Conventus in quibus duo
tantum habitant fratres, in alijs tres, aut quatuor ad summum. Unde nec
Ecclesiæ decenter tenentur, neque horæ Canonicæ in Choro in similibus domibus
recitantur, et sæpius potius scandalo, quam exemplo populi sunt; Quapropter
prudentiores, laicorum, immo et Regularium
putant, putant consultissimum
fore, si præfati supprimerentur conventus, et Fratres in eisdem existentes ad
alios, in quibus ob maiorem numerum posset institui Regularis Observantia, trasferrentur.
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