Note
e dettagli sull’avvento dei Del Carretto
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci
coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di
Montblanc. Essa recita :
Antes que
la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de
Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que
avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de
Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los
varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la
armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el
officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses
despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del
Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey
a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que
se criasse en la casa del Rey su hijo,
que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran
estado en aquel reyno. Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro
algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de
Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre
se reduxo a la obediencia del Rey ...
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di
Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra
che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi
aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le
cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili,
queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al
1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la
storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è
Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei
Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani
nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa
concedere è questione ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali
conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i
Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la
cancelleria dei Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese
feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello
cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte
in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della
baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli?
Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito
Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in
particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto?
Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe.
LIUNI
DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di
Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata
l’investitura stando agli atti del
protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza
religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune
criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno
1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un
documento del 7 luglio 1474 VII Ind., vengono narrate le circostanze
raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il
Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti
per la protezione di quei giudei.
Abbiamo sopra accennato ad alcuni interessanti atti
dell’archivio di Stato di Palermo: vi dedichiamo ora una trattazione un po’ più
lunga per l’interesse che rivestono., citati la volta scorsa, ci riportano un
efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo la
parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in vernacolo
siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava
in lu casali di Raxalmuto actendendo
ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu
dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro Raneri;
et dapoy alcuni altri di lu dictu casali
quasi a tumultu et furia di
populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non havendu
timuri alcuno di iusticia. Immo,
diabolico spiritu ducti, tagliaro
la lingua et altri menbri et
ruppiro li denti usando in la persuna di lu dictu iudeu
multi crudelitati et demum lu
gettaru in una fossa et copersilu
di pagla et gictaru foco petri
et terra. La qual cosa essendo di malo
exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo et delinquenti volimo siano ben puniti et
castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et
exemplo. E pertanto confidando di la
vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per
sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo
commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu
casali et cum quilla discrepcioni
lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et
li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu
populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. Et
de tucti li sopradicti cosi fariti
prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui.
Comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo
digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si
trovaro alo dicto acto et quilli digiati
minari in la chitati di Girgenti et carcerarili
in lu castellu di la dicta
chitati in modo chi non si
pocza di loro fuga dubitari. E perche
siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di lo
dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et
scripturi diligenti investigacioni et perquisicioni cui li prisi
et in putiri di chi persuna sono.
Quel
tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad
indurre alla restituzione dei 150 pezzi
d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese
di vecchia data. Lo spaccato della società racalmutese non appare molto
esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali
che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione
alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto
irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie
citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in
taluni personaggi locali.
PARTE
TERZA
PROFILI
DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL
CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di
lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente
titolo di Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e
quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma
erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le
ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo
Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo
decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato,
evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di
Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo
personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento
lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza
figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I
DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia
potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia
Chiaramonte. Ed è proprio così che è andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta
del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli
anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la
altezzosa famiglia dei del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il
mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere
Antonio del Carretto, marchese di quei due centri lontani. Il matrimonio dura
il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre.
Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che
questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio
nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia
siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un
qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti
genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena “burgensatici” - quello dei
Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed
impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella
parte vicino Agrigento.
ANTONIO
II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla
solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione
successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto
Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro
- emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno
che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in
casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il
destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a
Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a
Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era precario,
forse del tutto inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due
figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre
che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino
strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era
Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo
ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data
di un importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur
loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in
compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum».
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella
compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini
pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II
aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a
Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per
lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario
completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli
Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia
et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti,
cioè in
«territorio Garamuli
et Ruviceto, in Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo
primogenito, Matteo arrampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e
Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del
Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro
d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse
alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto solo per
consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con
la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini
di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli
giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo,
a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che
sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non
ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un
concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative
giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che
ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli
storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del
Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni
araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili
Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da
Morreale a Salvo) è semplicemente cervellotica congettura. Invero anche il
Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due
fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una
caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna
paterna), Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il
titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il
titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles
marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima () era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL
CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero
capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse
un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo
(alla fine del secolo, la baronia sarà elevata a contea), parassitario nel
diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in
modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne
avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e
consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la
presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto
barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Montblanc, il futuro
Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo () ne fornisce indubbia
testimonianza.
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben
complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova
impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato
dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non
sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni
scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto
ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un
duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore
spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia
rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti
sediziosi, si riappicifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di
riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto
ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura
(evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di
Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone
di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica
che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta
incastrato tra l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino
Andrea Chiaramonte prima che questi finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e
noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del
Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea
Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei
Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario
Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e
organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzi allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può
finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia
originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici
nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare
esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un
diploma () del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al
centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio (): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato
Gibillini passa nelle mani di Filippo de
Marino, fedelissimo vassallo del Re
(1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de
Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ()
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato
diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico
del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto
si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo
ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma
per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è
pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere
l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di
Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed
egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non
sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli
che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu
di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi
heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li
quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu
serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di
Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato
nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere
l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da
altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di
Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser
Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta".
Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la
quale condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu misser
Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi,
jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo
inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li
agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era
stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati pesantemente
danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la
colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser
Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci
li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti
villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma
drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà.
Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e
ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda,
onnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è
costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa finale fu ulteriormente munifica per
l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei
nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del
nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di
riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i
sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace
concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi
sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo
trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del
Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura
francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397).
Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria () che ha
modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e
Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro
paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in
Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare
Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag.
17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da
Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese,
di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e
metterne a memoria alcune delle storie.» ()
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della
curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo
momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello
Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente
le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la
morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto
del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22
agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
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