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sabato 25 aprile 2015

Racalmuto al tempo del diluvio


Gli stravolgimenti geologici

 

Sette milioni di anni fa – qualche secolo in più, qualche secolo in meno – terminava il lungo processo di prosciugamento marino del territorio racalmutese: abbattuto l’ultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo, le acque defluirono anche da quel versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano scivolati scisti di pietra dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo tra la tecnica del “forno” e quella del “Tholos”. Alla luce dell’attuale scienza geologica – destinata a venire travolta dalle tecnologie dell’incombente futuro – siamo in tempi pliocenici.

Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”. Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.

Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.

Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese:

1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;

2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;

3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese. 

4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).

Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»

 

 

Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di beffarda premonizione e di malefica iella.

 

 

Preistoria racalmutese

 

 

 Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).

 

Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?

Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.

Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.

Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.

L’insediamento di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.

Quello che si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria prossima al bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo a.C.  Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le relative tombe a forno sono andate del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.

Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.  [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un conno”.  Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»

Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.

Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.

Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.

 

 

VERSO L’AVVENTO DEI GRECI

 

Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe  del tipo a forno».

Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.

A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.

Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina,  per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.

I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.

Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria.  I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino  non attestano  solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e  ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.

 

IL PERIODO GRECO

 

Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.

Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.

E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.

In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet'  (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni:  la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.

Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.

Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.

Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.  Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.

 A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.

Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo.  La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita.  Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.

Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.

Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina. 

Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.

Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono.  E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.

Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.

L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.

Sempre il Tinebra Martorana  ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, ....  si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.

 

LA PARENTESI CARTAGINESE

 

Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.

Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas  ed il suo territorio -  ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.

Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.

Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».

Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.

Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.

Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.

Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas  e la vicina Eraclea Minoa  appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.

 

IL PERIODO ROMANO

 

Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con  la  lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.

Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.

Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.

E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:

 

C* PP. ILI* F* FUSCI

       RMUS. FEC.

 

 

 

 

Il  Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi  (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota  ed eludendo ogni commento prosopografico.

Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.

Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.

Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.

Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.

Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti  ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denoma: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:

 

Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.

 

L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:

Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.

In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :

 

MANCIPYM/

SULFURIS

SICIL

 

Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea

 

EX. OF. (ex officina)

 

come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.

 

Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.

L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.

 

 

Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei  volumi del C.I.L. ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia  all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.

All'inizio del secolo scorso, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni di Santa Maria, nella costruzione di un sepolcro.

 Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul  bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.

Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.»

Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob  ruinam salis repentinam, defunctus est»,  è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.

 

I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)

 

Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina. Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi non resta del tutto valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas, anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di storia romana – in forma intera adoperate come materiali da costruzione per sepolcro; su di esse si legge la formula ex praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando annota: «Salinas in luogo di Commodiani preferiva leggere Commodi Ant(onini) pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e, divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”, non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d. C. ”il praedium in questione”.

I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro  - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»

Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»

In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.

Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.

 

I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA

 

 

Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente affiora.

Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.

Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.

Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino  - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.

I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.

La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.

Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).

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