Capitoli dell’accordio si fà infra
l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e
per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
Capitoli
dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte
della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e
successori in dicto statu
per lo quali si havi di promittiri
di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea
usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra
mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris
aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia
d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli
in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e
terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta
promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi,
Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro
Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito
d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo
Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra
lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed
altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia
imposto perpetuo silentio:
Testes magnificus Marianus Catalano,
magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med: doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice,
Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d.
Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de
Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.
Ex actis quondam notarij Nicolai
Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne
Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.
*
* *
Nei 27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e
il conte del Carretto abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del
nostro paese, nell’ultimo ventennio del Cinquecento.
All’art. 1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di
un galletto che ogni allevatore di polli doveva al governatore del castello,
anche se a prezzo prestabilito.
All’art. 2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla
fontana. La fontana dei nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere
l’aspetto che si arguisce dall’ex voto del Monte.
All’art. 3 viene imposta la macina nei mulini del conte,
anche se ne viene attenuato il rigore con una disciplina abbastanza elastica.
Interessante il richiamo ai mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile
ammirare la perizia della realizzazione, una pregevole opera di ingegneria
idraulica del ’500.
L’art. 4 disciplina l’istituto della “baglia”, una
magistratura feudale che giudicava dei piccoli forti e riscuoteva le multe per
contravvenzioni ai locali regolamenti di polizia.
L’art. 5 compendia norme sulla gabella della carne bovina,
vaccina, ovina.
L’art. 6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie
personali che massari, donne di servizio, lavoratori subivano da parte della
corte feudale.
L’art. 7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e
di terraggiolo al centro dell’annosa controversia con il conte. Emergono
arretrati d’imposta che i racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.
L’art. 8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo
dovesse essere intensamente coltivato.
L’art. 11 impartisce disposizioni sulle modalità delle
estirpazioni delle vigne e sulle licenze comitali occorrenti.
L’art. 10 concerne la nomina del “rabbicoto” il commissario
per il grano.
L’art. 11 contiene giusti divieti ad esigere le
contravvenzioni della baglia in natura come frumento, bestiame, etc.
L’art. 12 concerne le tasse feudali sui mosti.
Con l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul
terraggiolo.
L’art. 14 reimposta invece il diritto del terraggio.
L’art. 15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti
quando gli abitanti di Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o
mantengono vacue le terre al di fuori del territorio feudale.
L’art. 16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo
di tenere le bestie al tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di
Racalmuto e di Garamoli.
Con l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco
animali quando si va a coltivare vigne o ‘chiuse’.
Con l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le vendite abusive di abitazioni all’interno
dell’abitato di Racalmuto.
L’art. 19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei
processi.
L’art. 20 stabilisce una transazione sulle spese processuali
fin allora sostenute, una sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.
Con l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme
e consuetudini per quanto non espressamente previsto e stabilito.
L’art. 22 contiene l’assicurazione da parte del conte che
per l’avvenire non potranno essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e
consuetudini se non nelle forme pattizie concertate con il consiglio
dell’Università.
L’art. 23 attiene alle forme pubbliche da conferire
all’accordo che si è raggiunto.
L’art 24 stabilisce il terraggio per le terre “strasattate”.
L’art. 25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia
da parte del conte che da parte dell’Università.
L’art. 26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le
terre ingabellate inferiori a salme 50.
L’art. 27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono
tenersi nel territorio di Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in
esenzioni d’imposta.
L’organizzazione feudale del centro
agrario di Racalmuto.
Sorprendentemente, i religiosi del Carmelo di fine ’500
detenevano tutta una documentazione sugli strani debiti di uno di tali rami
cadetti. Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione
feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15
febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita
con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi
fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento
forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi
prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per
tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la
presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^
Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il rapporto sottostante di questa transizione di
frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da pensare ad una speculazione
granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della celebre famiglia, ha
entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli abbienti come questo
Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti quantità di frumento.
Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere -
si può volgere dal latino - come fra gli altri capitoli del testamento
fatto a mio rogito il 9 novembre p.^
Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo
barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso
spettabile testatore volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere
od avere dal detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di
frumento, di orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a
valere sui redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti
appaiano in atti pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da
qualsiasi curia. E ciò volle e non
altrimenti né in altro modo.»
«Faccio fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573
dai toni pomposamente ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che
confermare i fatti suesposti.
La curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si
dovrà procedere con l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra
pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e
scarcerando ed operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello
all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti formali della locale curia
racalmutese, emergendone procedure, figure locali, personaggi pubblici.
«Racalmuto 28 gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del
Carretto per Gaspare La Matina, baiulo.
«Testi ricevuti - alcuni passi sono in latino, ma qui ne
diamo la traduzione - ed esaminati a cura dello spettabile baiulo della terra
di Racalmuto ad istanza e richiesta di Antonuzzo Pistuni avverso e contro la
spettabile donna Eleonora del Carretto tutrice testamentaria dei propri figli e
figlie, eredi del quondam spettabile don Federico del Carretto suo marito, in
ordine alla verifica dei documenti.»
Identica relazione fanno i sotto indicati personaggi:
•
nob. Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della terra di
Racalmuto, con don Federico ha avuto “pratica et canuxi la sua manu”;
•
magnifico Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi essiri la manu propria del ditto quondam et che ni havj
multi polisi de causa sua et interrogatus dixit scire premissa per modum ut
supra ditta sunt..»;
•
hon. Vincenzo Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che era con lo ditto quondam don Fiderico ...»;
•
Diacono Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti quando ditto quondam don Fiderico
scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta polisa scripta che fui
l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;
•
Reverendo don Alerico Tudisco di Racalmuto, che sa «come quillo che a pueritia usque in diem
obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et canuxi essiri ditta polisa la sua
propria manu modo quo supra...».
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della
terra di Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de
Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere
contadino: il conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è
tutto a favore del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di
aggirarlo; lo contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti
di Racalmuto. Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e
l’arciprete Campanella riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il
terraggio ed il terraggiolo. Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale
borbonico sentenziò: “ius terragii et terragiolii tam intra, quam extra
territorrium declaratur non deberi”.
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia
(sull’onda degli anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena
ventiquattrenne - Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità
dei predecessori; ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei
feudatari settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del
Carretto.
Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del
Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di
Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli
abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere
del tempo.
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui
ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu
un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo.
Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi
beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima
moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il
conte teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine
ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che
lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di
secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali.
Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente
nella sua ricostruzione delle vicende di
fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982
cit.)
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o
forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576.
Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del
terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri,
piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone
enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento
abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si
colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico.
Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto.
In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera
giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di
Giovanni «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe
che essendo riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la
Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui
lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il
detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera,
dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
Gli mandò dietro il conte per farlo castigare
della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano
promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar
meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di
Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la
sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì
a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando
andasse in palagio a trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto,
sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché
aveva concertato genti per tal effetto.
Lo ingannro due finalmente, che,
offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’
nemici.
Aveva il conte concertato due con
due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a
passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e
quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma
l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e
seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea.
Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé
cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da
D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti
mesi non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era
stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il
conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il
foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che
fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero
essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della
corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto
provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro
seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per
eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con
lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla
corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era
tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore,
che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero
lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro:
il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue
defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu
liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto,
ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a
pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La
Cannita quando ricama sul testo - invero arduo
- del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana
ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche
arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).
L’intrico
(veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
Ma dobbiamo al Garufi queste esplicative note.
«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su
questa vertenza [quella relativa al caso
Ferrante] - scrive l’illustre
storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al
reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del
D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e
don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don
Gaspare de Quiroga, un altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro
Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al
fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci
dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte
di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio,
fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e
l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la
cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo
l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice
il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.
[...]».
Ed il Garufi così
illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto,
Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il
rapporto passa a parlare del fratello
del conte di Racalmuto.
«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di
rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli
Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato per l’occasione in un misero commensale del
fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.
«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti,
a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora,
Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva
esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva
una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello,
imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui
dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a
Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde
finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.
«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione
per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si
rifiutarono dicendo: che “di pieno
diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no
commensale del fratello”.
«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto
indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu
necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse
nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II
«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di
del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di
lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille
fiorini.»
Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse.
Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che
per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto
(sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che Gasparo
la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré
Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò
iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate
in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.
Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del
sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.
Morì il 1° ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena
24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio
Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di
alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.
Ma qual era la situazione di Giovanni del
Carretto nel 1593, all’epoca del
‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di
un funzionario napoletano che, parlando
della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del
Carretto.
I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio
della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase
del Di Giovanni:« e fatte le sue
defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu
liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale.
Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in
Palermo.
Nel processo n. 3542 del 1600 , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594,
aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della
terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in
carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di
barone di Cerami.
La presa
del possesso di Racalmuto.
Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del
Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da
Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via
delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva
abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era
trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu
sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù
fuori le mura di Palermo.
Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha
il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della
contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte
della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di
Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta,
per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in
quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi
privilegi e degli altri atti e scritture.
«In relazione a ciò, nel predetto giorno, lo spettabile don Cesare del Carretto della
città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come
procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura
celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti
suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture, con ogni miglior modo e forma, con i quali
meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per
l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio
primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don
Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in
forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando
nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese
e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente
possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione
civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed
universe pertinenze sue.
«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello
spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per
suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso
nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli
suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della
giurisdizione civile e criminale e nel
mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti
suoi privilegi ed altre scritture.
«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con
apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso
castello e nelle sue stanze.
«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e
revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo
Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni
Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle
persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici
della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali,
Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e
dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo
Cacciaturi.
«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono
stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per
beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o
circostanza.
«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a
testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a
cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente
strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de
Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato,
in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.
«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro
Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.
«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso
predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto
spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori
di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale
(Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti
d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del
detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la
concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra,
ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a
dimostrare la solenne presa di possesso.
«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.°
Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de
Gagliano, di Cerami, regio pubblico
notaio del Regno.»
Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il
quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità,
appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi
fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla
questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris
XIII^ Ind. 1584 - prestitit juramentum
[..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche
un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.
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