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martedì 7 luglio 2015

e la storia continua

, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.


 

Il “paragio”.



Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio” [1].
Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.[2]
Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di ‘palanghe’, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una virgulta della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.  
E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’)  e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).

Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina dànno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Parrebbe da alcuni documenti [3] un  fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.

I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei Del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).

Racalmuto - questo feudo dei Del Carretto - ne subì i danni?  Tutto lo fa pensare.


Donna Aldonza del Carretto.



Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che fonda il convento di S. Chiara a Racalmuto - che pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.

Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali,[4] che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».

Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.

«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»

Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:

«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».

Uguale trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».

Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?

Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei Del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,[5] morta nel settembre del 1592.

I Del Carretto a fine secolo XVI.



Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle[6] e due fratelli.

 Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legittimo, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il primo maggio 1622[7], Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.

Ma ritorniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta  Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593]  - precisa un diarista [8] -  dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»

Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao[9] ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo[10]. Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari [11] parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettica. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.

Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?)  e presta giuramento il 18 settembre 1600.[12]

I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne  ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).

Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes,  juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali,  et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri,  trattari et reputari  per patri et figlio,  et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino  ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».[13]

Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio.  Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’intensifica. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.

Quanto ai Del Carretto, figura per un paio di volte il fratello del Conte, don Giuseppe del Carretto, quello dei truci delitti che finì con il coinvolgere anche Giovanni del Carretto.
Viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un altro grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593  - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»

Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’altra analoga circostanza: il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. “I padrini: 'ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”, recita l’atto della Matrice.
Attestata è pure la presenza in alcune cerimonie di don Baldassare del Carretto, personaggio a noi non altrimenti noto: l’8 marzo 1589 era stato padrino nel battesimo del figlio Giacomo del magnifico Dario Piamontisi. “Spettabili signore”, lo vuole il documento della Matrice.
Troppo poco, come si vede.

Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.


I Del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.



Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari,[14] avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.
Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
A questo ultimo riguardo, sono illuminanti i seguenti stralci:
«Beatissimo Padre
L’Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice à V.B. che l’è, pervenuto à notitia che alcune persone maligne per calunniare la bona vita et amministration che l’ha fatto et fa esso supplicante [.....] et particolarmente con don Petro et don Gastone del Porto [....] il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,  il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti concertati  à calunniar l’exponente [........]»
« [.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la spoglia[15] del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.

Et l’exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.

Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti à detta spoglia, non ostanti l’excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.

Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano à sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto à Cler: Jacopo Vella che l’ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell’Ecclesia in una oscura fossa “in umbra mortis”, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.

Anzi, perché il vicario generale d’esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d’esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda à detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere à monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è, stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.

Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.

Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri à doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.»




[1]) Nei Capitula Regni - edizione Testa, Palermo 1741, II, pag. 52 segg., cap. LXXI; pag. 209, Cap. CCXLVI (Carlo V) - si accenna al ‘paragio’ ed ai suoi inconvenienti:

«per la restituzione di dote, et dotario, et ancora per rispetto delle doti di paragio, si dismembrano molti stati , baronie et feghi, et si vengono  ad annivhilare talmente. che li Baroni non ponno sostentarsi secondo il suo stato, né hanno quella facoltà che li conviene ..

Interessante il commento del De Stefano (Francesco De Stefano - Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo  - Bari 1977, pag. 111 e segg.):

«Sulla decadenza economica di molta parte della nobiltà influì assai, specialmente nel ‘600, l’inurbamento nei grandi centri, di preferenza la capitale,, per cui i feudi vennero affittati a gabelloti grossi, i quali si arricchirono a spese della nobiltà terriera e dei lavoratori.

«Allora si aggravò il fenomeno già delineatosi nel ‘500, perché anche in quel secolo non pochi nobili erano decaduti al segno che lo stesso parlamento chiese appannaggi decorosi per ‘nobili homini, et gentilhomini, li quali non tenino forma alcuna di vivere; et per questo accadino ad alcuni erruri’ .

«Con quella dell’inurbamento, si accompagnarono altre cause: la sproporzione fra redditi e spese, le dissipazioni per vanità e fasto connesse con la titolomania, la costruzione di palazzi e ville sontuose [ e le doti di paragio di cui sopra].

«Non pochi baroni avevano accumulato sui loro patrimoni tanti arretri di soggiogazioni per doti, che ‘non hanno forma di casare  le loro figlie, sorelle ed altre persone, alle quali sian dovute doti [ S.V. Bozzo - Corrispondenza particolare di Carlo d’Aragona, in Documenti per servire alla Storia di Sicilia, Palermo 1877, p. 167 sgg.]; e il pagamento era divenuto oltre modo difficile.

«Poiché questi debiti davano ai creditori diritto a procedere direttamente sui frutti dei feudi, e poteva accadere che, in tal caso, al debitore non restasse margine alcuno di reddito, così questi li lasciava incolti.

«I creditori, a loro volta non mancarono di agire per far valere giudizialmente i beni dei debitori. Il governo cercò di rimediare a questo stato di cose. Il viceré Maqueda, per esempio, imprigionò il barone di Siculiana per i suoi molti debiti.»

Illuminante un recente studio di Maurizio Rizza - La rescissione delle soggiogazioni in forza del decreto 10 febbraio 1824. Stralciamo alcuni passi:

«Tra il 1826 ed il 1846 il volto della proprietà fondiaria siciliana subisce una significativa modificazione per effetto della legge 10 febbraio 1824 che dava ai debitori di soggiogazioni la possibilità di soddisfare i debiti contratti con la cessione di fondi di valore corrispondente.

«La soggiogazione, com’è noto, era una sorta di ipoteca a rendita perpetua gravante sulla proprietà feudale.

«Essendo questa considerata per sua natura inalienabile, ai creditori era data facoltà di agire esclusivamente sulla rendita del debitore e, qualora questo si mostrasse inadempiente, veniva concessa la vendita giudiziale dei beni solo dietro espressa autorizzazione del re.

«Tra la seconda metà del ‘500 e i primi del ‘600 il fenomeno delle soggiogazioni aveva assunto proporzioni notevoli sia per il numero dei debitori sia per la quantità dei debiti contratti ...» [Pag. 297].  Principalmente «.. era la nobiltà ad essere pesantemente indebitata: le numerose e consistenti donazioni ad enti ecclesiastici ed opere pie, certi complessi e obbligati rapporti di parentela, e il tenore di vita
oltremodo sfarzoso per abito mentale e per esigenze di corte vi influivano in maniera determinante.

«Un ruolo rilevante assumevano [...] nella progressiva decadenza di molte grandi famiglie aristocratiche le cosiddette “doti di paragio”. Secondo le costituzioni de dotario di re Ruggero, in aliquibus di re Federico e quamplurium di re Guglielmo, il barone era tenuto [a dotare i suoi stretti parenti in maniera congrua]» (pag.  298)

[2]) E l’A. soggiunge: 

«L’abitudine dei baroni siciliani, nelle cui mani era concentrata la maggior parte della proprietà fondiaria dell’isola, di non assolvere agli obblighi aggravava il debito iniziale di un considerevole accumulo di arretrati.

«Questo stato di cose si ripercuoteva inevitabilmente sull’agricoltura isolana. Diventando sempre più difficile tener dietro ai pagamenti  e non potendo vendere i loro beni feudali, essi preferivano lasciare in abbandono quelle terre dalle quali, per il vincolo della soggiogazione, non potevano ricavare alcun utile.

«Per evitare che il dilagare del fenomeno potesse provocare nuove terribili carestie come quella del 1590-92, e per impedire che le numerose richieste di far vendere giudizialmente i beni dei debitori ridimensionassero i patrimoni della nobiltà, la cui ricchezza doveva contribuire alla magnificenza del regno, erano stati emanati a cominciare dal 2 dicembre 1598 una serie di provvedimenti che culmineranno nella istituzione della Deputazione degli Stati.

«Ne derivarono, però, tanti e tali abusi che il governo fu costretto ad intervenire ripetutamente nel tentativo di mettere ordine in questa intricata questione.

«Non potendo abolire l’uso delle soggiogazioni ... i provvedimenti regi si riducevano alla pura e semplice regolamentazione di quei pagamenti, che di fatto non venivano eseguiti, e alla rimozione dall’incarico dei giudici e amministratori corrotti.

«Questa linea di fondo sarà confermata anche nelle stesse severe disposizioni contenute nella Carta reale del 13 agosto 1735 per i decorsi delle soggiogazioni. Tra il 1622 e 1812 numerose furono le richieste dei baroni di mettere in amministrazione giudiziaria i propri beni la qual cosa, tuttavia, non valse ad evitare l’arresto di qualche nobile, il fallimento di illustri casate, lunghissime ed irrisolte liti giudiziarie e prepotenze di ogni sorta» (pag. 299-300).

Per tanti versi, la storia dei Del Carretto è l’emblema di queste annotazioni.
[3]) Archivio di Stato di  Agrigento - Fondo 46 - vol. 506 - f. 204:

«ex actis meis notarii Angeli Castro Joanne Racalmuti -

«Est sciendum qualiter inter alia capitula testamenti solemnis et in scriptis quondam don Vincentij del Carretto sacerdotis, ultimi sub quo decessit, facti in actis meis notarii infrascripti die XV° augusti VII ind. proximae praeteritae 1624, aperti et publicati in eisdem  actis meis sub die XVIII presentis  mensis septembris  VIII^ inditionis instantis, extat capitulus ut infra:

«“Item dictus testator legavit et legat de summa illarum unciarum quadraginta novem redditus supra statu et baronia Ciramis vigore contractuum superius expressatorum  uncias duodecim redditus Ven: Conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo terrae Racalmuti pro celebratione unius missae de requie pro anima Ill.i Don Hieronimi del Carretto comitis Racalmuti eius fratris.”»

Se ne ha la riprova nell’atto di donazione del 10 luglio, IIIJ^ Ind.  1621 (ASP - Protonotaro Regno - Investiture - Busta n.° 1569 -  Processo n. 4074 - 1621 -   f. 10) che recita:

 «.. Don Vincentius del Carretto frater ipsius Don Hironimi comitis et avunculus dictorum Don Joannis et Donnae Dorotheae...»

[4]) vedi testamento reperibile in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 501.
[5]) Archivio di Stato di Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie Investiture - Busta n.° 141-  Anni 1636-48 - f. 118 -

Il documento, invero, riesce ad intricare ancor più le vicende feudali di Cerami di cui si è detto.

Per gli eventuali appassionati di araldica ne facciano una sintetica trascrizione, lasciando però su di loro il gravoso compito di dipanare la matassa - giuridica ed ereditaria - delle poco chiare vicende e dell’armonia fra i diversi documenti, distanti quasi un secolo l’uno dall’altro.

«Investitura del fego di Donna Maria in persona di D. Antonino Grillo.

«Die 16 septembris X ind. 1641 - Apud urbem felicem Panormi ...

«d. Joseph Burghetti procurator  .. vigore procurationis in actis notarii Ascanij de Frat’Antoni Panormi die 22 februarij IX^ ind. 1641 .. D. Antonii Grillo baronis pheudi D. Mariae tenentis et possidentis feudum praedictum olim de membris et pertinentiis baroniae et terrae Ceramis ... ob venditionem de eo sibi factam sub verbo regio absque spe reddimendi  ut dicitur “à lutti passati” per ill.mum D. Joannem del Carretto Comitem Rahalmuti et baronis dicti feudi et pro eo per ill.m D. Ferdinandum Isguerra olim consultorem E.S. et judicem deputatum electum per S. E. in venditionem feudi paedicti per acta notarii Cesaris Luparelli Panormi die 7. ottobris 9^ ind. 1640 ...

«In quo feudo dictus ill.s D. Jo: Junior successit tam ut donatarius quondam ill.is Hieronimi del Carretto eius olim patris, quam uti filius  primogenitus legitimus et naturalis ac indubitatus successor quondam ill.is Hieronimi vigore donationis  in attis notarij Angeli Castrojoanne terrae Raxhalmutu die X Juliii IIIJ^ ind. 1621, insinuatae in actis Juratorum dictae terrae eodem die et postea confirmatae per dictum ill.m D. Hieronimum per quamdam  scripturam privatam seu apodixam manu reverendi patris  Francisci Testa virectoris Collegij Societatis Jesus civitatis Nari, subscriptam manu ill.s Don Hieronimi et reservatam penes eumdem patrem Rectorem et exinde per acta notarii Anibalis Musanti

«voluit dictus ill.s del Carretto Don Hieronimus et expresse mandavit quod post dies duos a die eius mortis praedicta scriptura seu apodixa vim et roborem habeat et sub dicta dispositione mortuus fuit sub die primo Maij V^ Ind. 1622.

«Vigore cuius pèer M.R.C. fuerunt confirmati tutores ill.s D. Beatrix del Carretto et de XXliis  vidua relicta dicti quondam Ill.is D. Hieronimi et U.J.D. D. Vincentius del Carretto dicti don Joannis, moderni comitis pro ut patet per cedulam receptam penes acta M.R.C. sub die 23 Julii V^ Ind. 1622 et inventarii facti per dictos tutores in actis Anibalis Musanti Panormi die 3 septembris VI^ ind. 1622

«et dictus ill.s don Hieronimus successit ut unicus filius ab intestato ob mortem quondam ill.s D. Joannis del Carretto Senioris eius olim patris, vigore inventarii hereditatis facti in actis notarij Pauli Mulé Panormi die 7 Maij 6^ ind. 1608

«quod feudum fuit venditum dicto Ill.i Don Joanni Seniori per don Aleranum et d. Joseph del Carretto fratres per acta notarii Francisci de Alfano Panormi die 17 septembris 13 Ind. 1599.

«In quo feudo dicti D. Aleramus et d. Joseph fratres successerunt ob mortem D. Beatricis del Carretto  eorum sororis pro ut patet per acta notarii Joannis Carbone die 12 septembris 1592.

«Quod feudum fuit dotatum dictae D. Beatrici per D. Elisabettam del Carretto, eius matrem, per acta notarii Michaelis de Avanzato sub die XJ Augusti primae ind. 1588.

«Quod feudum fuit venditum per donnam Beatricem Russo et del Caarretto baronissam dictae terrae Ceramis et dominum quondam ill.m D. Joannem del Carretto Seniorem Jug. vigore actus venditionis in actis notarij Francisci Palmeri die 6 octobris 2^ ind. 1573.

«Quae Donna Elisabetta coepit investituram de dicto feudo ut patet per investituram sub die X Aprilis V^ ind. 1577. 

«Et quia de successionibus praedictis non apparunt captae nullae investiturae per supradictos del Carretto, pout erant obligati juxta formam capitulorum Regni et Regius Fiscus praetendebat penas tangentes R.C., fuit itaque supplicatum E.S. ex parte sub die 19 Augusti 9^ ind. 1641  quod, stante relatione magistri Collectoris fuisset provisum quod si solverit uncias centum vinginti infra dies octo non molestetur.

«Ita quod, cum infra mensem capiat investituram, pro ut apparet penes acta Tribunalis R.P., sicuti de procuratione dicti ill.is D. Joannis contracta per supradictum actum, quam quidem investituram, actus predictos et procurationes supra calendatas, pro curiae cautela, vidit et recognovit spectabilis vir Regius Consiliarius dilectus, U.J.D. D. Jacobus Corsettus .

«Constitutus procurator, in presentia Ill.mi et Ex.mi Domini D. Alfonsi-Henriquez de Caprera Comitis Comitatus Mohac et Proregis et G.C. huius Siciliae Regni, pro feudo praedicto, ob venditionem et provisionem praedictam, praestitit atque fecit juramentum et homagium debìtae fidelitatis et vassallagij amnibus et ore commendatum, in forma debita et consueta, juxta sacrarum d. Regni constitutionum imperialium  continentiam et tenorem, in manibus et posse praefatae E.S. illud recipientis, nomine et parte S.C. et majestatis domini nostri Philippi quarti Hispanorum utriusque Siciliae, Hierusalem  etc. Regis invictissimi eiusque heredum et successorum in perpetuum, retentis et reservatis Regiae Curiae eis omnibus;

«quae in privilegio dicti feudi eidem Curiae reservantur, natura, tamen, et forma feudi in aliquo non mutata, servitio militari, juribus R.C. et alterius cuiuscumque semper salvis et illesis remanentibus et non aliter nec alio modo.

«Praesentibus ad hoc pro testibus Gaspare Bonsignore et Jo: Battista Magliolo  .. alijsque quam pluribus.

«In cuius rei testimonium praesens nota facta est loco investiturae, redapta et registrata in officiis Regni Siciliae Protonotarii, et Regiae Cancellariae juxta formam Capitulorum Regni, nullo tamen per praesentem notam generato prejudicio juribus Regiae Curiae tacite vel expresse sed illa semper illesa remaneant.

« - Don Juan de Granada Cons. - ... vidit Corsettus F. P.; Gaspare Guarneri  pro... vidit de Cavallariis, Reg. Coll.».


[6]) Non sappiamo molto sulle otto sorelle (e le due zie: Maria e Porzia) di Giovanni IV° del Carretto, ma abbastanza per escludere la fondatezza della pagina di Eugenio Napoleone Messana  (E.N. Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969, pag. 104) sulla saga familiare dei Savatteri in ordine al mirabolante matrimonio di Scipione Savatteri con Maria del Carretto con dotazione, in dispregio delle ferree leggi feudali dell’epoca, di un improbabile feudo a Gibillini.

E.N. Messana - come del resto Nicolò Tinebra Martorana, e in definitiva lo stesso Leonardo Sciascia - subiva, nel far storia, «la tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», per dirla con lo stesso Sciascia.

Nulla di male, sia chiaro. Basta tenerlo presente.

Ci riferiamo, per intenderci, a questa simpatica digressione di famiglia:

«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia unica del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto] aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo per la legge del maggiorasco vigente era destinato alla successione della contea.

«Le figlie erano entrambi ospiti della zia Marzia del Carretto, figlia di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al  1598, data della sua morte e vi sarebbero forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del padre, allarmato dell'insurrezione contro il nuovo pretore. In quell'occasione Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero ricondotte al castello sane e salve.

«La sorte arrise al milite Scipione Savatteri che sposò Maria ed ebbe in dote il feudo di Gibillini. Questo matrimonio diede inizio alla famiglia dei Savatteri di Racalmuto, che risulta essere la più nobile di tutte le altre.

«I Savatteri infatti discendono da Pable Zavatier, nobile francese al seguito del conte Ruggero [...]

«Non si hanno notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai nozze, si sa soltanto che lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l'Abbazia di Santa Chiara  ...».  

Stando al Villabianca (Sicilia Nobile),  l’abbadessa si chiamava Maria e non Marzia. Lo stesso marchese riporta le lapidi funeree delle due sorelle nei seguenti termini, dopo aver premesso che:

«Di esso [Giovanni, il padre del primo conte di Racalmuto] fu nobile prole GIROLAMO , che fu lo stipite della presente investitura,  ..., e le due femmine MARIA e PORZIA; la prima delle quali si vede sepolta nella Chiesa del Monastero di Santa Caterina di Palermo dentro un tumolo marmoreo adorno della seguente iscrizione:



MARIAE de CARRETTO Joannis Domini RAHALMUTI filiae antiquissima, et
praeclarissima SAXONIAE Ducum stirpe, et quadam animi probitate
excellenti foeminae, quae annum aetatis agens septimum se ad Divae
Catharinae Coenobium religiosissimum aggregavit vixitque singu-
lari probitatis exemplo itaque anno 1566 Coenobii Antistita dele-
cta familiam meliore vitae ratione informandam curavit, eiusdem
deinde Coenobii Templo, quod condere inceperat absoluto, vitam omni
laude cumulatam explevit D. PORTIA de CARRETO uxor D. Gasparis
de Barresio illustris vir carissimae sorori hoc amoris, et doloris
monumentum posuit. Vixit annos 70. Antistita annos 30. Obiit
anno 1598.



Scorgendosi la seconda cioè PORZIA testè avvisata dentro un altro tumolo, eretto nella Cappella di Nostra Signora della Grazia della Chiesa de' Padri di S. Cita di Palermo col seguente epitaffio:



Conditur hoc tumulo BARRESIS PORTIA, paris
CARRETTI illustris, candida progenies.
Vivit nobilitas, vivit post funera virtus.
Sic moriens Coeli gaudia laeta subit.
Obiit anno 1607 mense Julii die 25.






Accanto di questo tumolo se ne vede un altro appartanente ad essa casa CARRETTO, ove si legge:



CARRECTI genere et claro jacet orta Beatrix
virtutum ardenti lumine splendior.
Vixit cara viro moriens, coeloque recepta est,
Inde Beatricis nomen, et homen[sic, ma forse honorem n.d.r.] habet.
D. ARDENTIA ARCAN D. Betricis CARRETTOS PHILADELPHI olim Baro-
nissae matri suae suavissemae tumulum propriis expolitum la-
crymis moestissima

 

 

[F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore - Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - RAGALMUTO - pag. 203 Parte II Libro IV»

 

 

 

 

 La Marzia di N.E. Messana sembra non esistere.

 

Quanto a Scipione Savatteri, i registri della Matrice lo attestano verso la fine del ‘500, ma in termini poco nobiliari. 

 

Fu comunque un personaggio cospicuo; proveniva da Mussomeli e sposò tal Petra (o Pina o Petruzza). Dal 1588 al 1595, troviamo tra i battesimi diversi figli di tal Sipiuni Savatteri, senza orpelli nobiliari. Ecco gli estremi del suo matrimonio:



12/10/1586 -SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa  SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:  Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo.

 

 

Ma l’origine dai del Carretto da parte dei Savatteri è, a dire il vero, una revindica non nuova.

 

La sostenne sino alla frenesia tal “Giuseppe Savatteri  fu Gaspare di Racalmuto” in un processo celebratosi in Girgenti il 14 luglio 1876 [Cfr. Archivio Curia Vescovile Agrigento - Registro Vescovi 1902, pagg. 669 e segg.].

 

La causa verteva sulla pretesa del Savatteri di avere per sé il beneficio del Crocifisso, a suo avviso “usurpato dalle autorità ecclesiastiche di Racalmuto in pregiudizio della famiglia Lo Brutto, di cui il Savatteri proclamasi il maggiore dei discendenti”.

 

Persa la causa, il Savatteri si rivolse persino al Vaticano per far valere le sue ragioni. Perse ovviamente il suo tempo.

 

Presso la Matrice si trovano alcune carte processuali, significative per la storia dei benefici ecclesiastici di Racalmuto.  Si legga, ad esempio, la «Comparsa conclusionale dei Signori ben. d. Calogero Matrona e consorti convenuti - contro: i conjugi d. Giuseppe Savitteri attore e donna Concetta Matrona, interveniente forzosa - e contro il signor cav. Vincenzo Ferlazzo Intendente di Finanza - dell’avv. Giuseppe De Luca (ma, crediamo,  con l’assistenza dell’Arciprete Tirone).




[7])  Conferma questa data, oltre il citato atto della Matrice di Racalmuto, il già trascritto documento dell’Archivio di Stato di Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie Investiture - Busta n.° 141-  Anni 1636-48 - f. 118 da cui si desume che Girolamo del Carretto «.. mortuus fuit sub die primo Maij 1622».

Si aggiunge che in forza delle rituali disposizioni «... per M.R.C. fuerunt confirmati tutores ill. D. Beatrix del Carretto et de XXliis  vidua relicta dicti quondam Ill.is D. Hieronimi et U.J.D. D. Vincentius del Carretto».


[8]) Diari della città di Palermo, a cura di Gioacchino di Marzo - Palermo 1869 - “Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia” cavate da un libro scritto da Valerio Rosso dottor in medicina, della città di Corleone - pag. 283.

[9]) questo personaggio riscuote l’incondizionato plauso del Garufi (op. cit. pag. 280 e segg.).

In  contrasto con il  potente inquisitore Ludovico Paramo, capace di sottigliezze e fortemente causidico,  gli seppe «opporre sempre la forza dell’argomentazione giuridica e talvolta anche l’appoggio della forza materiale».

Presso i Viceré spagnoli, «sapeva a tempo opportuno insinuarsi, mostrar loro come gl’Inquisitori cercassero di abbassarne l’autorità e renderseli ligi per ottenere i rimedi ch’egli sapeva con acume trarre dalla copiosa serie di costituzioni e prammatiche.».

Il Rao era stato, nel 1590, dall’Albadalista promosso  da Avvocato Fiscale a Presidente della Gran Corte (Garufi, op. cit. pag. 257) e ciò «a dispetto degl’Inquisitori che più d’una volta  gli  [avevano fulminato] la scomunica, sin dall’80».

In tal modo «ebbe fra le mani quasi tutta l’amministrazione civile e penale del regno».

Lo troveremo ancora in auge nell’inchiesta per l’uccisione nel 1608 di Giovanni del Carretto, anche se dopo verrà chiamato a discolparsi (vedi nota, supra).

Quanto all’Albadalista, costui,  in contrasto con i nobili in Parlamento, cercò che venisse loro vietato «d’ascriversi al S. Officio» (Garufi, op. cit. pag. 280).

I nobili furono costretti ad assecondare quelle esigenze « soprattutto  per evitare che nel Parlamento, cercando di colpire direttamente il Viceré, si finisse per dare, anche indirettamente, un voto di biasimo alla Corona.» (op. cit. pag. 280).

In tale contesto si sa che «il 2 marzo ‘91 Filippo II ordinava a Madrid che non s’ammettessero nel foro del  S. Officio “ ni Titulares ni Barones deste Reyno” che tengano baronie» (ibidem, pag. 280).

Come abbiamo visto, Giovanni del Carretto, riesce egualmente a farla franca e ad ottenere il foro dell’Inquisizione, ma con tanta difficoltà, tante umiliazioni e molti patemi d’animo.

[10]) Leonardo Sciascia - Morte dell’Inquisitore - Bari 1982, pag. 183 - la pensa invero alquanto diversamente.

Precisa:  «questo stesso Giovanni IV  troviamo nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche se il Paramo gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in prigione.»


[11]) Op. cit. - Diario della città di Palermo da’ mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - vol. I, pag.  136.          
[12]) ARCHIVIO DI STATO IN PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSI D’INVESTITURE - BUSTA N. 1555 -  PROCESSO N. 3542 - FEUDO: CONTEA TERRA E CASTELLO DI RACALMUTO -
COGNOME E NOME DELL’INVESTITO: DEL  CARRETTO FRANCESCO [ma trattasi di Giovanni: errore dell’archivista palermitano di questo secolo] - ANNO: 1600

[13]) ARCHIVIO DI STATO IN PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSID’INVESTITURE - BUSTA N. 1517 - PROCESSO N. 2554 - FEUDO: TERRA CON CASTELLO DI RACALMUTO - COGNOME E NOME DELL’INVESTITO: DE CARRECTIS GIROLAMO - ANNO: 1562.

Giovanni del Carretto era morto nel gennaio del 1560 [invero un qualche dubbio esiste: la documentazione disponibile potrebbe contenere qualche errore, ragion per cui la data andrebbe spostata all’anno dopo, 1561 se, come sembra, l’indizione è la IV] come emerge dal seguente passo:


[ibidem] « ... pertinente tenore capituli dicti testamenti facti in actis notarii Jacobi Damiani de dicta terra Racalmuti die ij^ mensis januarij tertiae ind. 1560, [secondo copia del notaio Amella tratta da un atto del detto Damiani]».

Sembra certo, peraltro,  che Girolamo del Carretto prenda possesso di Racalmuto «Die VIII Januarii tertiae ind. 1560» [ibidem].

Codesto notaio Giacomo Damiani ci ricorda il notaio finito nelle grinfie dell’Inquisizione di cui parlano Leonardo Sciascia ed Eugenio Messana. 

Stando alle date, sembra proprio quello dell’Atto di Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile 1563 (L. Sciascia - Morte dell’Inquisitore - op. cit. pag. 184).

Quanto alla chiesa di S. Francesco, essa, dunque,  era già eretta nel 1560 (o comunque nel 1561).  Da rettificare il Tinebra Martorana (pag. 141) che vuole:  «Nell’anno 1566 Giovanni del Carretto legò una certa somma da adoperarsi per i restauri degli edifizî del Convento».

Incorre in un errore di stampa, come può desumersi da pag. 199 dello stesso volume. La fonte è comunque questa: ALMAE SICILIENSIS PROVINCIAE - ORDINIS MINORUM CONVENTUALIUM S.FRANCISCI - a patre magistro Philippo CAGLIOLA - a MILITA -  "Sicilia francescana secoli XIII-XVIII a cura di Filippo ROTOLO" Venetiis, MDCXLIV - Officina di Studi Medievvali - Via del Parlamento, 32 - 90133 PALERMO - 1984. [Petrus Rodulfus THOSSINIANUS, Episcopus Senegallensis ordinis nostri, in Historia Serafica - v. per RACHALMUTUM lib. 2] [p. 118]

LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina]. Suae fondationis certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis  pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus 1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesiae reparatione legatam asserit, anno 1560.

Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, in loco iuxta arcem a Friderico Claramontano constructam, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata. »

[14]) Archivio Segreto Vaticano - SACRA CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI  - Anno 1599 - pos. C-L      

[15]) Ciò che alla morte del prelato ricade nel dominio del Governo durante la sede vacante:  spoglio.

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