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martedì 7 luglio 2015

Racalmuto in greco

[Articoletto n.° 10]
RACALMUTO SOTTO GLI ARABI
di Calogero Taverna
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che caduta Agrigento attorno all’ 828 in mano dei Musulmani, anche per il tradimento del greco Eufemio, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio di Racalmuto finì sotto il dominio arabo. Di certo, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘run’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli che quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti archeologici delle zone del Giudeo risalgono proprio a quei secoli arabi, anche se sono attestazioni cristiane o ebree oppure appunto per questo..
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i Run (i Cristiani) ignoravano. Dai Run, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi,  introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag.  305-306: dal Kitab 'al Falah (Libro dell'Agricoltura) di Ibn 'al Awwam). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto.
Un documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste nostre ipotesi.

In effetti, in quel documento greco  del  1178 abbiamo il  primo attestato storico sul toponimo di Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande Salvatore CUSA (cfr. I di­plomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in   RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 ta­rì. A venderlo, nel settembre di quell'anno, fu tale Pietro di Ni­cola GUDELO, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.

Il toponimo  Rachal Chammoùt ( ammu) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al lontano monastero di S. MARIA di GADERA, sito nei pressi di Polizzi Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più,  subito l'onta  dell'assoggettamento alle decime del Vescovo di Agrigento, di cui per volontà dell'invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano subalterno.

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