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sabato 25 luglio 2015

Storia non conformista di Pescorocchiano


Per una storia del Castrum di Pescorocchiano

di CALOGERO TAVERNA

Pescorocchiano

Se noi, venuti da fuori ed incantati da questa aprica “rocca”, siam curiosi di sapere qualcosa sulla storia di Pescorocchiano e consultiamo Internet, poco o nulla riusciamo a sapere: tolta sorse la segnalazione i una interessante saga delle castagne, restiamo a bocca asciutta. Ecco perché questa paginetta di una visita pastorale del 1574 è cosa davvero ghiotta.

Un vescovo, arcigno metodico inflessibile, mons. Pietro Camaiani. Preso disacro furore nei prodromi della riforma tridentina, ecco ad esempio come folgora il prevosto di Pescorochiano: frater Franciscus Antonius de Arce Ranisii [ordinis S. Francisci] imperitus ac ineptus in confessionibus audienis, quare inhibitum sibi fuit. – INEPTUS. Il francescano, dunque, era fin troppo birichino specie quando a confessarsi erano le donne. Giudicato addirittura INETTO lo si interdice dalla somministrazione del sacramento della Penitenza. Per il resto, inesperto e carente, il vescovo Camaiani lo stronca con un aggettivo dequalificante: INEPTUS, come dire INSUFFICIENTE, come nelle pagelline dei miei tempi della scuola elementare.

Ma chi era questo grifagno visitatore apostolico? In fondo una lunga nota su di lui lui per chi abbia ben più di una semplice curiosità storica.

CAMAIANI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

di Gerhard Rill

CAMAIANI, Pietro. - Di famiglia patrizia, nacque ad Arezzo il 1º giugno 1519. Della sua immediata parentela sono noti i fratelli Onofrio e Bernardino, imprigionato nel 1548 nel carcere romano di Tor di Nona. Nulla sappiamo dei suoi anni giovanili e della sua formazione culturale; poiché in seguito gli venne rinfacciata la sua scarsa conoscenza del latino, possiamo assumere che fosse privo di una solida formazione umanistica. Entrato nel 1539 al servizio di Cosimo I de' Medici, divenne nel 1545 segretario del Consiglio di stato col compito precipuo di sottoporre al segretario ducale Cristiano Pagni le relazioni degli ambasciatori.

Già nel maggio 1545 cioè ancor prima dell'inizio della prima fase del concilio, Cosimo aveva inviato a Trento suoi agenti perché gli riferissero gli eventi della sede conciliare. Inviato dal duca, il C. giunse a Trento nel febbraio 1546, inizialmente era stato incaricato di proseguire per Regensburg, ove doveva assistere alle discussioni tra cattolici e protestanti, ma apparentemente questa missione fu revocata, ed egli rimase a Trento quale agente fiorentino, cioè relatore e non rappresentante ufficiale del duca. I rapporti che inviò regolarmente dalla metà di febbraio si distinguono per precisione e sicurezza di giudizio oltre che per l'esattezza delle informazioni, che egli doveva in primo luogo alla sua dimestichezza con Angelo Massarelli, segretario del concilio. Quando questo decise, l'11 marzo 1547, di trasferirsi a Bologna, il C. rimase inizialmente a Trento con la minoranza imperiale, ma ben presto riconobbe l'inutilità di una ulteriore resistenza, per cui Cosimo, alla fine di maggio, lo inviò su sua richiesta a Bologna. Qui conobbe il cardinale Giovanni Maria Del Monte, successivamente papa Giulio III e protettore del Camaiani. La definitiva partenza del C. da Bologna, il 4 giugno 1549, offrì il pretesto al Del Monte per riferire a Roma sull'inutilità di una prosecuzione del concilio. Nel settembre 1549 il C. ritornò ancora a Bologna, ma era solo di passaggio per Venezia, ove fu per breve tempo "secretarius et agens" del duca Cosimo.

Giulio III affidò ripetutamente al C. missioni di rilievo politico, anzitutto in connessione col conflitto parmense. Quando Ottavio Farnese, che aveva riconosciuto la sovranità feudale del papa su Parma, cercò di ottenere in Francia un appoggio contro le minacce sue e dell'imperatore, Giulio III affidò al C. la missione di dissuadere il suo vassallo dal ricercare tale alleanza.

Le istruzioni impartite al C. il 16 febbr. 1551 stabilivano che l'impegno scritto del duca a revocare l'alleanza con la Francia avrebbe dovuto essere controfirmato dai suoi fratelli, i cardinali Alessandro e Ranuccio. Ottavio dichiarò al C. che non poteva revocare gli impegni contratti senza il consenso del re di Francia, e anche tre brevi in data 27 febbraio indirizzati a Ottavio, Paolo Vitelli e Ranuccio Farnese rimasero senza effetto, per cui il C. ritornò a Roma e l'8 marzo fece il suo rapporto.

Dalla fine di marzo ai primi di aprile il C. si recò nuovamente a Siena presso l'oratore imperiale Diego de Mendoza per la questione parmense, e con lui ritornò a Roma per colloqui con il papa. Dalla fine di maggio agli inizi di giugno soggiomò a Bologna nella veste di commissario pontificio, per raccogliere informazioni sulla situazione finanziaria e gli apprestamenti difensivi della città, oltre che sulla situazione militare di Parma. A metà giugno compì un altro viaggio informativo a Urbino, da dove inviò dettagliati rapporti sulle intenzioni dei Farnesi e del duca di Urbino, e sulla disposizione degli animi a Fano, Rimini ed Ancona. Quale plenipotenziario pontificio concluse ai primi di luglio col comandante delle truppe imperiali Ferrante Gonzaga un accordo inteso a coordinare le iniziative degli alleati contro Parma e Mirandola. Il 25 agosto Giulio III nominò il C. - tornato a Roma l'8 agosto - "cubicularius secretus" e "continuus commensalis", dotandolo anche di benefici a Firenze, Fiesole e Arezzo.

Il papa, che aveva inviato ai primi di settembre 1551 il cardinale Verallo a trattare la questione parmense con Enrico II di Francia, decise di inviare presso l'imperatore un nunzio straordinario che lo tenesse al corrente delle trattative, e destinò per questa missione il cardinale Rodolfo Pio da Carpi e infine, quando questi si ammalò, il Camaiani. Dato il modesto rango del C. - non era neppure vescovo - questa designazione attesta la particolare considerazione in cui egli era tenuto dal pontefice.

In base alle istruzioni in data 10 ottobre, il C. doveva addurre le ristrettezze finanziarie e l'amor di pace del papa a giustificazione delle trattative con la Francia, ed assicurare contemporaneamente l'imperatore che Roma non avrebbe concluso una pace separata. Inoltre, nonostante le trattative condotte dal Verallo, egli doveva concordare le ulteriori misure da intraprendere contro Parma.

Il C. passò per Firenze, ove conferì con Cosimo, e giunse ad Augusta il 21 ottobre; il giorno successivo accompagnò Carlo V a Monaco; ritornò a Roma il 5 novembre. La sua missione riuscì solo parzialmente, poiché l'imperatore, mentre acconsentiva a procedere energicamente contro Parma, si dichiarava ora disposto a pagare soltanto la metà dei 100.000 scudi precedentemente promessi. Pur continuando le trattative con Enrico II, Giulio III permaneva scettico nei confronti della Francia e il 21 dicembre inviava di nuovo il C. presso la corte imperiale, con l'ordine di attendere colà i risultati della missione Verallo e, se necessario, concordare un piano di azioni contro Parma. Prima della sua partenza, il C. ottenne l'ulteriore incarico di trattenere a Trento gli elettori di Magonza e di Treviri, che volevano partirne a causa dei disordini in Germania; era anche latore di brevi pontifici che dovevano facilitargli il compito. Assolto con successo questo incarico straordinario il 30 dicembre, giunse ad Innsburck il 1º genn. 1552, accolto amichevolmente dal nunzio ordinario alla corte imperiale, Pietro Bertano, presso il quale fissò la sua dimora. Ma la loro collaborazione, inizialmente buona, diede ben presto luogo a divergenze.

Il C., abituato ad agire autonomamente, vedeva nel cauto e malaticcio Bertano un ostacolo alla sua libertà d'azione; inoltre voleva avere al più presto una propria dimora e domestici (li ebbe solo alla fine di febbraio). Finalmente trattò con l'imperatore e col Granvelle all'insaputa del Bertano - cui tenne celata persino la chiave della cifra - sicché il Bertano era costretto nel corso delle trattative a simulare di fronte agli interlocutori di essere a conoscenza di quanto il C. gli aveva consapevolmente nascosto. Il modesto Bertano ne trasse le conseguenze, e chiese il proprio richiamo.Il 10 febbr. 1552 il C. veniva nominato nunzio ordinario e, contemporaneamente, vescovo di Fiesole; il 26 marzo il Bertano partì da Innsbruck.

Il C. aveva ottenuto così la desiderata autonomia, ma si era suscitato anche molte inimicizie. Persino diplomatici di solito divisi da aspro antagonismo, quali il rappresentante di Cosimo alla corte imperiale Piero Filippo Pandolfini e l'ambasciatore di Ferrara Ercole Rangoni, furono concordi nel giudicarlo: il C. ambiva soprattutto a conquistarsi il maggior prestigio possibile nel minor tempo possibile; epperò era "huomo senza lettere et poco pratico de' negoti"; parlava e scriveva molto, ma in un latino scadente, il che gli era valso il nomignolo derisorio di "il dicevolo". Con questo giudizio concordava il Granvelle, che lo definiva vanitoso, incostante e verboso.

Questi giudizi sono confermati in parte dai rapporti del Camaiani. Il nunzio vi criticava violentemente Carlo V e la sua corte; né dall'uno né dall'altra v'era da aspettarsi aiuto o comprensione perché essi, mancando di discernimento politico, badavano soltanto al vantaggio immediato. L'imperatore desiderava ardentemente la pace universale, perla quale aveva bisogno del papa, e pertanto non era necessario che questi si sforzasse di adempiere ai propri doveri di alleato. Conseguentemente il C. consigliava che la Curia, pur senza rescindere del tutto "il filo dell'amicitia" con l'imperatore, non si impegnasse in iniziative belliche e rimanesse in contatto con la Francia almeno tanto quanto bastasse per non porre in pericolo lo Stato della Chiesa e l'obbedienza della Chiesa francese. A quanto sembra il C. ebbe l'imprudenza di esternare le sue opinioni anche ad altri. Carlo V, quando venne a conoscenza della sua asserzione che l'elettore di Sassonia avrebbe violato i patti qualora si fosse accordato con l'imperatore, biasimò aspramente il nunzio, all'inizio di maggio 1552, e il C. chiese il proprio richiamo. Ma Giulio III rigettò la sua richiesta, e gli espresse nuovamente la propria fiducia.

Il C. pertanto rimase ancora alla corte imperiale, che seguì nella sua fuga dinanzi a Maurizio di Sassonia da Innsbruck, fino a Strasburgo. Qui, come gli altri ambasciatori, si separò da Carlo V che si recava in Lorena, e si stabilì a Spira (settembre 1552). I suoi rapporti avevano corroborato l'opinione del papa che l'imperatore fosse stanco della guerra e fosse perciò facile convincerlo a una azione di pace. Conseguentemente tanto più grande fu la delusione quando il 7 ottobre a Landau l'imperatore oppose un reciso rifiuto al C. che era latore di una proposta in tal senso.

Anche dopo questo insuccesso il C. consigliò di ripetere il tentativo entro due-tre mesi, ché l'imperatore - secondo lui vecchio, malato, avaro e stanco della guerra - e la Francia si ostinavano un contro l'altro come cani intorno ad un osso e tutto ciò avveniva probabilmente per volere di Dio, che così allontanava dalla Chiesa una seria minaccia. Che il papa aspettasse perciò l'ora in cui avrebbe potuto inserirsi, invocato terzo, tra i due esausti contendenti. Questo consiglio del C. peccava contemporaneamente di cinismo e utopia, in quanto non prendeva in considerazione né la missione della Chiesa né la situazione politico militare in Italia che non permetteva al Papato di assumere un ruolo di spettatore.

Dal gennaio ai primi di settembre 1553 il C. rimase a Bruxelles con gli altri ambasciatori accreditati alla corte imperiale. Quando venne a sapere del progettato invio di un cardinal legato, prima cercò di impedirlo, poi sperò che il papa scegliesse il giovane ed inesperto cardinal nepote Innocenzo Del Monte. Finalmente non fu neppure avvisato dell'invio del cardinale Girolamo Dandino, che giunse a Bruxelles nel maggio del 1553. Se ne può dedurre una diminuzione del prestigio del C. in Curia; in effetti egli, offeso, chiese il proprio richiamo.

Il Dandino si lamentava della sua scontrosa riservatezza nei rapporti personali, e della scarsa disposizione del C. alla collaborazione ed alla cortesia. Contrastava con questo e con i precedenti giudizi negativi il parere di Girolamo Seripando, che ebbe frequenti rapporti col C. a Bruxelles nell'estate 1553. Egli, come il duca Cosimo, lo stimava "propter ingenii acumen, fidem, diligentiam ac dexteritatem", e, come i padri conciliari a Trento prima di lui, per la sua intelligenza superiore e per i suoi modi piacevoli. Il contrasto col Dandino si concluse formalmente con una rappacificazione, ma in agosto il C. fu autorizzato a intraprendere il viaggio di ritorno, e il 2 settembre partiva da Bruxelles.

Il 12 ott. 1554 il C. fu nominato alla nunziatura di Napoli, nella quale succedeva al collettore pontificio Fabio Cupellato. Questa designazione ad una nunziatura di scarsa importanza, denotava una nuova diminuzione del prestigio del Camaiani. In realtà la sua attività a Napoli si ridusse alle funzioni di rappresentanza e ad alcuni interventi nei contrasti relativi a questioni di proprietà tra l'abbazia di Passitano e gli abitanti di Rieti e Civita Ducale. Con la morte di Giulio III, il 23 marzo 1555, il C. perdette il suo ultimo sostegno in Curia, come ebbe a riconoscere anche il Seripando, che gli scrisse una lunga lettera consolatoria. Richiamato in agosto, scomparve per alcuni anni dalla scena diplomatica.

Il 6 ott. 1561 il C. giungeva a Trento per partecipare alla terza fase del concilio. Cosimo, pur non conferendogli alcun incarico ufficiale, desiderava ricevere regolarmente rapporti dal C. che questi in effetti gli inviò fino alla fine di marzo 1562. Questo incarico venne poi assolto dall'inviato ufficiale del duca presso il concilio, Giovanni Battista Strozzi, che giunse a Trento in febbraio e fu subito coinvolto in una disputa di precedenze con l'inviato svizzero; il C. sostenne energicamente le pretese fiorentine. Anche ora egli appariva sempre ben informato e intervenne più volte nei dibattiti sull'Indice, sull'eucarestia, sul matrimonio dei preti. In questioni concernenti la Riforma, si espresse in favore della visita episcopale a spese del vescovo, per regolari sinodi diocesani, per l'obbligo ai parroci dell'esegesi biblica nei giorni festivi; sulla questione della residenza si schierò col partito del "ius divinum", ammonì contro decisioni precipitate sulla questione della concessione del calice ai laici e prese in considerazione un regolamento speciale per l'Ungheria e la Boemia.

Quando il cardinale di Lorena assunse la guida dell'opposizione, gli si unì anche un gruppo di vescovi italiani, tra cui il Camaiani. All'invito rivoltogli da Cosimo assieme a Spinello Benci vescovo di Montepulciano, di mutare tale atteggiamento, il C. rispose nel gennaio 1563 con una dichiarazione coraggiosa ma poco diplomatica: egli non ammetteva ingerenze in questioni puramente ecclesiastiche e, poiché si occupava di questioni conciliari da ben diciassette anni, era capace di decidere autonomamente secondo la propria coscienza. Nell'estate 1563 avrebbe dovuto comparire in un processo dinanzi al duca ma rifiutò di assentarsi dal concilio, benché il papa fosse disposto a dispensarlo. Caduto in disgrazia presso il duca, benché il papa avesse dichiarato, nell'ottobre 1563, a lui e agli altri vescovi dell'opposizione che non avrebbe tenuto conto nella loro carriera del loro atteggiamento, il C. non fu più chiamato, durante il pontificato di Pio IV, ad assolvere incarichi diplomatici.Finalmente Pio V gli affidò di nuovo una delicata missione. Richiamato a Roma nel settembre 1566, il C. ripartiva il 4 ottobre nunzio straordinario presso Filippo II. Le sue istruzioni contemplavano tre punti: doveva convincere il re a recarsi personalmente nei Paesi Bassi. doveva ottenere il trasferimento a Roma di Bartolomeo Carranza, l'arcivescovo di Toledo da anni prigioniero dell'Inquisizione spagnola; doveva infine persuadere il re che l'indiscriminato esercizio della monarchia sicula (le prerogative della Corona spagnola a Napoli ed in Sicilia) determinava la condizione di abbandono in cui versava il clero.

Il 7 ott. 1566, mentre viaggiava alla volta della Spagna, il C. fu nominato vescovo di Ascoli Piceno, ma con le entrate della mensa episcopale ridotte a 1.000 ducati annui.

Nel frattempo l'ambasciatore spagnolo a Roma aveva avvertito Filippo II di diffidare del C.; egli dubitava che il re ne sarebbe rimasto contento, comunque Carlo V non lo era stato. Filippo manifestò sdegno per la missione che sembrava mettere in dubbio la sua precedente promessa di comparire personalmente nei Paesi Bassi. Vari colloqui preliminari condotti insieme col nunzio ordinario Giovanni Battista Castagna e alcune argomentazioni presentate per iscritto condussero alla fine a un parziale successo: l'impegno vincolante di consegnare il Carranza (la consegna ebbe effettivamente luogo alla fine di aprile 1567). Sugli altri punti delle istruzioni il C. non riuscì ad ottenere alcun risultato. Egli si adoperò anche per la proibizione delle corride in Spagna. Il 12 febbr. 1567 fu richiamato a Roma.

Al suo arrivo nella sua nuova diocesi il C. trovò un clero prevalentemente simoniaco; non pochi erano coloro che si erano anche macchiati di gravi delitti. Egli si dedicò in primo luogo a mutare questa situazione, e ad attuare i decreti conciliari. Il 28 giugno 1567 annunziava la riforma del clero mediante un decreto affisso alla porta del duomo; seguirono le prime visite pastorali, nel luglio del 1567 e del 1568. I successi ottenuti dal C. nella sua diocesi convinsero Pio V, e poi Gregorio XIII, ad affidargli ripetutamente, nel periodo 1571-74, visite apostoliche, soprattutto in Umbria (1573-74). Il C. ricorse a norme particolarmente severe durante una visita della sua diocesi iniziata il 23 genn. 1575: controlli dettagliati dell'amministrazione e dell'edilizia del duomo; emanazione (25 febbraio) di rigorose disposizioni per la riforma del clero. Contemporaneamente alle visite, il C. aveva dato inizio alla regolare celebrazione dei sinodi. Il primo sinodo diocesano ebbe luogo il 22apr. 1568, e i risultati furono fissati nelle Constitutiones Synodales S. Ecclesiae Asculanae... (Romae 1568).Seguirono altri sinodi nel 1571 e 1572.

Particolarmente meritevole la fondazione, all'inizio del 1571, del seminario, con impiego di benefici vacanti e anche di proprie risorse. Negli ultimi anni il C. tentò anche di influire sull'amministrazione cittadina, ma la morte lo colse prima che egli potesse vedere i risultati di questa come di altre sue iniziative, come per esempio l'introduzione in Ascoli dei cappuccini, perseguita sin dall'anno 1567.

Morì ad Ascoli il 27 luglio 1579, e fu sepolto nella chiesa di S.Biagio, da lui fatta rinnovare, e presso la quale aveva istituito una Confraternita "Corporis Christi".

Fonti e Bibl.: Correspondance de Philippe II sur les affaires des Pays-Bas, a cura di L. Gachard, I, Bruxelles 1848, p. 487; G. Frascarelli, Monumenti lapidarii delle chiese esistenti nella città di Ascoli nel Piceno, Ascoli 1853, p. 24; Briefe und Akten zur Geschichte des sechzehnten Jahrhunderts mit bes. Rücksicht auf Bayerns Fürstrnhaus, a c. di A. v. Druffel, I, München 1873, pp. 582 s., 777; II, ibid. 1880, pp. 44 s., 49, 82, 167, 266, 782; III, 1, ibid. 1875, pp. 238-256; Concilium Tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, I, Friburgi Brisgoviae 1901, passim;II, ibid. 1911, passim, III, 1, ibid. 1931, p. 12; V, ibid. 1911, p. XVI; VIII, ibid. 1919, passim;IX, ibid. 1924, passim;X, ibid. 1916, pp. 380, 435, 450, 497;XI, ibid 1937, passim; Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 1, XII, a C. di G. Kupke, Berlin 1901, passim;XIII, a c. di H. Lutz, Ubingen. 1959, passim;XIV, a cura di H. Lutz, ibid. 1971, p. XVII, 7; Die röm. Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV. Aktenstücke zur Gesch. des Konzils von Trient, a C. di J. Šusta, III, Wien 1911, pp. 156 s.; IV, ibid. 1914, pp. 96, 98, 340; Corresp. diplom. entro España y la S. Sede durante el pontif. de S. Pio V, a C. di L. Serrano, I, Madrid 1914, passim;II, ibid. 1914, pp. XLV, 7 s., 37 s., 81, 88; Hieronymi Seripandi "Diarium de vita sua", a C. di D. Gutiérrez, in Analecta Augustiniana, XXVI (1963), pp. 96, 98, 100, 107 ss.; Il carteggio degli ambasciatori e degli informatori medicei da Trento nella terza fase del Concilio, a C. di A. d'Addario, in Arch. stor. ital., CXXII (1964), pp. 14, 17-70, 74-81, 83-88, 91-97, F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, I, Venetiis 1717, col. 472; III, ibid. 1718, col. 264;G. I. Ciannavei, Compendio di memorie istoriche spett. alle chiese parrocchiali della città di Ascoli, Ascoli 1797, pp. 11 s.; G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia, VII, 2, Venezia 1848, pp. 773 s.; L. Gachard, Don Carlos et Philippo II, II, Bruxelles 1863, p. 372;Id., Les archives du Vatican, Bruxelles 1873, pp. 55 s.; Ch. Ruelens, Notes sur les bibliothèques de Milan, Rome, Florence, in Bull. de la Comm. [belge] royale d'histoire, s. 3, IX (1866-67), pp. 245 s.; G. de Leva, La guerra di Papa Giulio III contro Ottavio Farnese, in Riv. stor. ital., I (1884), pp. 663 s.; Id., Storia documentata di Carlo V in correlazione all'Italia, V, Bologna 1894, pp. 197s., 214 ss.; G. Zippel, Una questione di precedenza al concilio di Trento , Firenze 1890;A. Pieper, Die päpstlichen Legaten und Nuntien in Deutschland, Frankreich und Spanien seit der Mitte des sechzehnten Jakhunderts, I, Münster W. 1897, passim;L. v. Pastor, Geschichte der Päpste, VI, Freiburg i.B. 1913, pp. 71 s., 101 s., 104;VIII, ibid. 1920, pp. 152, 286-89, 345 ss.; IX, ibid. 1923, p. 59; G. v. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1923, pp. 119, 196;B. de Meester, Le Saint-Siège et les troubles des Pays-Bas, 1566-1579, in Recueil de travaux publ. par les membres des conférences d'histoire et philologie. Louvain, s. 2, XXVIII (1934), pp. 29-34;H. Jedin, Girolamo Seripando. Sein Leben und Denken imGeisteskampf des 16. Jahrunderts, Würzburg 1937, I, pp. 477, 483; II, pp. 33, 36 ss., 41 ss., 304, 595-602;Id., La politica conciliare di Cosimo I, in Rivista storica italiana, LXII (1950), pp. 345-48, 350-52, 354-57, 484 s.; Id., Geschichte des Konzils von Trient, II, Freiburg 1957, pp. 75, 415, 440, 461, 518, 529; III, Freiburg-Basel-Wien 1950, passim;Id., in Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg i.B. 1958, col. 898; C. Tihon, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XI, Paris 1949, coll. 504-509; M. Marseletto, in Enc. Catt., III, Città del Vaticano 1949, col. 420; G. Fabiani, Sinodi e visite pastorali ad Ascoli dopo il concilio di Trento, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, VI (1952), pp. 265-279; Id., Ascolinel Cinquecento, I, AscoliPiceno 1957, ad Ind.;P. Villani, Origine e carattere della nunziatura di Napoli (1523-1569), in Annuario dell'Ist. stor. ital. per l'età moderna e contemporanea, IX-X (1958), pp. 315 s., 411-422; H. Lutz, Christianitas afflicta. Europa, das Reich und die päpstliche Politik im Niedergang der Hegemonie Kaiser Karls V. (1552-1556), Göttingen 1964, ad Ind.;D. Gutiérrez, Testi e note su l'ultimo quadriennio del generalato di Seripando, in Analecta Augustiniana, XXVIII (1965), pp. 361, 379-82.




Il sullodato vescovo visitatore, appena giunto “a lu Pescu”, viene subito attratto da un rudere: sono i resti della chiesuola dedicata a S. Massimo e S. Pietro. In tempi remotissimi chissà chi (ma certo un facoltoso) aveva eretto quel piccolo tempio per farmi recitare un paio di messe all’anno per la salvezza dell’anima sua. L’aveva dotata con tre salme di frumento annue. Si trattava di un non cospicuo beneficio perpetuo che nelle carte del vescovo inquisitore risulta un paio di simplex beneficium (simplicia beneficia, nel gergo del Camaiani). Il diruto tempietto del “territorio Pesculi”, va ora abbandonato ed i benefici vanno trasferiti “in ecclesia S. Andree, parocchialem intus dictum castrum Pesculi”. Ma qui va eretto un altare dedicato ai predetti S. Massimo e San Pietro. Esiste ancora quest’ara?

Quanto alla demolizione della chiesetta, per il vescovo va eretta una “crux lapidea”, nella forma ora imposta dal Concilio di Trento. Esiste ancora questa croce in pietra? dove è (o era) collocata”? Non sono uzzoli archeologici, ma voglia di far emergere da tali brume le testimonianze di questa nostra simpatica (ed obliata, almeno storicamente) cittadina

Si affaccia così il rettore parroco, un francescano dai costumi non proprio esemplari: il visitatore lochiama con nome e cognome anche se francescano: d. Joannes Antonus Petronius. Fruisce dei citati benefici (edi quelli più congrui, come vedremo). Da ventidue anni gestisce questo lembo del Cicolano, di qua e di là del fiume. Lo ha legittimato con tanto di bolla autorizzatoria il vescovo di Rieti del tempo, il 7 novembre del 1548.



Pescorocchiano vien chiamato molto più semplicemente (e per noi più simpaticamente) PESCULUM. Per noi Pescorocchiano significa Rocca a Picco. Parafrasiamo Benedetto Croce:

Il nome Pescorocchiano sembra derivare da "Pesculum Roccae", cioè roccia sorgente a picco (dal tardo latino "pensulum"), o masso che serra, così come Benedetto Croce definiva la sua Pescasseroli "Pesculum ad Sorolum", cioè masso presso il piccolo Sangro (le sorgenti), fiume il cui nome richiama alla memoria antiche trasmigrazioni pelasgiche. La parte più antica dell'abitato sorge ai piedi dello sperone roccioso «pesco») su cui si trovano i resti di Castel Mancino. Nella leggenda marsicana il poeta pastore Cesidio Gentile fa derivare la fondazione di Pescasseroli dalla vicenda drammatica di un giovane cavaliere crociato, Serolo, figlio del Conte Maracino, signore del castello. Serolo, partecipando alla I° Crociata, incontra in Palestina la bella saracena Pesca, della quale si innamora e che sposa. In compagnia di un santo anacoreta, che aveva con se la statuina lignea della Madonna nera, Pesca viene mandata da Serolo al castello. Una volta al castello, il vecchio Conte si invaghisce di Pesca che, fuggendo, viene raggiunta ed uccisa in prossimità di una sorgente.

Con qualche ritocco e qualche innocente arbitrio quella favola della bella saracena PESCA la potremmo ritagliare per la nostra località: non per nulla tra le ville di Pescorocchiano si annovera GIRGENTi dall’ammiccante ma equivoco toponimo arabo.



L’abbiamo già visto: svetta una grande chiesa che è dedicata a S. Andrea. La nostra cittadina è un “castrum”: un castello dunque, che conferisce prestigio ed importanza a Pescorocchiano, essendo stato nel tempo punto nevralgico di difesa. Parroco è sempre il citato francescano don Giovanni Antonio Petronio. Sembra secolarizzato per quel fregio, per aver ripreso il suo cognome di famiglia e di non essere indicato con il modesto e francescano titolo di “frater”.

La chiesa viene visitata in pompa magna. È sotto la giurisdizione della illustrissima donna Virginia Sabelle (Savelli). Il vescovo ostentatamente elude il termine giurisdizione per parlare (qui ed altrove) di ditio, ditionis, che vuol dire tanto se h peso giuridico, se no, nulla. La famiglia Savelli (o Sabelli) è quella celebre nella storia medievale romana del Gregorovius per doverne qui parlare. Solo che nel 1574 era definitivamente decaduta. Questa Virginia chi è allora? Forse un rompicapo per gli st. Escludiamo che orici. Ci pare per il momento ignota: appare nelle carte del vescovo quale residuato feudale come magari erede per via femminile di un castello non più egemone. Gli epigoni della famiglia sono questi:

Di questa nobile casata faceva parte anche la principessa Carlotta Savelli (1608-1692), donna dall'animo pio, che regalò ad alcuni terremotati, fuggiti dalle loro terre, il feudo di Savelli, in Calabria, dove ora si erge l'omonimo comune. Il simbolo stesso del comune di Savelli è lo stemma della nobile famiglia romana.

La famiglia si estinse con Giulio Savelli, morto il 5 marzo 1712, con l'eccezione del ramo cadetto dei Giannuzzi Savelli (Baroni di Pietramala, Principi di Cerenzia, Patrizi di Cosenza), nel Regno di Napoli come condottieri dal 1421, discendenti da Giannuzzo di Antonio Savelli (Roma, XV secolo).



Possiamo pensare che la nostra Virginia rientri in una delle tante ramificazioni cadette, come dire una ramificazione cadette del sunnominato Giannuzzo Savelli che mise radici nel Napoletano e ricordiamoci che dopo tutto il Cicolano cade nell’area del Regno delle due Sicilie.



Sarà per rispetto ai Savelli, sarà perche la chiesa madre di Pescorocchiano non era proprio da disprezzare, Fatto sta che il signor vescovo visitatore stavolta si limita a dire che essa non è “improbanda”, purché però si proceda all’assestamento del tetto: “implanelletur aaut intabuletur”, occorre dunque rifare il soffitto oppure farne in tavole uno nuovo. Altri lavori da fare sono: intonacare con la calce alcune parti delle pareti ed imbiancarle; ammattonare in pietra il pavimento; costruire nuove tombe per la sepoltura dei cadaveri dei defunti. Per tutte le disposizioni viene fissato un termine. La prossima raccolta delle messi. Trascorso inutilmente tale termine, sia proibito inumare sotto il pavimento della chiesa sotto pena di scomunica.

Il vescovo resta inorridito da una statua in bella vista nella chiesa madre di Pescorocchiano: posta su un altare costruito con la calce gli appare “satis deforme ac vestuste”. Un orribile “monumentum” dunque deforme, mutilato, cadente “vetusto”: questo prelato cinquecentesco il latino lo domina, magari quello ecclesiastico della tarda latinità, e la lingua latina è per sua natura paratattica, essenziale, efficacissima. La statua va demolita quanto prima “quamprimum”, ma trattandosi sempre di una sacra effigie occorrono cautele per evitare impressioni sacrileghe presso il popolino di Pescorocchiano ( e non saremo certo qui lo sprezzante spirito aristocratico dell’alto clero del tempo) invero propenso a pratiche superstiziose atte a utilizzare i resti di una immagine sacra solennemente benedetta. Allora quella statua va demolita bruciandola e le ceneri vanno conservate nel “sacrarium”, sottratte dunque alle tentazioni degli incolti fedeli del luogo, pronti a abbandonarsi malefici riti.

Vi è un’altra statua che si ergeva su un piccolo altarino, abbisogna di una mano di pittura: che vi si provveda, statuisce il prelato visitatore , venuto da Ascoli. Come potessero fare i pescorocchianesi a trovare un decente pittore che riabbellisse la vecchia statua, non sappiamo e siamo in grado di ipotizzarlo.

La sacrosanta eucarestia va – impone sempre il vescovo – va custodito (asservatur) in un degno tabernacolo: evidentemente quello che c’era non era per i gusti del vescovo visitatore “condecente”.Si trovasse uno di codesti tabernacoli ben testimonierebbe in un antiquarium “condecens” questo passaggio epocale della chiesa pescorocchianese. E il nuovo tabernacolo all’interno doveva essere foderato in seta color purpureo. Il sacro fonte battesimale andava accomodato secondo le disposizioni che avrebbe impartito il commissario a ciò deputato cioè il canonico reatino d. Pietro Cappelletti. Questi è il numero nove della curia, è dottore in utroque, è ritenuto un lodevole canonico versato nella dottrina della Chiesa e di lui ampiamente si tratta in positivo nella “camparitione facta sub die 27 decembris 1573”: in una parola “laudandus”.

I rilievi ispettivi sono ora consueti, ripetitivi: il vasetto dell’olio santo per l’estrema unzione sia separato da quello dei catecumini (che a Pescorocchiano vi potessero essere dei catecumini, noi ne dubitiamo fortemente) e venga custodito in una nicchia chiusa con una fenestrella, anche se in comune; l’icona dell’altare maggiore venga restaurata e resa più lucida; gli altari sprovvisti di reliquie ne vengano dotati e si provveda a tutto quanto difetta erigendosi in particolare una croce nel mezzo dei due candelabri.

Quanto ai paramenti, ornamenti e alle altre suppellettili sacre nulla da raccomandare se non la disposizione a dotare la chiesa di una casula o pianeta violacea con stola e manipolo, se non di seta almeno di tessuto di Fiandra, nonché di un pallio bianco; il tutto entro il prossimo raccolto delle messi..

In conclusione: come si diceva il rettore è don Giovanni Antonio Petronio, nativo del luogo; insediato con nomina vescovile il 7 novembre del 1548; il suo reddito è di scuti venti annui, è il pastore di quaranta famiglie (quasi duecento abitanti) e sarà da imporre loro di corrispondere tale sussidio, quello generalizzato e quello particolare almeno in due rate. La pignoleria ecclesiastica nel tassare i fedeli dalla culla alla tomba fa qui capolino.

Vi sono poi due confraternite di Santa Maria e di Sant’Atanasio che non possiedono rendite certe; salvo gli apporti che i confratelli danno in frumento per il cibo dispensato ai poveri. Senonché il vescovo non approva questi atti caritatevoli e impone loro di astenersene per provvedere invece all’olio della lampada e comprare il baldacchino per accompagnare il sacerdote quando va a portare il sacramento dell’eucarestia agli inermi. Un divieto non scandaloso per quei tempi, ma a noi laici e moderni un certo effetto lo fa. Speriamo che almeno si rinvenga quel baldacchino per il nostro agognato Antiquarium, a ricordo di usi e costumi del passato con un tocco di rammarico: niente pane per i poveri ma olio per la lampada votiva e semmai un parasole di broccato per il prete dell’estrema unzione.

In Pescorocchiano vi erano ovviamente altre chiesuole. Vi era il beneficio semplice dotato a don Giovanni Antonio di San Nicola. La fabbrica poteva andare sempreché si rifaceva il soffitto oppure lo si intavolava; le pareti le si intonacava con la calce e si imbiancavano; il pavimento veniva lastricato; l’altare lo si restaurava con i debiti requisiti e nella parete di fondo vi si dipingevano i canonici tre quadri del crocifisso, della Vergine Maria e del santo titolare San Nicola. Il rettore fra’ Giovanni Antonio vantava la provvista vescovile sin dal 13 giugno del 1561, e per questa rettoria percepiva di reddito cinque giulii annui. Il termine monetario GIULIO usato nello stato pontificio nel 1574 ci disorienta alquanto. Di sicuro vi sarà chi saprà ben spiegare questo aspetto, non irrilevante per la storia della moneta.



L’altro beneficio semplice è dedicato a Santa Maria “Montis Falconis” sito sempre all’interno del CASTRUM di PESCULI. Qui la fabbrica appena restaurata non è “improbanda”. Bontà sua! Il pavimento tuttavia va lastricato e vnno costruite nuove tombe “pro sepeliendis cadaveribus”; nell’altare maggiore vada eretta unna croce e non altro dipinta e gli altri altari siano corredati di icone nonché di scabelli e siano rimossi certi vilissimi panni pendenti.

Per l’ulteriore beneficio di Santa Maria <de monumento>, un tempo esistente all’interno del paese ed ora diruto, si ricorda che andava instaurato nel termine di unno, sotto pena di quindici scudi da devolvere al seminario reatino. Il rettore è ancora don Desiderio di Colle Alto e vanta n reddito annuo di ei selmae di frumento. Permane l’onere di celebrare due messe ogni mese di domenica. Di don Desiderio di Collealto non sappiamo null’altro in questa sede.





Santa Lucia di Fiamignano

Lo stesso giorno 5 marzo 1574

Chiesa parrocchiale di Santa Lucia: rettore D, Cesareo Antonini

Fu visitata la chiesa parrocchiale di Santa Lucia del villaggio omonimo sotto la giurisdizione di D. Pompeo Colonna: la fabbrica della chiesa è disadorna e non finita (incomposita). E così parte del tetto mancava di tegole e per tanto vi piove dentro. Le pareti vanno intonacate a base di calce e quindi imbiancate e vanno aperte due finestre da ogni lato dell'altare ed un'altra a sinistra del tempio, tutte da aprire nel muro della fabbrica; il pavimento va lastricato in pietra e sotto vanno edificate delle tombe per la sepoltura dei cadaveri: quanto sopra va realizzato entro il prossimo raccolto delle messi, spirato negativamente tale termine, deve essere inibita la sepoltura, sotto pena di scomunica.



Non furono rinvenute custodie sacramentali eccetto un vasetto di olio santo per l'estrema unzione degli infermi per giunta di piombo: questo quanto prima va cambiato con uno di stagno e si deve provvedere alla costruzione di un tabernacolo con pisside in argento in forma <comune>. Si dovrà usare l'acqua santa battesimale del villaggio del Santo Pastore, non molto distante.

La chiesa manca di molti altri paramenti e sacre suppellettili. Tuttavia, per la grande povertà del villaggio, non fu ordinato nient'altro se non di confezionare una casula o pianeta di color bianco in tessuto di Fiandra o di fustagno come si dice e ciò entro il prossimo raccolto delle messi, sotto pena di quattro scudi come vorrà il locale vescovo: si dovrà provvedere altresì ad una stola con manipolo e pallio di cuoio dorato, a due corporali ed a quattro purificatori. Il calice che è rotto va riparato e frattanto non lo si può usare. L'altare maggiore va provvisto di tutti i requisiti, La statua della gloriosa Vergine unitamente alla tribuna deve essere ripitturata e ciò va fatto anche in altri due altari che sono disadorni; il resto deve essere demolito.

Il rettore è don Cesareo Antonini de villaggio di Sant'Agapito, autorizzato dall'Ordinario del luogo il 18 settembre del 1568 [giudicato dal Visitatore ineptus (jnidoneo) e ignarus (culturalmente insufficiente) ndt.]. Percepisce di rendita 15 scudi annuali. Le famiglie sono 28 [120 abitanti circa, ndt] a spese delle quali saranno da ripartire in due rate nel complesso e singolarmente quanto specificato, salvi fatti i diritti che i medesimi parrocchiani vantano con don Cesareo per l'obbligo e per l'accordo circa la restauranda chiesa. Gli stessi parrocchiani sono però tenuti a corrispondere 6 giulii annui per la pensione e l'abitazione di don Cesareo in attesa che venga fabbricata dai predetti parrocchiani la canonica che si ordina loro di costruire quanto prima, ma tenuto conto della loro povertà si accorda un termine di quattro anni, trascorsi i quali inutilmente dovrà essere loro interdetto l'accesso in chiesa.

E' presente la confraternita di S. Agata che non ha redditi fissi se non quanto in denaro viene versato dagli stessi confrati per le varie occorrenze: a loro fu ingiunto di astenersi in futuro etc. e di approntare i capitoli statutari e di fornirsi dei sai a sacco.

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