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mercoledì 23 settembre 2015

fascismo di paese sette


Il Galatioto che aveva retto il fascismo provinciale per vario tempo è orami alle corde. Ha un sapore patetico questa corrispondenza che il prefetto Rivelli ha col Ministero sulla definitiva scomparsa dalla scena politica del fascista della prima ora di Ravanusa.

«Per doverosa notizia - esordisce un telegramma prefettizio del 17 novembre 1925 - pregiomi significare a codesto on. Ministero che ore 21,10 corrente in Ravanusa allo arrivo dell’Avv. Sillitti Alfredo e Cav. Gallo Vito quali designati per la reggenza di quel fascio, venne improvvisata imponente manifestazione da parte dei nuovi fascisti al grido di viva S.E. Mussolini. Il corteo si diresse sede fascio inneggiando agli ospiti suddetti, a S.E. Mussolini, all’on. Gangitano ed a tutti i deputati fascisti. Nella sede pronunciarono brevi discorsi occasione Avv. Stillitti, Cav. Gallo ed il Dott. Attanasio Salvatore, ringraziando i convenuti e innegiando alle glorie del fascismo e del suo Duce. Poco dopo corteo si sciolse senza nessun incidente.»

Qualche giorno dopo, il 23 novembre, il prefetto s’interessa per l’ultima volta del Galatioto. «Ore 15,30 ieri - telegrafa - in Ravanusa Galatioto Girolamo ex segretario politico federazione provinciale fascista, Sindaco Vizzini ed altri deridevano aversari. Intervento funzionario sicurezza ivi in missione arma e militi nazionali furono allontanati. Contegno medesimi provocò risentimento popolazione e per subitanea reazione formossi imponente manifestazione che percorse vie principali inneggiando Re e Duce. Dopo brevi parole maggiori esponenti fascismo quel comune, dimostranti si diressero verso Municipio con intendimenti ostili quella amministrazione comunale; per opera però del funzionario sicurezza e della commissione reggenza nuovo fascio, manifestazione si sciolse senza incidenti. Per evitare turbamento ordine pubblico ho inviato colà 20 carabinieri rinforzo, giusta richiesta quel funzionario al quale ho rinnovato tassative energiche disposizioni procedere senza riguardo carico perturbatori ordine pubblico. Giacché poi permanenza a atteggiamento provocatori amministrazione comunale causa principale dell’agitazione che minaccia turbamento ordine pubblico e amministrazione stessa, è oramai divenuta invisa maggioranza popolazione, con decreto odierno ho sospeso per urgenti  motivi di ordine pubblico consiglio inviando qual commissario prefettizio il commissario di P.S. Dr. Montalbano Edvige e riservomi proposta scioglimento.»

 

La svolta del 1925

 

Il 1925 segna senza dubbio una svolta nel modo di essere del fascismo. Dopo il discorso del 3 gennaio cambia Mussolini, cambia il suo modo di vedere il parlamento, cambia il suo atteggiamento nei confronti delle istituzioni tradizionali. E l’Italia si avvia verso un regime indubitabilmente dittaroriale.

Il Ragionieri spiega, a nostro avviso, piuttosto puntualmente la vicenda del  1925 ([1]).

 «Il 3 gennaio 1925, con in tasca un decreto di scioglimento della Camera firmato in bianco dal re, dopo una resistenza neppure troppo convinta, Mussolini si presentò in Parlamento e assunse per sé e per il suo movimento ogni responsabilità di quanto era avvenuto. Non si trattò dello spartiacque fra due epoche, ma del momento della scelta esplicita e irreversibile  della soluzione di forza: “Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili - dichiarò Mussolini - la soluzione è la forza”. Gli strumenti adottati furono ancora una volta offerti dall’autoritarismo delle leggi vigenti e della pratica repressiva e centralizzatrice dello Stato, nonché delle nuove restrizioni introdotte dallo stesso fascismo in questi anni. La notte del 3 gennaio Federzoni telegrafò ai prefetti ordinando loro l’applicazione più rigorosa delle norme vigenti che già limitavano drasticamente ogni libertà d’associazione e di movimentoe prescrivendo la soppressione dei gruppi di “Italia libera”, organizzazioni di ex combattenti, e retate di comunisti. Venivano così colpiti ad un tempo, con una tecnica caratteristica del fascismo che si apprestava a divenire regime totalitario, gli oppositori storicamente più vicini e più lontani, cioè gli elementi più capaci di operare una disgregazione all’interno della base sociale del fascismo o di organizzare la resistenza più intransigente e più combattiva alla costruzione del regime.»

 

Per una valutazione meno ostile, valgano le note del Nolte ([2]): «Mussolini non cadde perché lo appoggiavano il re e il papa, il senato e l’industria, timorosi di potersi trovare di nuovo di fronte ai socialisti e ai comunisti. Ma si perdette irrimediabilmente una delle possibilità di evoluzione di Mussolini, soprattutto quella che non dipendeva tanto dalla sua “fede” e dal suo temperamento quanto dalla sua visione politica: di essere il capo, e non il dittatore, di una democrazia sociale. Eppure ancora nel famoso discorso del 3 gennaio 1925, che “chiarì la situazione” e significò l’accettazionedefinitiva del totalitarismo fascista, è possibile avvertire una vena di tristezza se non di disperazione, e  in pari tempo - per quanto la cosa possa sembri paradossale - un più forte vincolo con la monarchia e con le forze conservatrici.»

 

«L’avvenimento più importante di questa epoca, - scrive sempre il Nolte a pag. 317 e segg. - che per lumghezza e prosperità viene seconda nell’esistenza politica di Mussolini, fu la creazione di ciò che si suole chiamare dominio totalitario.

 

«Dopo il 3 gennaio Mussolini non si oppone più alla “ripresa totale, integrale” dell’azione fascista, che da tempo i suoi estremisti esigevano. Lo squadrismo, di nuovo potente, leva ancora la testa e porta contro i suoi avversari gli argomenti che gli sono tipici. Farinacci, nuovo segretario generale, si applica con tutta l’energia del suo fanatismo al compito di “smatteottizzare”, esalta l’ “intransigenza rivoluzionaria ” del fascismo, minaccia gli avversari di una “terza ondata”, e nega Nè più né meno che gli antifascisti possano essere considerati italiani. Ben presto l’opposizione non ha più nessuna possibilità di muoversi liberamente. Se in un primo tempo ci si accontenta di sequestrare senza ritegno i suoi giornali, dopo l’attentato di Bologna tutti i giornali ostili al regime vengono proibiti, viene istituito un tribunale speciale supremo, la punizione del “confino” diventa una misura preventiva lasciata all’arbitrio dei prefetti senza praticamente alcuna possibilità di protesta o di controllo. Dove mai avrebbero potuto vivere gli avversari anche solo potenziali del fascismo se non su isole rocciose, ora che la “feroce volontà totalitaria” di Mussolini aveva da un pezzo negato a tutti i partiti ogni diritto all’esistenza e voleva fare della nazione un “blocco granitico” o “monolitico”? Aveva già dimenticato che appena due anni prima un’Italia senza opposizione e senza contrasti di forze sociali gli era parsa “insopportabile”? Ora si diceva che in un regime totalitario come quello fascista l’opposizione era stolta e superflua, dal momento che il regime trovava nel proprio petto e nella resistenza delle cose l’indispensabile opposizione.

 

«Come, l’opposizione, anche lo Stato è in lui stesso. La citatissima formula “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” non va affatto intesa, statalisticamente, come una contrapposizione  tra Stato e una particolarità di tipo individuale o collettivo. Questo Stato è caratterizzato piuttosto dal fatto che esso non può essere rigorosamente separato dal partito o contrapposto a questo: l’apparato dello Stato e quello del partito sono strumenti di dominio in mano a Mussolini, e anzi il partito - grazie alla sua maggiore modernità o anche per la sua dignità ideologica - diventa più importante ogni anno che passa.

 

«L’opera legislativa che fissò la “mussolinizzazione” dello Stato fu costituita dalle così dette “leggi fascistissime”, non a caso create da Alfredo Rocco.» ([3])

 

 

 

Un quadro abbastanza veridico - anche se non privo di preconcetti ideologici - di quello che ebbe a verificarsi in quest’anno di svolta nell’intera Sicilia ci viene fornito dal Renda ([4]).

 

«I fascisti non vollero lasciare dubbi che i veri padroni della situazione fossero loro - stralciamo dal testo del Renda - e soltanto loro. La riprova di quella verità, del resto, venne poco dopo, allorché nell’agosto 1925, si procedette alla elezione del consiglio comunale di Palermo. In tale occasione, il fronte delle opposizioni, ammaestrato dagli avvenimenti nel frattempo verificatisi nel paese, si presentò compatto nella lista Unione per la libertà, chiusa solo ai comunisti, i quali formarono lista propria. [..] In modo aperto, e senza giro di parole, lo scontro venne affrontato fra la libertà e la dittatura. Sul momento vinse quest’ultima. I voti della lista fascista furono 26.249; i voti della lista di concentrazione liberale, 16.616; i voti della lista comunista, 211. [...] Non diedero quel segnale di rivolta politica e morale che l’Italia antifascista dalla Sicilia si aspettava. La classe dirigente dell’isola rimase ferma nella scelta già fatta in favore del fascismo.

 

«Le elezioni amministrative di Palermo furono l’ultimo guizzo di resistenza legale al fascismo. Vittorio Emanuele Orlando ne trasse la conclusione che “nell’attuale vita politica italiana non vi è posto per un uomo del mio passato e della mia fede”; e si dimise da deputato per protesta [..] A chi non seguì il suo gesto, non fu riservata sorte migliore. Subito dopo, infatti, varate le leggi eccezionali, altri 13 deputati di opposizione (fra i quali Colonna di Cesarò, Giuffrida, Guarino Amella) furono dimissionati dal parlamento con atto d’imperio. Francesco Lo Sardo, addirittura, oltre che privato del mandato parlamentare, fu anche arrestato. Contemporaneamente si procedette allo scioglimento formale dei partiti politici (di fatto erano già paralizzati da tempo); furono soppressi i sindacati; fu abolita la libertà di stampa e proibita ogni forma di vita politica a chi non accettasse di sottostare al regime. Ne seguì legalmente la fine del regime liberale e l’instaurazione della dittatura. A non perdere la fede nella libertà e a non ammainare la bandiera furono solo piccoli gruppi o singole personalità; ea distinguersi nella volontà e nel proposito di non cedere fu, in particolare, il piccolo partito comunista, fatto di alcune centinaia o di alcune migliaia di militanti, che, per sfuggire alla spietata caccia della polizia, cercò riparo nella più rigorosa clandestinità.

 

«Instaurato il regime del partito unico, la storia politica isolana, al pari di quella nazionale, sembrò identificarsi, e non pochi pretesero che si identificasse, col fascismo. [..]

 

«Il passaggio dal regime liberale al regime fascista, pur carattterizzato da un largo consenso poi in parte rimesso in discussione, non fu indolore, e non si limitò alla distruzione di qualche camera del lavoro, di qualche cooperativa, di qualche sezione comunista o socialista e neppure alla somministrazione di una certa quantità di olio di ricino accompagnata da dosi più o meno maccicce di manganellate. La transizione dalla libertà alla dittatura, oltre che un processo politico, fu anche un rivolgimento sociale. Alla vecchia classe dirigente di ispirazione democratico-liberale se ne sostituì una nuova, la cui formazione politica fu diversa, e la cui composizione non si identificò tutta nel fascismo, ma in parte trovò la propria ragione d’essere fuori del fascismo e in parte anche nello stesso antifascismo. La nuova classe dirigente si defferenziò dalla vecchia, anche per il fatto che la sua matrice sociale non fu necessariamente legata, come nel passato, alla grande proprietà terriera, e più ancora alla campagna, ma divenne espressione del ruolo emergente assunto nella società dai ceti medi e in particolare dai ceti impiegatizi dello Stato e degli enti pubblici parastatali. In questo senso, la scelta filofascista dei grandi proprietari terrieri, operata fra il 1922 e il 1924, e poi consolidata negli anni successivi, più che un errore, fu il segno dell’esaurirsi della loro capacità di egemonia sul resto della società.

 

«[..] negli equilibri di potere interni al regime, la nuova classe dirigente siciliana, formatasi durante il ventennio, sia per qualità che per capacità di rappresentanza, non fu più capace di esercitare un qualche peso di rilievo nazionale [...].

 

«Quella situazione al livello della rappresentanza parlamentare si riflesse con maggiore evidenza nelle istituzioni locali, nei comuni, nelle istanze del partito, nei sindacati. Non fu più come ai tempi della Sinistra storica, quando gran parte del personale politico periferico era costituito direttamente da medi e grandi proprietari terrieri. Segretari federali fascisti, essi stessi possessori di latifondi o rampolli del vecchio baronaggio, come il conte Gaetani di Naro, durante il ventennio, si contano sulla punta delle dita. La quasi totalità dei gerarchi appartiene, invece, ai ceri di media e di piccola borghesia così urbana come anche rurale. Naturalmente, pure in regime liberale non erano pochi i rappresentanti politici e parlamentari di origine piccolo borghese; ma la loro funzione era quella di agenti fiduciari delle classi dominanti proprietarie. In regime fascista, tale stretto legame di dipendenza non esiste più, non essendo più la stessa di un tempo la fonte di legittimazione del potere. Per altro, come segno di un mutamento istituzionale, tende a diffondersi e  generalizzarsi la figura del funzionario di partito, che non esercita la politica come servizio occasionale e temporaneo, bensì come professione organica e permanente, le cui fortune si identificano con la ragion d’essere del regime. Da questo punto di vista, il fascismo, generalizzando un fenomeno già presente nelle organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra socialista, e anche fra le organizzazioni cattoliche, rappresenta un fenomeno sociale e politico da non sottovalutare nella prospettiva di lungo periodo. In effetti, è la prima volta che, in forma vistosa e quasi plateale, la grande proprietà terriera siciliana viene staccata drasticamente dal potere, sebbene il potere manifesta il proprio ossequio verso la proprietà medesima.

 

«Durante il ventennio, senza dubbio, i grandi signori del latifondo siciliano conservano la terra, mantengono o restaurano la loro influenza sociale, ricevono anche vantaggi economici sostanziali (la battaglia del grano e la bonifica(; ma non hanno più voce diretta e vincolante negli affari del governo nazionale e nel controllo delle amministrazioni locali. Significativamente, il primo podestà fascista di Palermo è un docente universitario, che prende il posto di un qualificato esponente della vecchia aristocrazia. [..]

 

«Insieme alla forzata separazione della grande proprietà terriera dalla diretta gestione del potere, altra importante novità del fascismo è il suo essere un regime di massa, che porta al reclutamento obbligatorio di tutti gli strati sociali della popolazione nel partito, nel sindacato, nei circoli dopolavoristici, in altre associazioni sportive e culturali varie.»

 

 

 

Nel giornale L’Impero del 24 marzo 1929 il 1925 viene definito l’anno della “seconda ondata”. Gli iscritti al fascio non erano poi molti: solo 599.988. Il fascismo provinciale di Agrigento si dibatte nelle beghe interne per la conquista del potere. Galatioto, sincero fascista, si scontra con i deputati tradizionali ed in ispecie con il trasformista on. Abisso e, come abbiamo visto, soccombe miseramente. Galatioto non capì, peraltro, il ruolo del prefetto nella strategia del nuovo regime. Si credette al di sopra del prefetto Rivelli e questi lo giubilò. Ancora non si era nel pieno regime totalitario. Si pensi che vecchi esponenti dei clerico-moderati potevano avere possibilità nell’agrigentino di restare a galla. E’ il caso dell’ex deputato dei  Popolari on..le avv. Eugenio Fronda. L’on.le La Loggia alla fine del 1925 non avrà però possibilità alcuna di salvarsi politicamente ed il prefetto che forse in cuor suo avrebbe voluto recuperarlo deve sprezzantemente silurarlo, come si è detto sopra. Nel settembre del 1925 la situazione provinciale si coglie significativamente da questi scorci di corrispondenza del solito prefetto Rivelli con il Ministero degli Interni. ([5]) Riemerge la solita faccenda della estromissione di Galatioto. «La recente riunione al Viminale - scrive il prefetto Rivelli in data 24 settembre 1925 - del direttorio di questa federazione provinciale fascista, sotto la presidenza della E. V. E con l’intervento dell’on. Farinacci e dello scrivente avvenuta ai primi del corrente mese, e il conseguente provvedimento dello scioglimento della federazione stessa, con la nomina del commissario straordinario in persona dell’on. Starace, mentre son valsi a chiarire la situazione politica del fascismo in questa provincia, rafforzando il prestigio e la posizione dei quattro deputati fascisti, contro i quali ingiustamente si appuntavano le ostilità del direttorio provinciale, hanno per conseguenza determinato un più ragionevole, più serio e più esplicito indirizzo della politica fascista provinciale.» In tale quadro non c’è più posto per un personaggio come Galatioto che, peraltro, rivestiva ancora una carica presso la provincia. Ed allora, essendo stato “il cav. Girolamo Galatioto ([6]) .. il condottiero della campagna ostile ai deputati”, questi andava escluso “per incompatibilità politica” che risultava evidente “data la nuova situazione politica della provincia.” Per converso, poteva farsi ancora affidamento per la carica provinciale sull’on. Fronda. Ci si può fidare dell’ «on. Avv. Eugenio Fronda - può permettersi di affermare il prefetto del tempo -, leader del locale gruppo cattolico, perché,  sebbene capo della locale sezione del Centro cattolico, ha dato già prova nelle elezioni generali politiche del 6 aprile 1924 di essere un fedele sostenitore del governo nazionale, e perché nelle prossime elezioni amministrative di questo capoluogo il suo gruppo potrà dare un efficace ed influente aiuto all’esiguo fascio locale per combattere il partito demo-sociale, che è forte ed agguerrito.»

Il passo del prefetto rappresenta una testimonianza della provincia di Agrigento di eccezionale valore. Dunque, sino al settembre del 1925 si pensava ancora in termini elettorali, come se fosse d’attualità il pluralismo politico e partitico. Cattolici e demosociali vengono additati dal prefetto come forze egemoni nell’agrigentino contro un “fascio debole”. La logica delle alleanze perdura in periferia o in quella estrema periferia come quella marginale provincia siciliana. Certo, non si era avuto il risultato amministrativo di Palermo. Ma la chiave di lettura dell’evoluzione politica delle realtà periferiche o di quelle agrigentine resta, a livello ufficiale, quella del prefetto Rivelli. E a dire il vero non pare molto simmetrica alla storiografia imperante.

Ciò, invero, non significa che i giudizi in fondo burocratici dei prefetti cogliessero proprio nel segno. La convinzione del funzionario periferico poteva essere fallace ed al centro non si voleva o non si aveva interesse a correggerla.

Non va dimenticato che nel 1925 ministro degli interni era Federzoni, figura di fascista particolare, vicino al re e sicuramente legalista. Le circolari cui accenna il Ragionieri saranno state di taglio dittatoriale; resta al contempo incontrovertibile che proprio sotto Federzoni - e finché restò ministro degli interni - inizia un processo di raddrizzamento della Milizia. Il prefetto Ravelli - l’abbiamo già citato - non mostra tenerezza verso quel corpo separato militare.

Sino al 10 gennaio 1925 prefetto di Agrigento fu Giovanni Antonio Merizzi, di nomina preaventina. A lui vengono indirizzate le famose circolari Federzoni ed è lui che così ragguaglia il ministero in data 7 gennaio 1925 ([7]): « .. presso alcuni comunisti di questo capoluogo sono state sequestrate circolari e stampe di propaganda sovversiva, parecchi bollettini del Comitato esecutivo comunista, elenchi di componenti le cellule ed altro. Sono stati perciò tratti in arresto sei comunisti mentre altri si sono resi irreperibili ...»

Il successivo giorno 10, il prefetto torna a fornire ulteriori ragguagli: « ... Presso avv. Molinari capo del partito popolare di Sciacca è stata sequestrata corrispondenza con deputato on. Aldisio, nella quale contengonsi notizie relative movimento e intendimenti Comitato Centrale opposizione. Sono stati chiusi i seguenti circoli sospetti in linea politica: sezione socialista di Palma di Montechiaro e quella di Licata; sezione “Italia libera” di Campobello di Licata. Sono stati pure chiusi esercizi pubblici che erano ritrovi di sovversivi.» 

Ed il 14 gennaio: «.. sono state eseguite altre numerose perquisizioni e sono state in vari comuni revocate licenze di esercizi pubblici che erano ritrovi di persone politicamente sospette. Sono state chiuse le seguenti altre associazioni: a Sciacca il circolo popolare e quello socialista; a Campobello il sodalizio dei sensali; ad Aragona il circolo agrario ed il circolo democratico “Duca di Cesarò”; a Naro l’associazione combattenti e smobilitati  ed il circolo manovali; a Palma Montechiaro la sezione socialista unitaria; a Canicattì il circolo operaio e la sezione democratica sociale; a Ravanusa il circolo operaio, il circolo operaio sensali, il circolo giovanile cattolico ed il circolo sportivo [..] Proseguono operazioni per chiudere altri sodalizi politicamente sospetti, perquisizioni domiciliari per rastrellamento armi e munizioni non denunziate e revoche licenze esercizi pubblici.»

 Nel febbraio 1925 è già operante in Agrigento il prefetto Rivelli di cui si è avuto modo di citare svariate volte. Il 4 febbraio 1925, questi, sulla scia del suo predecessore, informa il ministero di altri provvedimenti restrittivi. «Pregio assicuare - scrive - la chiusura delle sezioni democratiche sociali di Girgenti, Canicattì ed Aragona e della società agraria di produzione e lavoro di S. Angelo Muxaro ... per ragioni d’ordine pubblico. I relativi locali erano divenuti ritrovi di elementi turbolenti e capaci di sovvertire i poteri dello Stato e perché ivi veniva fatta la più pericolosa propaganda antinazionale ed antifascista”. Il linguaggio del nuovo prefetto è trasparentemente più allineato ideologicamente al nuovo corso della politica nazionale. Il 17 marzo del 1925 è in grado di rassicuare il ministro che l’impopolare provvedimento di scioglimento di “Italia libera” è stato adottato anche in quel di Agrigento. Sezioni di ”Italia libera” «risultavano costituite solamente in Licata e Campobello di Licata”. Esse erano “state sciolte nel gennaio scorso”.

Il 5 marzo 1925, dopo appena un mese di permanenza in Agrigento,  il prefetto Rivelli è - o si mostra - conoscitore della  psicologia delle masse agrigentine.  «Provvedimento sospensione funzioni organi centrali amministrativi dell’Associazione Nazionale Combattenti, - telegrafa ([8]) - è stato in questa Provincia favorevolmente accolto  meno in qualche centro. Data però apatia queste popolazioni provvedimento non è stato eccessivamente commentato ..»

 

Fra le carte ministeriali troviamo alcuni accenni alla situazione politica e sociale dell’agrigentino, contenuti nelle relazioni del 1925 della M.V.S.N. di Palermo ([9]). La prima relazione risale al 28 febbraio 1925, ed a proposito di Girgenti si allude al contrasto «sorto in seno alla Federazione provinciale» ed ai «motivi che l’avevano determinato». «La situazione - si assicura - però ora è stata così ricomposta. La Federazione Provinciale è stata  dal Direttorio Nazionale sciolta e ne affidò la reggenza ai 4 deputati fascisti della provincia on.li Abisso, Palmisano, Riolo e Gangitano ed al cessato Segretario Cav. Galatioto. A quest’ultimo il Direttorio Nazionale ha conferito i poteri di Segretario della reggenza.»

Più esplicito il successivo rapporto del 5 maggio 1925. Quanto a Girgenti «l’andamento della politica provinciale, in seguito allo scioglimento della reggenza e nomina del Commissario Straordinario alla Federazione del P.N.F. nella presona del sig. Prof. Paladino Raffaele, ha subito un ristagno venendo tutto ad innestare sulla dibattuta e nota questione, onde fu necessario il provvedimento della Direzione del P.N.F. La situazione economica della provincia va sempre più migliorando con l’inoltrarsi della stagione. Il malumore del passato, dovuto al rincaro dei viveri, è un po’ attutito per il buon raccolto che si prepara nell’anno agricolo in corso. Il costo dei generi alimentari, però, si mantiene tuttavia relativamente caro: il lieve ribasso di prezzo apportato dalle Commissioni economiche non è stato bene accolto dalle popolazioni, giacché esso, in relazione al diminuito costo del grano è veramente irrisorio. Nel corso del mese è stato in parte superato il grave dissidio economico-sociale fra i zolfatai. I padroni e proprietari di miniere non volevano concedere l’aumento del 15% stabilito sulle paghe giornaliere come da concordato posto dalle organizzazioni sindacali. Venne minacciato uno sciopero generale, che però non si effettuò, in parte dovuto alle tristi condizioni economiche dei lavoratori. Non si deplorano incidenti di sorta. Una certa preoccupazione desta in tutti una certa recrudescenza manifestatasi in questi giorni di delitti vari. Sono in corso misure che sta adottando la P.S.»

Il 1925 si chiude in Agrigento con qualche turbolenza politica, sia pure tutta racchiusa al’interno del movimento fascista.

Un certo Guzzo Giovanni protesta il 13 dicembre da Licata ([10]) contro una lunga sequela di violenze che furono denunziate alla Procura generale di Palermo a carico di un funzionario di P.S. che avrebbe impedito di presentare un’altra lista facente capo ai cittadini di Licata di “pura fede fascista”. Parla di un “facinoroso bloccamento”. In particolare sarebbe stata omessa la distribuzione di certificati elettorali.

Il 14 dicembre il prefetto scrive a Roma che l’on. Starace  si era interessato di Licata. “Nella sua opera di epurazione aveva espulso dal partito ex fascisti per gravi atti di indisciplina.”

Nel complesso l’anno si conclude all’insegna del vittorioso raffermarsi del fascismo. La solita documentazione ministeriale contiene ora il linguaggio trionfalistico del nuovo regime. «Imponente, delirante dimostrazione per proclamazione eletti lista» telegrafa da Agrigento il 18 dicembre 1925 il prefetto. Il successivo giorno, la relazione prefettizia accenna ad una manifestazione in teoatro dello stesso prefetto, dell’on. Starace, dei deputati fascisti ed altre presonalità politiche “per elezioni amministrative questo capoluogo indette per domani”. Ovviamente, tutto è superlativo: “efficace” è il discorso del comm. Altieri, candidato sindaco; ma “robusto, brillantissimo” è il discorso dell’on. Starace “che ha riscosso continui deliranti applausi”.

A Grotte si hanno le elezioni in quello stesso giorno (20.12.1925). Su 4281 elettori sono presenti 3711. Votano la lista fascista in 2186. Il fascismo guadagna maggioranza e minoranza. L’avv. Seminerio subentra al commissario prefettizio cav. Fede. La prefettura ragguaglia il ministero anche su tali, minime vicende dello scenario politico agrigentino.

 

Racalmuto verso il regime fascista.

 

Racalmuto passò, pressoché inavvertitamente, dal regime della democrazia sociale del duca Colonna di Cesarò a quello fascista. Fu decisione presa dall’alto, subita, ma accettata di buon grado, senza alcuna opposizione. Fu il prefetto a determinare la svolta con lo scioglimento d’imperio dell’amministrazione demo-sociale. Quel che sorprende è il fatto che il regio decreto (23 marzo 1924) con il quale veniva sciolto il consiglio comunale matura in tempi in cui il duca di Cesarò era alleto nel listone nazionale con Mussolini. Gli amministratori locali erano di fede demo-sociale: ciò nonostante vennero travolti da un’inchiesta amministrativa, quanto veritiera ed obiettiva non si riesce bene a valutare. E’ da supporre una frattura tra i politici locali ed i vertici della democrazia sociale. I personaggi che dominavano sulla scena amministrativa racalmutese non sono da giudicare, del resto, campioni di fedeltà politica. Un rinnegamento dall’alto non è da escludere, ma non figura in alcun modo provato.Sindaco in carica risultava un medico: il dottor Nicolò Scimé; il vero dominatore erà, però, un personaggio della nuova borghesia agraria: il commentatore Giuseppe Bartolotta, non proprio un capo mafia, seppure molto temuto dalla locale cosca mafiosa.

E.N. Messana così ci racconta l’ascesa al comune dei due personaggi ([11]):

«A guerra finita gli schieramenti politici del paese sopravvissuti erano il gruppo dei fautori di Marchesano, capeggiato dal Comm. Giuseppe Bartolotta e dal dott. Nicolò Scimé ed il gruppo dei fautori di Gangitano rappresentato dal Comm. Angelo Nalbone e dal dott. Salvatore Busuito. Il primo aveva avuto una specie di scissione. Bartolotta e Scimé erano passati con Guarino Amella, il dott. Enrico Macaluso invece con Abisso. I socialisti antichi, quelli alla De Felice, nell’avv. Calogero Picone Chiodo avevano trovato un degnissimo rappresentante, della stessa levatura di Vincenzo Vella. I due avvocati socialisti non riuscirono in pese a creare una forza elettorale di sinistra vera e propria, perché per la purezza delle loro anime, recependo la concezione marxista, non erano riusciti a liberarsi dell’estremismo ed erano rimasti ancorati ad una forma infantile di intransigenza, affascinante, interessante ma incapace a maturare le coscienze delle masse. E dire che Calogero Picone Chiodo svolse un’attività politica che trascese la limitatezza paesana.

 

«Egli, figlio del popolo, appena laureato in legge si dedicò all’insegnamento nelle scuole elementari. Poi si dimise dal posto di maestro ed intraprese una densa attività giornalistica. Protestò ed insultò Mussolini per il tradimento della classe operaia, ordito e consumato nel 1919. Fu un oratore felice, trascinatore di folle e contribuì ad avvicinare al socialismo e la gioventù del paese. Lui, col classico cappellolargo dei socialisti dell’epoca, organizzava scioperi e proteste, teneva conferenze, in paese e fuori, tanto da rendersi famoso e notabile nel circondario. Allorché il fascismo soppresse la libertà ed instaurò la dittatura, Calogero Picone Chiodo dovette fuggire da Racalmuto per non incappare in qualche processo davanti il tribunale speciale istituito da Mussolini contro l’opposizione di ogni colore. Peregrinò per l’Italia perseguitato ad ogni istante. Si ridusse a fare il venditore ambulante. Appena avvistato doveva fuggire per non essere arrestato. Dopo tanto girare riparò a Bolzano in casa di Ettore Messana, suo amico d’infanzia ed ex compagno, già vice questore in quella città. I due erano tanto intimi che si chiamavano compari. Ettore Messana intanto una mattina arrivando in questura trovò un telegramma firmato dal Ministro dell’Interno così concepito: “Dicesi ricercato antifascista Calogero Picone Chiodo aggirasi pressi cotesta città, pregasi disporre accurati servizi onde assicurarlo giustizia prima che valichi frontiere.”

 

«Il ministro dell’interno nel ventennio fascista fu quasi sempre lo stesso capo del governo Benito Mussolini. Il telegramma perciò valeva un ordine di Mussolini. Il ricercato era l’ospite suo compare e suo paesano. Tornatosene a casa, aspettò che finisse il pranzo, poi si chiamò in disparte il compare e glielo esibì. Il povero Liddu Chiodo non seppe che dire, Ettore Messana gli assicurò che lo avrebbe messo in salvo lui oltre il confine. Verso sera gli procurò un passaporto con false generalità e lo fece scortare fino ad Insbruk da due agenti. Calogero Picone Chiodo in Austria si affermò, prese moglie e vi rimase fino all’occupazione tedesca, poi passò in Svizzera ed il 25 luglio 1943 in Italia, morì a Milano. Fu anche un medium fortissimo. Scrisse sullo spiritismo parecchie opere, si ricordano “la verità sullo spiritismo” e “L’Immortalità dell’anima”, scrisse ancora “il bolscevismo”, dove criticò aspramente il leninismo. Calogero Picone Chiodo fu, infine, l’unico fuoriuscito racalmutese del periodo fascista. [Se prestiamo fede, però, al fascicolo del Casellario Politico Centrale - busta n.° 3951, il personaggio ne esce malconcio e molto meno nobile di quello che il Messana tenta, con la sua incespicante sintassi, di accreditarci. Ma di ciò in seguito, n.d.r.]

 

«Nel 1919 vi fu una nuova epidemia, il vaiuolo, con le sue vittime e i superstiti sgrefiati dalle cicatrici del terribile male. La sofferenza degli .....sino a pag. 366]

 

Riportiamo una relazione della Prefettura di Agrigento, datata  16 dicembre 1919, sulle condizioni  dell'ordine pubblico e della  sicurezza nella Provincia (cfr. Archivio Centrale dello Stato  - Ministero Interno - Ps - 1919, b. 121).

 

«Da qualche tempo ad  opera di aderenti al partito socialista ufficiale, per sfruttare l'attuale momento critico di disagio generale, viene preso pretesto da qualsiasi argomento per creare agitazioni  più o meno "ingiustificate". Si cerca così di tener compatte le masse per le prossime lotte elettorali amministrative e di fare opera  proficua di propaganda per rafforzare il partito stesso in provincia, che finora ha potuto fare solamente assegnamento su nuclei di scarsa importanza.

 

 «Primo pretesto per il R. Decreto 2 settembre scorso, recante provvedimenti per l'occupazione delle terre incolte. Le associazioni agricole della Provincia, istigati da agitatori  messi in giro dalla locale Camera del Lavoro, iniziarono subito una campagna per ottenere dalla Prefettura l'applicazione del decreto suddetto; e tale movimento, iniziato apparentemente con carattere di legalità, degenerò  subito in vera e propria agitazione, tendente ad impedire ai  proprietari di terre l'aumento dei canoni annui di fitto e la modifica dei patti di mezzadria e si ricorse persino ad intimidazioni su fittavoli e mezzadri per indurli ad abbandonare le terre e renderle incolte, onde facilitare l'occupazione.

 

«Quest'Ufficio contrappose subito l'opera propria e dei dipendenti funzionari perché‚ l'agitazione non sortisse pratici risultati ed ottenere che i minacciati disordini abortissero ovunque, sia assecondando le trattative di componimenti colà dove i proprietari di terre si erano dimostrati proclivi ad intavolarle, sia provvedendo con i mezzi a disposizione, a tutelare l’ordine pubblico e a fare opera di propaganda per impedire l'abbandono delle terre e la sospensione delle culture intraprese.

 

 «Finita tale agitazione, i socialisti ne inscenarono un’altra  ancora. Forti del lodo arbitrale del collegio dei probiviri di Caltanissetta sulle pretese di aumento dei salari avanzate dagli operai di quel bacino minerario, inducono la numerosa classe zolfifera della Provincia ad invocare l'applicazione  anche in questa giurisdizione: Aragana, Favara, Cianciana, Racalmuto, Grotte, Comitini abboccano all'amo. 

 

«I proprietari delle miniere però resistono: gli operai di  rimando proclamano lo sciopero.

 

«Quest'Ufficio, nell’interesse dell’ordine pubblico, interviene nella vertenza e dopo pratiche loboriosissime ottenne ovunque la ripresa del lavoro, riuscendo a persuadere le organizzazioni zolfifere che non poteva il lodo accennato applicarsi alle industrie del genere di questa provincia, nella quale la vertenza sorgeva ex novo e che, in ogni caso,  dovevansi attendere le deliberazioni della commissione di  appello in Roma, cui era stata deferito su ricorso degli industriali la soluzione della controversia. Ottennero però nell’occasione gli zolfatari quasi ovunque aumenti di salario, con pagamento di arretrati da parte degli esercenti, che  accogliendo in parte le pretese dei propri lavotarori, volontariamente vi si sobbarcarono. 

 

«Visto abortire anche tale pretesto, i mestatori, che erano ricorsi per mantenere desta l’agitazione anche coll’ausilio di compagni, all’uopo qui venuti da fuori provincia, prova  cotesta che le fila del movimento vengono mosse dall’alto, si danno ad aizzare ancora le masse per pretese irregolarità nella distribuzione degli sfarinati nei vari comuni, per la  cattiva qualità della farina fornita e per invocare la distribuzione del grano in sostituzione della farina stessa, alla popolazione che ne avesse diritto.

 

«E così, a Favara si cerca di scimmiottare i Soviet pretendendo che una commissione di operai regoli la distribuzione degli sfarinati; a S. Giovanni, S. Biagio Platani, Cammarata ed altrove si minacciano torbidi e si  pretende l'aumento del contingentamento; a S. Stefano Quisquina, rocca del socialismo in Provincia, si crea una vivissima agitazione per ottenere grano invece di farina, pur  non disponendosi di mezzi idonei alla macinazione, prendendo a pretesto la cattiva qualità della farina, che, al contrario, è ottima perché‚ fornita da stabilimenti che approvvigionano altri Comuni, nei quali mai sono stati lamentati inconvenienti del genere. In quest'ultimo Comune, ove sorge a tale scopo  un comitato permanente di agitazione, si pretende persino impedire alla Commissione Militare di Requisizione il trasporto del frumento requisito e depositato in quei  magazzini statali. 

 

«A questo movimento, per ovvie ragioni di tornaconto e di  speculazione, è stata trascinata tutta la cittadinanza, e ciò ha costretto quest’Ufficio a dislocare colà  un forte nucleo di truppa allo scopo di assicurare il regolare funzionamento delle operazioni di requisizione e il conseguente regolare approvvigionamento della Provincia; d'altra parte si è interessato il Consorzio per addivenire a qualche aumento nell'assegnazione degli sfarinati  effettivamente non corrispondenti al bisogno e tali provvedimenti sono valsi ad  infrenare i più violenti e a tranquillizzare i più timidi,  esasperati al punto da indurre il Sindaco a telegrafare a diversi deputati della Provincia, sia pure di tendenze opposte, perché‚ patrocinassero presso il competente Ministero l'accoglimento dei desiderata della popolazione, anche a costo di dare soddisfazione ai socialisti, avversari irriducibili  con l'amministrazione al potere. 

 

«Anche tale agitazione è stata così ridotta in modesti confini. L’ordine pubblico anche in S. Stefano Quisquina tende a   ritornare normale. 

 

«E' naturale e logico che il succedersi ininterrotto di tutte queste agitazioni che io riferisco a codesto Ministero perché‚ si renda conto della difficoltà che quest’Ufficio attraversa quotidianamente per far fronte alle esigenze dell’ordine  pubblico e per evitare fatti che potrebbero avere su di esso grave ripercussione, ciò implichi lo spostamento continuo dei  mezzi limitati di cui dispone, e la peregrinazione continua dall’uno all’altro Comune della Provincia dei nuclei di agenti della Forza Pubblica che sono quindi distratti dai servizi di Istituto e di quelli di Polizia Giudiziaria, nelle campagne in  ispecie.

 

«Tali fatti influiscono evidentemente sulla recrudescenza dei  reati e conseguente allarme nella popolazione rurale che non  può accudire, con tranquillità, al lavoro dei campi.

 

«Si aggiunga a tali circostanze la soppressione della locale Tenenza Guardie Città, che contribuisce ad assottigliare il  numero degli Agenti disponibili, per quanto sostituiti dai soldati sui quali pochissimo assegnamento può farsi per i servizi di prevenzione e anche di repressione dei reati. 

 

«Anche ciò credo di portare a conoscenza di codesto On.le Ministero perché‚ si compiaccia esaminare benevolmente la possibilità di mettere quest’Ufficio in grado di ovviare agli  inconvenienti prospettati, aumentando convenientemente il numero dei carabinieri in Provincia, per potere, sia rafforzando le stazioni, sia costituendo nuclei speciali, porre almeno un argine al dilagare della delinquenza e della propaganda sovversiva che intenderebbe farsi a base di  intimidazioni, di sopraffazioni e di violenze.

 

 «IL PREFETTO:  Nannetti».

 

 

Un quadro di grave turbolenza sociale nella Racalmuto dell’agosto del 1920 emerge dai rapporti di polizia e dai ragguagli della prefettura al Ministero degli Interni ( [12]) Le avvisaglie della rivolta d'estate della popolazione racalmutese si erano avuti l’anno prima per il diffuso malcontento in seno agli zolfatai.

Un telegramma prefettizio (n. 4113 dell'8 luglio 1919) aveva informato il Ministero dell'Interno che «in Racalmuto centro minerario tutti zolfatai scioperarono scopo protesta contro caro-viveri ed iniziarono dimostrazione tosto sedata pronto intervento quel funzionario. Seguito promessa attuazione nuovo calmiere scioperanti si sciolsero.»

 

Nella successiva estate la faccenda si complica. Per tre giorni (dal 14 al 17 luglio 1920) si hanno -   precisa un telegramma della solita prefettura agrigentina:

 

 «dimostrazioni ostili amministrazione comunale Racalmuto, togliendosi a pretesto insufficienza e cattiva distribuzione sfarinati. Pro sindaco e giunta comunale cedendo intimazione folla tumultuante ha rassegnato dimissioni. Nomina R. Commissario imponesi perciò anche come mezzo calmare gli animi. Non avendo assolutamente come provvedere ho delegato  funzioni commissario prefettizio al V. Commissario di P.S.  Allisio Carlo già mandato in luogo finché‚ non sia possibile sostituirlo. Pregasi ratificare. Prefetto Nannetti.»

 

 Segue  un altro dispaccio al Ministero per segnalare che proprio quel diciassette luglio del 1920 una «colonna di circa tremila dimostranti tentò di saccheggiare e incendiare magazzino fave comm. Narbone (sic) un maggiorente dell'amministrazione comunale.»  Il prefetto Nannetti soggiunge        di avere chiesto al «Comm. Mori [che] sia colà [cioè a  Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che indispettisce l'on. Abisso[che] sia colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri  servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che indispettisce l’on. Abisso. Il Ministero chiede una prima delucidazione al  prefetto di Girgenti che tra l'amaro ed il velenoso così  replica il 19 luglio:

«on. Abisso che prima era un mio non desiderato laudatore sotto tutti i rapporti, oggi, per suo tornaconto politico, pare abbia cambiato giudizio [..] [E  tanto perché a Racalmuto] procedono accertamenti con arresto responsabili, ciò che non si vorrebbe dai partigiani on. Abisso, militanti partito avverso amministrazione comunale, contro cui disordini furono promossi sotto pretesto deficienza servizi approvvigionamento per i quali purtroppo si attraversa  un periodo di difficoltà non avendosi rifornimento stabile e  non riuscendo che, a stento, con grano requisito di produzione locale, soddisfare giornalmente bisogni popolazione.»           

 

I partigiani dell’on. Abisso, avversari del Nalbone ed altri componenti dell'amministrazione comunale, erano personaggi eccellenti della scena politica e sociale di Racalmuto. L'on. Abisso, per difenderli, lancia un'interrogazione parlamentare, a risposta scritta, il 7 agosto del 1920. Il prefetto è  costretto a difendersi. L'iniziale sicumera scema ed ora  chiarisce che

«V. Commissario Micucci fu da me fatto  sostituire con Allisio e Mazzora perché‚ Pro-Sindaco Racalmuto era fisso nell'idea che funzionario fosse stato influenzato dai suoi avversari, circostanza questa che dimostra infondatezza accusa on. Abisso. Quanto al tenente presidente gruppo requisizione, egli ha affermato non aver mai detto le  parole  attribuitegli da commissione zolfatai presentatasi 15 dic. mese a quell'ufficio p.s.- Ha pure affermato non avere mai ricevuto denunzie per vendite clandestine di grano a prezzi  superiori ai prescritti.»

 

 

Certo, l'on. Abisso era stato perentorio e sferzante nella sua interrogazione parlamentare. L'onorevole voleva sapere, senza mezzi termini, quali  provvedimenti intendeva prendere il Ministero «contro quei funzionari che nel loro impudente partigiano contegno  [avevano] provocato gravi tumulti nel comune di Racalmuto». La cronistoria di quei gravi tumulti la troviamo negli stessi documenti ministeriali.  

 «Telegramma 10417 da Girgenti 5.8.920: partenza ore 21.45  arrivo 6 1,30 - Min. Interni:

 

 «Dal prefetto di Catania è stato trasmesso telegramma ieri di codesto Ministero 17583 relativo interrogazione On. Abisso contro contegno  funzionari ai quali imputa tumulti verificatisi Racalmuto dal 14 al 16 decorso luglio. - Premesso che disordini Racalmuto ebbero inizio improvvisamente e che  malcontento per deficienza approvvigionamento servì per pretesto avversari amministrazione comunale per abbatterla costringendo pro-sindaco dott. ALAIMO a dimettersi, escludo  che unico funzionario in luogo Domenico Micucci all'inizio dei disordini e gli altri V. Commissario Allisio Carlo e dott. Marzani Francesco, colà andati giorno 15 per sostituirlo         perché‚ pro-sindaco ne dimostrò convenienza, abbiano provocato  essi i tumulti. Devesianzi ai funzionari P.S. se i disordini furono arginati e vinti senza conseguenze per le persone.»

 

   Segue 'dettagliata' del 23.

 

    «Aggiungo per quel conto che dovesse farsene e allo scopo di essere il più possibilmente preciso su ogni circostanza che il 15 luglio Commissione zolfatari, contadini ed operai presentossi ufficio P.S. Racalmuto reclamando sostituzione tenente quel gruppo requisizione cereali che dicevano non aver dato corso denuncia avuta vendita grano prezzo lire 170 al quintale e che alle rimostranze popolazione avrebbe risposto  "mangiate patate". In proposito riferii subito presidente Commissione Provinciale requisizione per provvedimenti caso.

 

«Presidente dispose inchiesta ma ancora non conoscesi risultato che perciò riservomi comunicare avendo fatto speciale  sollecitazione. - Prefetto Nannetti -.» 

                      

 In contemporanea, la Prefettura di Girgenti  ragguagliava il Ministero su quelli che definiva ‘i disordini di Racalmuto' nei seguenti termini:

  «Trascrivo - esordisce il prefetto Nannetti - il rapporto  presentatomi da quel V. Commissario di P.S.  - "Con riferimento a  precedente corrispondenza telegrafica, pregiomi riferire alla S.V. Ill.ma che in questo Comune serpeggiava un forte  malcontento per la deficienza degli sfarinati.                  

       

«"La mattina del 14 corrente un gruppo di circa 300 persone, all'arrivo di due autocarri carichi di pasta, li circondavano per impedire che la pasta venisse depositata nel magazzino        consorziale per tema di possibili sottrazioni. Intervenuto il V. Commissario sig. Domenico Micucci, detta pasta venne depositata in questo ufficio di P.S.  

                         

«"Nel frattempo si raccolsero circa 200 persone, che, precedute dalla bandiera nazionale, si avviarono presso l'abitazione del pro-sindaco con grida di abbasso, reclamando le di lui dimissioni.

 

«"Contro l'abitazione del pro-sindaco vennero lanciati sassi che frantumarono i vetri di tutte le invetriate.

 

«"Però, per l'intervento del V. Commissario Sig. Micucci, la  folla desistette da altre violenze e si diresse verso la casa  comunale con minaccia di saccheggiarla se il pro-sindaco non si fosse dimesso.

 

«"Poco dopo il dott. Alaimo fece sapere che egli aveva già presentate le proprie dimissioni e la folla ritornò in piazza continuando a protestare per la scarsa distribuzione degli sfarinati. Indi, mercé‚ l'esortazione del predetto funzionario, i dimostranti si sciolsero. Il quindici successivo, si ebbe altro tentativo di  dimostrazione, che, senza incidenti, venne sciolta.

 

 «"La sera del 16, alle ore 20 e 15, essendosi ad arte propalata la notizia che l'ill.mo signor Prefetto non aveva accettate le dimissioni del pro-sindaco e trattenuto a Girgenti, in segno di punizione, il V. Commissario sig. Micucci, in Piazza Umberto 1ø s’improvvisò una dimostrazione con grida 'Abbasso l'amministrazione comunale', e per l'abolizione del tesseramento al mulino per la macinazione del  grano. I dimostranti percorsero la Via Garibaldi, frantumando molti vetri delle abitazioni private, non esclusi quelli di quell'Ufficio di P.S.; e mentre lo scrivente parlamentava con il Presidente del gruppo della requisizione grano, sig. Tenente Veniero Giuseppe, per un componimento conforme ai desiderata della popolazione, parte dei dimostranti si avviò alla casa del comm. sig. Angelo NALBONE e, quivi, dopo avergli frantumato tutti i vetri, scassinarono la porta di un magazzino sottostante all'abitazione dello stesso e vi appiccarono incendio, per cui, il comm. Nalbone, per richiamare l'attenzione della forza, cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco.

 

«"Recatomi sul posto con i pochi militari dell'arma presenti, dopo aver subito fugati i dimostranti, mi diedi con l'ausilio anche dei vicini di casa Nalbone, a fare opera di spegnimento. Durante le quali operazioni i dimostranti si riversarono verso l'abitazione del pro-sindaco, ove, oltre di avergli frantumato altri pochi vetri rimasti intatti il giorno avanti, gli devastarono la villetta prospiciente all'abitazione, gli abbatterono parte della ringhiera di ferro che cingeva la villetta dalla parte della strada e tutta quella laterale che divide la villetta dal cortile d'ingresso. Tentarono pure di forzare il portone di entrata, di scassinare la porta del magazzino con cereali e quella della cantina, che resistettero, rubandogli due paia di colombi, cagionandogli un danno complessivo di L. 2.000.-

 

«"Durante tale vandalismo il Prosindaco cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco per fare ivi accorrere la forza in di lui  soccorso, ed in seguito ai quali colpi mi recai subito in luogo con i militari dell'arma, ma il furore popolare aveva già compiuto la sua opera, e, dopo non pochi superati stenti si riuscì a fare gradatamente allontanare la folla.

 

«"Dalle indagini successivamente svolte si è potuto stabilire che la causale dei disordini non è stato solamente il  malcontento per la deficienza degli sfarinati ma l'influenza politico-amministrativa locale dei maggiorenti del partito contrario, per rovesciare l'amministrazione comunale.

 

«"Accertata la responsabilità degli esecutori dei lamentati danneggiamenti, si è proceduto all'arresto di Macaluso Leonardo di Calogero, di Rizzo Eduardo fu Vincenzo, di Rizzo       Francesca di Pietro, di Ippolito Stefana di Gaetano, di Scibetta Luigia fu Luigi e Ansaldo Giovanna fu Mariano. E denunciati, per la loro irreperibilità, i nominati Grego Giuseppe di Vincenzo, Cacciato Pietro d'Ignoti, Chiodo Giuseppe fu Calogero, Campanella Salvatore fu Antonio, Cino Francesco fu Calogero, fratelli Giuseppe e Luigi Lo Bue e Giuseppe Castelli d'Ignoti, siccome tutti esecutori materiali;  e denunciati inoltre per istigazione il comm. Giuseppe Bartolotta fu Luigi, l'avv. Emanuele Cavallaro fu Felice, Luigi Messana di Emilio, Alfonso Vinci di Giuseppe, Nicolò  Sferrazza di Carmelo, Nestore Falletto fu Luigi, Francesco Caratozzolo fu Felice e l'avv. Calogero Picone Chiodo fu Giuseppe”. Il Prefetto Nannetti.»

 

                            

Quelle suffragette in formato paesano e racalmutese trascondono la nota di colore. Alla testa di quel codazzo manzoniano, tutto preso  dal pane e dalla farina in termini di un più o meno convinto populismo, erano donne fiere, irrituali, imperiose, ardenti e passionarie. Ombre fluttuanti nelle memorie dei racalmutesi. Annidda la Pisciara o Carmela l'Acqualora erano come loro se non loro. In una Racalmuto maschilista, prevenuta contro le donne, un po’  codina, quegli esempi di         ribellismo femminile sono eccezioni, ma pur sempre casi di rimarchevole ribellismo.

 

 

PARTE SECONDA

[13]L’AFFERMAZIONE DEL FASCISMO A RACALMUTO

 

 

Il QUINQUENNIO 1926-1931

 

L’antifascismo a Racalmuto.

I paradigmi della società contadina meridionale quali si colgono nella letteratura antifascita di Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) o di Ignazio Silone (Fontamara) non trovano riscontri significativi nella vicenda racalmutese che pure si dispiega tutta in un contesto di contadini e di piccoli proprietari terrieri. Quel che emerge maggiormente è il diverso livello di vita ed il più variegato assetto sociale.

Ci pare esplicativa, invece, del modo di pensare dell’intera comunità nazionale questa pagina de IL CONFORMISTA di Alberto Moravia, espunta ovviamente delle particolarità narrative. Era sorta a Racalmuto, come altrove, una sorta di “simmetria” tra il modo di pensare del singolo ed il fascismo divenuto regime: «come qualcuno che, arredando la propria casa, si preoccupi di collocarvi mobili tutti dellom stesso stile.» «Questa simmetria, [ad ognuno] pareva di leggerla nei fatti degli ultimi anni, in progressivo accrescimento di chiarezza e di importanza [..] Questo progresso [..] piaceva, non [si] sapeva perché, forse perché era facile ravvisarvi una logica più che umana e saperla ravvisare dava un senso di sicurezza e di infallibilità. [..] Questa convinzione era venuta dal nulla, come  è da credersi che venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come si intende quando si dice che un’idea è nell’aria. [..] Per simpatia, insomma, dando a questa parola un senso tutto irriflesso, alogico, irrazionale. Una simpatia  che si poteva dire soltanto per metafora che veniva dall’aria [..] Questa simpatia, dunque, veniva da zone più profonde [..] non era né superficiale, né abborracciata irrazionalmente e volontariaemnte con ragioni e motivi opinabili, ma legata ad una condizione  istintiva e quasi fisiologica, ad una fede, insomma, che [si] condivideva con altri milioni di persone. [Si] faceva tutta una cosa sola con la società e il popolo in cui [ci] si trovava a vivere. [..] [Si] era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata..»a

Massimo Ganci - un uomo di sinistra e quindi piuttosto prevenuto nei confonti del fascismo - non ha molto da dire sul periodo che a noi interessa e nella sua “Sicilia contemporanea” affidata alla ponderosa inziativa del 1979 della Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, si limita ad annotare:

«Dopo le elezioni e la vittoria fascista del ‘24, il quadro cambierà completamente: l’appoggio della mafia diverrà, infatti, deliqualificante e inutle. A mantenere l’ordine nelle campagne e ad accattivarsi i grandi terrieri, non era più necessaria l”onorata società”; poteva farlo, e molto meglio, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Anzi, per accattivarsi ancora di più il ceto dei latifondisti ed anche quello dei piccoli e medi proprietari, bisognava liberare le campagne dei gabelloti mafiosi che impedivano ai signori addirittura il libero accesso alle loro terre e taglieggiavano i metateri e i braccianti.

«Di qui l’operazione Mori, che con sistemi ‘forti’, dal 1920 al 1930, realizzò, nelle quattroprovince dell’isola, una spetata ‘operazione antimafia’; con paesi interi circondati nottetempo da migliaia di carabinieri, con retate gigantesche, con processoni celebrati in chiese sconsacrate, dato che le normali aule della  Corte d’Assise non riuscivano a contenere le migliaia di imputati di associazione a delinquere; il tutto con criteri procedurali piuttosto sbrigativi, che portavano a pesantissime condanne, cui seguiva il confino. I tempi dell’assoluzione per insufficienza di prove, erano tramontati.

«[..] E’ [però] certo che dal 1930 sino al 1943, la tranquillità regnò nella campagna siciliana: per i ricchi, ma anche per i poveri. Di guisa che, se la parola libertà ha un significato concreto e non formale e significa anche sicurezza della vita e degli averi, paradossalmente si deve giungere alla concertante presa d’atto che questo tipo di libertà venne assicurato alle genti siciliane, proprio da una dittatura!

«[..] L’opposizione siciliana al fascismo, durante gli anni 1925-1943 è in gran parte simile a quella di tutta la nazione. Se qualcosa la distinse fu l’impegno minore di quello che caratterizzò altre regioni. Come non era stata all’avanguardia nel favorire l’avvento del fascismo, la Sicilia non lo fu neppure per contestarlo.

«Comunque qualcosa ci fu. Negli anni sino al 25 il dissenso passò attraverso i canali della stampa. Si distinsero per decisione il ‘Babbio’ di Maggiore Di Chiara, il ‘Paff Paff’ di tendenze radicaleggianti, ‘La libertà’ organo dei popolari sturziani (‘La Primavera Cattolica, organo dell’Azione Cattolica siciliana, era invece su posizioni fasciste), tutti stampati a Palermo.» ([14])

Restringendo il campo a Racalmuto, l’antifascismo nel periodo che c’interessa (1926-1931) fu ben poca cosa: può dirsi inesistente. La letteratura ci fornisce qualche lume. Il solito grande Sciascia ha nelle sue “Parrocchie di Regalpetra” questi deliziosi aneddoti:

«Mio padre si era iscritto al fascio per lavorare: 3 ma credeva in Mussolini anche se non credeva nel fascismo. Un fratello di mio padre non si preoccupava di queste cose; faceva il sarto e aveva per la caccia una passionecosì totale da trascurare qualsiasi altra cosa. [...] Le poche volte che nelle riunioni della sartoria cadeva su Mussolini mio zio diceva - è un diavolo - per dire che si sapeva fare; oppure per dire che era un delinquente - è un gran cornuta - ma sempre senza passione. Una volta aveva un lavorante milite, voleva andarsene a non so che campeggio, mio zio non voleva perché si era sotto le feste e c’era molto lavoro. Quello andò a dirlo al centurione, il centurione fece chiamare mio zio, gli disse che doveva lasciar  libero il lavorante e poi riprenderlo. se no erano guai. Forse da allora mio zio ebbe sul fascismo più appassionata opinione.

«Qualche volta veniva un altro cugino di mio padre. Era ricco. Aveva una voce che faceva tremare i vetri. Oggi è fascista. Allora gridava - ve lo dico io, questo cornuto ci porterà alla rovina. Pensava alle tasse che pagava e diceva - vedrete che ci lascerà nudi, finirà che ci resteranno solo le mani per coprirci il culo. Raccontava poi una storia che solo più tardi sono riuscito a ricostruire. Aveva dato la lira per il monumento a Matteotti e quando più tardi aveva fatto domanda per essere ammesso al fascio, il segretario politico gli aveva detto che il partito non voleva carogne, che gli elenchi di coloro che avevano dato la lira erano nelle sue mani. La cosa colpì; ci si arrovellava. Finché trovò una soluzione: c’era un suo parente povero che aveva cognome e nome uguale al suo; grazie a qualche centinaio di lire gli fece dichiarare, per iscritto e in presenza del segretario politico, che era stato lui, il povero, a dare la lira per Matteotti. Il povero non aveva niente da perdere, magari ad andare in galera gli pareva forse uno scialo in confronto alla vita che faceva.

«Tranne che per qualche piccola invettiva, del fascismo e di Mussolini non sentivo parlare che bene [..] Sapevo che c’erano dei sovversivi, gente che non lovoleva: sentivo parlare di un muratore e di un sellaio, erano socialisti, li mettevano dentro per due o tre giorni e poi li rilasciavano. Passò Farinacci, e il muratore e il sellaio se ne stettero un paio di giorni in camera di sicurezza. Re Boris venne per sposare Giovanna, avevo una cartolina con i due ritratti uniti da un nodo, e i due furono rinchiusi di nuovo. Una volta sentii che avevano messo una bomba al passaggio del re. Poi avevano preso un tale che aveva intenzione di ammazzare Mussolini. Erano cose che mi scuotevano. Odiavo la gente che metteva bombe per il passaggio del re, l’uomo che si portava dietro le bombe per ammazzare Mussolini. E mi pareva strano che non cacciassero per sempre in galera un tipo che sapevo diceva male di Mussolini. Si chiamava Celestino. Dicevano che era stato un debosciato, che non aveva mai lavorato. Era poverissimo, dormiva in uno di quei casottiche un tempo servivano da posti di dazio; sulla paglia, e con la porta sempre aperta. Non aveva camicia, portava solo un vecchio fazzoletto di seta sotto la giacca. Magrissimo, d’inverno vedevi le sue gambe fragili tremare di freddo dentro i leggeri calzoni a tubo. Sempre strozzato dalla voglia di fumare, andava in cerca di cicche più che di pane. Nella banda municipale, un tempo suonava il clarino: e sempre aveva dentro musica, andava fischiettando e agitava a ritmo una bacchetta che non lasciava mai. Lo vedevo scendere ogni mattina, sapevo quale sarebbe stata la sua prima sosta. Era come un rito. C’era nella strada dove io abitavo, un negoziante di stoffe che teneva appesi sugli scaffali ritratti del re, della regina e del duce. C’era anche un Cuore di Gesù col lumino sempre acceso. Il negoziante non amava il fascismo, diceva che Mussolini faceva danno come un porco in una vigna; perciò tollerava la quotidiana visita di Celestino. Il quale si fermava sulla soglia, salutava - bacio le mani, don Cosimo - e poi, guardando il ritratto di Mussolini, diceva - sì, corri pure; ma verrà il giorno che ti vedrò attavvato alla coda di un cavallo. Guardava il re - e tu, cornuto...; e sputava. Dopo una irripetibile attenzione al Cuore di Gesù riprendeva la sua strada fischiettando.

«Non lo mandavano in galera perché sapevano gli avrebbero fatto piacere. Ma una volta un fascista tentò di convincerlo. Parlava e gli dava da fumare. Celestino succhiava avido la sigaretta, e aveva una faccia così intensa e seria che quello credette di aver fatto colpo. Finì il discorso e - sei convinto? Celestino consumò la sigaretta fino a bruciarsi le labbra; e poi - convinto sono, ma il fatto è che se non lo ammazzano non riusciremo a vedere un po’ di luce.

«Si fece il referendum per vedere, dicevano, chi voleva il fascismo e chi no. Si votava nelle scuole. Nel paese non ci fu un solo no. Del resto, l’ultima amministrazione comunale democratica aveva deliberato di dare a Mussolini la cittadinanza onoraria: non sarebbe stato bello dire no a un concittadino tanto grande. Così tutti trovarono il veterinario comunale che dal seggio graziosamente porgeva la scheda con un sì in calligrafia. Non restava che da leccare la colla, chiudere la scheda e ridarla al veterinario. Uno solo, un ex maresciallo delle guardie regie, guastò la giornata al veterinario: sbirciando la scheda con quel sì gliela lasciò in mano, disse - prego, ci sputi lei. E se ne andò tranquillamente. Volevano poi farlo mandare al confino. La frase restò proverbiale in paese, si dice - ci sputi lei - per dire di una cosa che, dichiarata facoltativa, è di fatto obbligatoria.»(4)

«L’ex podestà di Regalpetra [..] godeva di una effettiva popolarità, era stato generoso ed onesto, amministrando il Comune ci aveva rimesso del suo; in tempi di proverbiale rapacità, quest’uomo metteva mano ai suoi soldi per le pubbliche spese, forse nemmeno Mussolini lo avrebbe creduto.» (5)
Oltre a Sciascia, Racalmuto vanta un altro romanziere. E’ per la verità un italo-americano. In un romanzo del 1973 (pubblicato in Italia nel 1976 da Mursia) fa la parodia ad un libro autobiografico (invero illeggibile) di un prete racalmutese, morto a Palermo il 17 gennaio del


[1]) Storia d’Italia -  Einaudi Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità ad oggi - pag. 2145.
[2]) Ernst Nolte - I tre volti del fascismo - Oscar Mondadori 1978 - p. 316.
[3]) Si sogliono chiamare leggi fascistissime i tre seguenti gruppi di legge: a) «le leggi di difesa»; b) «le leggi di riforma costituzionale» e c)  «le leggi di riforma sociale». Con le prime leggi s’introducono i tribunali speciali; con le leggi di riforma il capo del governo è anche capo dei ministri ed il parlamento si trasforma in un’assemblea di partito; con le leggi di riforma sociale si istituisce lo “stato corporativo”. 
[4]) Francesco Renda - Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 372 e segg.
[5]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - Comuni - busta n.° 2069.  
[6]) Dalle citate carte dell’Archivio Centrale dello Stato emerge che il Galatioto fu poi cacciato dal Partito Fascista. Galatioto era accusato - a dire del solito prefetto Rivelli - di ostacolare “l’opera di risanamento  intrapresa dall’on. Starace”. Il 10 dicembre 1925  il prefetto telegrafa che «Tale atteggiamento indusse questi [Starace] a decretare l’espulsione dal partito, per gravi atti di indisciplina, del predetto segretario provinciale  cav. Galatioto, e del sindaco di Ravanusa signor Calogero Vizzini.»
[7]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 110.
[8]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P. S. 1925 - busta n.° 107.
[9]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 113.
[10]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 103.
[11]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag.358 e segg.
[12]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1920 - busta n.° 89.
1) Alberto Moravia - Il conformista - I Grandi Tascabili - Bompiani - gennaio 1994. Pag. 69 e seg.
2) Massimo Ganci - La Sicilia Contemporanea in Storia della Sicilia vol VIII, pag . 230 e segg.
3 ) Nelle scartoffie ammucciate al Castello è reperibile un foglio dattiloscritto, liso e consunto, ove figrano i dato dell’iscrione al fascio, nel 1926, del padre di Leonardo Sciascia. Non saremmo tanto sicuri che vi si sia iscritto “per lavorare”. Quei tempi non erano ancora giunti. La presentezione da parte del cognato, il prof. Farrauto, neo-gerarca locale, la dice lunga sull’accondiscenza dello Sciascia padre ai fervori organizzativi “segretario politico” del P.N.F. racalmutese, il prof. Farauto, appunto.
4 ) Leonardo Sciascia - Le parrocchie di Regapetra - in Opere vol I Bompiani Editore, Milano,  IV Edizione giugno 1990, pag. 35 e segg.
5 ) Ibidem, pag. 70.

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