Racalmuto
si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è
quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici 1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i
quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo
emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel
periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello
naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello
successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una
immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il
sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
([1])
Rispetto
alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il
seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto
al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto
scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi
d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.
Eugenio Napoleone Messana ([2],
uno storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è
alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive
in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([3])
Quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, nato nel 1921,
qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce.
Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa
antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna
depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche
volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un
riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare con devozione quasi filiale la famiglia di
una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si
riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a
Racalmuto, in questo passo molto efficace ([4]):
«Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al
momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è
mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in
fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e
giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico
chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe
borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del
travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente
in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti.
Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché
un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle
parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse
“una strana quanto benefica mancanza
di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la
scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona
salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di
malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine,
l’esilio»
Sui
rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul
Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non
sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un
lavoro di Christopher Duggan ([5])
«L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo
fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di
sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in
Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già
fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la
mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo,
altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo
vigore aveva l’istanza rivoluzionaria
degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni
per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che,
prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni
settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di
polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti
delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di
restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più
inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da
Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che
erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la
proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori,
insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.
[...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello
stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del
dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire
per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile
successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche
il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra
che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne
può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione,
internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e
incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile
era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine
pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva
essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarrre,
per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da
tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo
accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico
mancando.)» ( [6])
Qualche
giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda
della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene
chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla
Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di
incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([7])
la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del
mafioso antifascista.» ([8])
In
altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che
stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del
pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina
il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la Kermesse
della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa
diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da
un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più
stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi diseducazione, di
adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più
balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo,
venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato
sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta
semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno
dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di
odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([9])
A
voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°)
l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di
fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola
(documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°)
in loco l’antidoto al socialismo era
costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già
fascismo”;
3°)
ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)°
“era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al
fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”.
(Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore
Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma,
s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come
si è visto, al fascismo):
5°)
ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante
miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi
puri del fascismo degli ex-nazionalisti;
6°)
degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”;
“ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura
affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario
della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta
vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a
seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°)
giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle
sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli
esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed
appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da
considerala inesistente;
8°)
inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse
nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°)
l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia
sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°)
vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia
perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De
Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°)
è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella
classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la “carta del lavoro”
aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte
sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere
d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12)
è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al
luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda
locale prima del 1925.
Quando
il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini
pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta
alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto
ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista
di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da
tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La
Giustizia sociale», di «Riscossa»
e di certi «opuscoli editi dal Comitato
Regionale della Federazione socialista Ligure» .([10])
Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è
laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle
letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle
malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la
storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia
dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito
socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire
in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio
negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A
noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([11])
abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([12])
del fascismo e i suoi coevi esaltatori([13]):
non sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio
dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo
fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’
«Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e
qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si
cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla
direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca,
permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova
neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè
di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di
andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari
alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi
sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ...
ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è
divenuta insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di
natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali
dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza
spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere
assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini
sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi
giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre,
Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel
quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da
sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui
che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto
pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione.
Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e
nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un
abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre,
Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il
15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’
perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento»,
che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un
uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di
pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini,
ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col
direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui,
egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere
tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente
chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non
si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si
siano assunti il compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i
circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del partito socialista.
Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale,
divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la
supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo
interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo,
immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la
domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito
era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il
sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini
si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a decidere
in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un uragano di
ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un linciaggio morale
nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti italiani si schierò
dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua parte neppure una
minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e insieme quella che
avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»
Da
qui «prese le mosse una polemica della
massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste
le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione
fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini
era adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo
gruppo di individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si
raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava
con se stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci
interventisti, sotto la guida di Filippo
Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre
questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria»,
la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il
proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto,
Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià
socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione
dei fatti» [...]».
Ma
tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe
essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa
alla biografia di Mussolini» (op. cit.
pag. 226).
Le
vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di
Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella
solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli
agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si
confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era
appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte
alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse
erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore
gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a
33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti
quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo).
Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il
diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo
nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una
qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto
limitata, anche a credere a quello
storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe
limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla
politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu
rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola
suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non
andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il
diabete.» ([14])
In
ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto
solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione
rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben
diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19
marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato
nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili
alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè
di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a
Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a Milano per esercitarvi la
professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a
Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana
così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il
notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un
sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che
amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e
persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano
e vi morì». ([15])
Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel
giornaletto locale del maggio 1993 ([16])
« ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia
con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui
facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla
fondazione dei fasci di combattimento,
dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per
diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani
a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino
ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla
celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico
centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.°
6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a
Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il
15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il
24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo
(fasc. 17912) nato a Grotte il
2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente,
all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti,
antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il
richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve
per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure
d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato.
Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la
risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI.
Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il
24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv.
Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879
(e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via
Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.
«Coniugato con Passoni Maria di
Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome
Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del
Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto
al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [17])
[1])
Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario
Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I
villaggi minerari (1937-1942)
in Economia e società nell’area dello
zolfo - secoli XIX-XX -
Sciascia Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[2]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 443.
[3]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione
Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag.
14.
[4]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio
- nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano
1987, pagg. XIII e XIV.
[5]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli,
1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di Oxford
ed allievo di Denis Mack Smith»
[6]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 126-128.
[7])
crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i
fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di
Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo
stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che
ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui
era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I
due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri
atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per
converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in
positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro
scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di
Pannella.
[8]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 138-139.
[9]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in Malgrado
tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII
n.° 4, pagg. 4-5.
[10]) Archivio Centrale
dello Stato - Casellario Politico
Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°
16434.
[11]) Ernst Nolte - I tre volti del
fascismo - Oscar Mondadori 1978 - pp. 252-254.
[12]) Tra i tanti includiamo
l’opera del Ragionieri che abbiamo già citata.
[13]) Valga per tutti il
lavoro prima richiamato di Francesco Ercole.
[14]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[15]) ibidem, pag. 345.
[16]) Malgrado tutto - periodico
cittadino di Racalmuto - maggio 1993 Anno XII n.°2, pag. 3.
[17])
Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta
n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta
Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
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