mercoledì 23 settembre 2015

fascismo di paese


PARTE PRIMA

RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL  FASCISMO A RACALMUTO

 

 

Verso il periodo podestarile

 

*  *  *

 

Criteri periodizzanti

 

L’oggetto della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale, organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda l’istituto podestarile.

 

Per convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia, ormai sterminata, sul fascismo.

 

Sono criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista definendola «funesto regime che è stato una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([1]), non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la “rivoluzione fascista”.

 

Per l’Ercole ([2]), ad esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla “marcia su Roma”  al discorso del 3 gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle “corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista - dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23 marzo-28 ottobre 1922. 

 

Ma nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma  e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava  nel dicenbre del 1924 che era giunto il momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata “insurrezionale”, ‘violenta’,  che non è da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino  a conclusione della crisi aventiniana. Per l’Ercole (op. cit. pag. 232)  «la reiterata minaccia della cosiddetta seconda ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed effimeri» ([3]). Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura antifascista del dopo guerra. ([4])

 

In campo cattolico, Gabriele De Rosa ([5])  adotta la data del 3 gennaio 1925 per una svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre 1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).

 

Quanto allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il dicembre 1925 ed  il gennaio 1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([6])

 

In campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag. 2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo.  Solo «un muoversi a tentoni .. nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 - cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri decisivi del potere economico, finanziario e politico». ([7])

 

Quanto alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36, 1936-39, 1939-43.» ([8]) Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il  rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936 viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401). 

 

Il Lupo, ([9]) un affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del fascismo siciliano come “utopia totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve) trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e verticale dove le autonomie  e i conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi incoffessabili» (v. pag. 429). Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal 1927-1929 viene messo “alla prova” fino al 1939, quando esplode «l’ultima impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».

 



[1]) Benedetto Croce, STORIA D’ITALIA dal 1871 al 1915, Bari 1977,  pag. VIII. Una “parentesi”, comunque che bisognerebbe far partire appunto dal 1928; prima il Croce era stato tutt’altro che pregiudizialmente “antifascista”.  Al tempo dell’ «Aventino» il filosofo napoletano affermava che «non si poteva aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo, sul quale formulava il seguente giudizio:  «esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni ed ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione. Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non lasciare disperdere i benefici del fascismo, e din non tornare alla fiacchezza e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra parte, c’è il sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di trasformazione  [cit. Da Antonio Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990, pagg. 264-265]. Risale al  maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti, attribuibile al Croce,  in risposta al gentiliano Manifesto degli intellettuali fascisti. [Vds. Storia d’Italia - Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità ad oggi - pag. 2174].
[2]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni Editore Palermo 1936. Per la “vigilia” della “rivoluzione fascista”  cfr.  pagg. 77-154; per il “primo tempo” pagg. 155-274; per il “secondo tempo” pagg. 278- 447.  Dopo il 1934, avremmo lo stato fascista corporativo.  L’Ercole adotta la terminologia dei “due tempi della rivoluzione” nel ligio rispetto del frasario mussoliniano. Mussolini, infatti, in Gerarchia del 1925, p. 120-121 aveva intitolato un suo intervento “Il primo tempo della Rivoluzione” e nella stessa rivista (pag. 44) distingue tra primo e Secondo tempo. Francesco Ercole, professore di storia moderna all’Università di Palermo, fu un ex nazionalista passato nel fascismo sin dalla prima ora di quella nota confluenza. Siciliano di adozione, fu deputato anche nelle speciali elezioni del 1929 e del 1934. Ministro della Educazione nazionale per un breve periodo, tra il 1932 ed il 1934, è una figura d’intellettuale apprezzata anche dalla storiografia di “sinistra” meridionalista. Dice, ad esempio, Francesco Renda (Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 362) che il fascismo, con  con l’adesione dei “nazionalisti siciliani” tra i quali l’Ercole,  «si arricchì delle prime personalità politiche e culturali di rilievo, che gli diedero dignità e prestigio di forza di governo pure nella dimensione regionale
[3]) Benito Mussolini - Il 1924 - vol. IV Milano HOEPLI 1934-5, pag  236.
[4]) vedasi ad esempio Ernesto Ragionieri nella cit. Storia d’Italia, pag. 2145.
[5]) Gabriele De Rosa - i partiti politici in Italia - Bergamo 1972. Stralciamo da pag. 280: «Con il discorso del 3 gennaio 1925 Mussolini riprese in mano la situazione politica, neutralizzò ogni possibile e lontana intesa della Corona con l’opposizione aventiniana, dette un giro di vite nella politica interna aggravando i controlli polizieschi sulle opposizioni e sugli stessi fascisti intransigenti, ma impedì ancora una volta, come ormai aveva fatto dalla «marcia su Roma» in poi, che nascesse una seconda ondata sovversiva del fascismo. Con il discorso del 3 gennaio 1925, in altri termini, Mussolini non liberò le mani ai fascisti intransigenti, non li gettò contro gli istituti dello Stato liberale, ma li contenne nell’ambito della collaudata prassi della politica controrivoluzionaria da lui perseguita sin dall’epoca dei «blocchi nazionali», cioè sin dalla partecipazione alle elezioni politiche del 1921 nelle liste liberali. I fascisti intransigenti  si accorsero, impotenti, del guoco di Mussolini, che arrecava un grave colpo anche al ‘fascismo rivoluzionario, legandogli le mani con dei provvedimenti soltanto in apparenza rivolti contro gli aventiniani, e in sostanza rivolti contro le minoranze fasciste decise a tutto’
[6]) Renzo De Felice - Mussolini il fascista, Einaudi, Torino, 1966, p. 729.
[7]) Precedono il passo questi illuminanti passaggi: «La scelta della dittatura aperta era rispondente ad un disegno precostituito, accarezzato da Mussolini fin dal suo avveno al potere, o non fu piuttosto, come talune testimonianze asserirono  e alcuni storici ribadirono in seguito, un evento incidentale, imposto dalle circostanze seguite al delitto Matteotti? Si è scritto che il delitto Matteotti fu gettato tra i piedi di Mussolini [opinione  avanzata  C. Silvestri,   Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Roma 1947, ripresa da R. De Felice, Mussolini il fascista vol. I cit.  e confutata da  L. Valiani, la storia del fascismo nella problematica della storia contemporanea e nella biografia di Mussolini, in ‘Rivista storica italiana’, LXXIX, 1967, pp. 474-79], che esso costituì un intralcio sulla via della normalizzazione e della costituzionalizzazione del fascismo, giungendo a suggerire che la responsabilità prima del 3 gennaio sarebbe attribuibile all’atteggiamento intransigente degli aventiniani che non lasciarono a Mussolini alcuna via d’uscita se quella del colpo di forza.
Affermazioni simili sono, in verità, risibili: tutta l’evoluzione delle vicende successive all’ottobre 1922 ha mostrato sia la sterilità e la strumentalità dei propositi di normalizzazione del fascismo, sia l’introduzione da parte del fascismo nel tessuto istituzionale e sul piano della prassi di governo di elementi che segnavano già una sensibile trasformazione dell’ordinamento costituzionale in senso autoritario. Se non può parlarsi di un disegno coerente ed organico, ché il fascismo mostrò spesso di muoversi a tentoni e con ampi margini di manovra, pu nella persistente fedeltà all’obiettivo  di fondo che Mussolini espresse sinteticamente nel motto ‘durare’, si può dire che lo sbocco dittatoriale era nella logica delle cose ..
[8]) Francesco Renda, op. cit.,  pag. 374.
[9]) Salvatore Lupo - L’utopia totalitaria del fascismo (1918-1942) in  Storia d’Italia - Le regioni - dall’Unità a oggi -  La Sicilia - Einaudi  1987 - pagg. 380- 482.

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