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venerdì 11 dicembre 2015

Alla funzione ludica del sesso, si aggiungeva anche quella apotropaica.

la storia

Quei quadretti «osceni»
nelle antiche case perbene

Il piacere era gioco, la pornografia sconosciuta.
L’erotismo dell’età classica e il nostro sguardo inadeguato


Quando ci accostiamo alle rappresentazioni erotiche provenienti dall'antichità che chiamiamo classica, lo facciamo, spesso, partendo dal presupposto che i greci e i romani concepissero e vivessero il sesso come noi. Mentre così non è: anche in questo essi erano diversi da noi. E tra le differenze che ci separano, una (in particolare in materia di erotismo, ma ovviamente non solo), è assolutamente fondamentale: quella legata all'avvento del cristianesimo, con i divieti e i tabù che questo portò con sé (diversi da quelli pagani), e il diffondersi dei sensi di colpa legati alla concezione del peccato, del tutto ignota al paganesimo.
Conseguenza: lo scandalo odierno di fronte a rappresentazioni erotiche che allora non scandalizzavano nessuno. Un esempio: quando ebbero inizio gli scavi nei siti di Ercolano e Pompei (rispettivamente nel 1738 e 1748), vennero alla luce una serie di reperti considerati «osceni»: pitture riproducenti accoppiamenti sessuali, statuette di personaggi dal fallo smisurato, oggetti di ogni tipo con decorazioni falliche... Un pezzo, in particolare, suscitò enorme scalpore: la celebre scultura in marmo (ritrovata nel 1752 nella Villa dei Papiri di Ercolano), che rappresentava l'accoppiamento tra il dio Pan e una capra. Il divieto regale di mostrarla fu così drastico che non fu concesso di vederla neppure a Winckelmann, il grande archeologo prussiano in visita a Napoli.
Tutti gli oggetti considerati scandalosi vennero raccolti in collezioni riservate, confluite poi nel Palazzo degli Studi di Napoli adibito a Museo Nazionale, dove venne realizzato un «Gabinetto degli oggetti osceni», che, dopo vari mutamenti di nome e di collocazione, rimase chiuso al pubblico sino al 2000 (eccezion fatta per gli studiosi e le persone munite di speciale permesso). Se lo sapessero, gli abitanti del mondo romano e romanizzato trasecolerebbero: per loro nessuna di quelle rappresentazioni era «pornografica», come del resto emerge chiaramente dalla loro collocazione originale. I vasi, le lampade, gli oggetti a soggetto erotico, le pitture murali «oscene» abbellivano le case d'abitazione di normalissimi cittadini: alcuni quadretti erotici decoravano le stanze da letto di coppie che oggi definiremmo borghesi e le pareti dei loro triclini, le stanze in cui come è noto si ricevevano gli ospiti invitati a cena. Ma c'è, tra tutti, un caso particolarmente interessante, che non solo conferma gli equivoci ai quali può portare la mancanza dello «sguardo da lontano» con cui è necessario guardare al passato, ma anche e soprattutto mostra come l'incapacità di storicizzare l'erotismo sia ancora tra noi. Quando, nel 2001, vennero aperte al pubblico le «Terme Suburbane» di Pompei, appena scavate, fecero enorme scalpore le pitture che decoravano la parete dell'apodytérion, il locale nel quale i frequentatori del locale deponevano gli abiti, prima di entrare nelle stanze e nelle piscine calde e fredde nelle quali si sarebbero successivamente immersi.
La Venere callipigia, in greco «dalle belle natiche», I sec. d.C.
Erano otto scene erotiche, alcune delle quali rappresentavano un rapporto sessuale di gruppo e pratiche di sesso orale (in un caso, tra donne). Immediatamente, quasi automaticamente, si pensò che nel locale agissero professionalmente delle prostitute. Chi mai poteva frequentare un locale simile, se non donne di quel tipo e i loro clienti? E questa è ormai l'opinione tralatizia in materia, del tutto inconsapevole del fatto che l'archeologa che ha scavato le terme, Luciana Jacobelli, ne avesse dato un'interpretazione diversa (tra l'altro accolta con notevole favore dalla comunità scientifica): le raffigurazioni erotiche facevano parte di una specie di gioco.

Esse erano collocate, infatti, sopra altrettanti elementi rettangolari simili a delle scatole nelle quali venivano collocati i vestiti, su ciascuna delle quali erano apposti dei numeri. L'accoppiata numero-figura Veneris, dunque, aveva la funzione di aiutare i clienti a ricordare il numero della scatola. E al contempo rallegrava il tempo del riposo consentendo lo scambio di battute e scherzi salaci (molto diffusi nell'antichità romana). Il locale, insomma, era un normale edificio termale, frequentato da persone di ogni genere, anche assolutamente «per bene», che da simili immagini non erano né turbate né scandalizzate: nel mondo pagano il sesso aveva anche una dimensione ludica, che l'etica cristiana ha fatto dimenticare.
E per finire: dai muri delle case pompeiane svettavano oggetti oggi inconsueti nelle strade di una città, vale a dire dei bassorilievi che rappresentavano dei falli, attorno a uno dei quali si legge a chiare lettere: hic habitat felicitas. Qui abita la felicità. Alla funzione ludica del sesso, si aggiungeva anche quella apotropaica.
Eva Cantarella

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