Il sac. Mantione, così anonimamente infangato dal nordico
prefetto, resta d’incerta individuazione - salvi gli apporti di ulteriori
ricerche d’archivio - essendo due i sacerdori con quel cognome operanti in quel
tempo a Racalmuto: Annibale e Giuseppe. Nei nostri archivi informatici
ritroviamo:
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DIACONI E CHIERICI
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1
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1851
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ANNIBALE
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MANTIONE
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13
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1851
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GIUSEPPE
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MANTIONE
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A.26 PALERMO CAPP. OSPEDALE
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ANNO 1873
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17
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1873
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GIUSEPPE
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MANTIONE
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A.49
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19
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1873
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ANNIBALE
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MANTIONE
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A.45
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ANNO 1878
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3
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1878
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GIUSEPPE
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MANTIONE
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Nel “liber in quo adnotantur ... nomina
sacerdotum “ della Matrice sono così contrassegnati:
n.° 420: D. Annibale Mantione, Mansionario, obiit 27 Maji
1882;
n.° 429: D. Giuseppe Mantione, obiit 4 Aug. 1888.
Si è certi che entrambi i preti Mantione si godevano ora i
frutti della parsimonia del loro zio canonico. Contro costui noi non siamo
nuovi nello scriverne contro corrente. Citiamo questo passo.
Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa ce l’ha: per
mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza
religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto
non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi
è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed
una sacralità superiori allo stesso
interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva
permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi
occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi.
Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile.
Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma
la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima
chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle fonti, al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208
(Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse
realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite
pastorali agrigentine).
Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del
Purgatorio viene riadatta, o edificata (o riedificata) la novella chiesa di S.
Rosalia che resiste sino al 3 giugno
1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata barattata dal
can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.
Ma già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il
vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozzini nella visita pastorale del 1732. Vi si riferisce il § IX ove è inclusa
nell’elenco “delle processioni” quella di “S. ROSALIA”.
* * *
Ma ritorniamo a quell’insolito quadrilatero: il prefetto
Falconcini, il sindaco di Girgenti Mirabile, i Matrona ed i Farrauto. Data:
ottobre 1862.
Il sindaco Mirabile entra in fibrillazione: convoca i nostri
Matrona e Farrauto: non si poteva scherzare; quello - il pefetto - aveva
davvero brutte intenzioni. Prosternazioni, costernazioni, intenti
ultrapacifici, promesse, retorica. Il 5 ottobre il sindaco scrive al «signor
Prefetto, ... la pacificazione dei signori Matrona e Ferrauto è riuscita nel
modo il più soddisfacente ..... concorse moltissimo l’ottimo giudice di
Racalmuto sig. Vaccaro .... » Firmato: il sindaco Giuseppe Mirabile.
E non basta, viene redatto addirittura un “processo verbale
della pace fatta fra i Matrona e Ferrauto”. Confidiamolo: i galantuomini di
Racalmuto hanno fama - almeno tra il popolino al quale apparteniamo - di essere
“falsi e burgiardi”, sommamente ipocriti. A leggere quel verbale se ne ha una
prova lampante. «L’anno 1862 il giorno 5 ottobre nel Municipio di Girgenti.
Innanzi noi Giuseppe Mirabile sindaco della città di Girgenti,
«Vista la riverita officiale del sig. prefetto di questa provincia
del tre andante ... dietro invito ... si sono a me presentati i sigg. D. D.
Giuseppe e D. Gasperino Matrona, non che il sig. D. Alfonso Ferrauto, e D. Baldassare Grillo.
«I suddetti .... scancellarono ogni malinteso, suscitato da
tristi e malvolenti ... e profondamente inteneriti scambievolmente
abbracciandosi protestarono di non aver mai nutrito odio o rancore ... Vennero
a santificarle con solenne giuramento pronunziato sul proprio onore.
« Firmato: Giuseppe Matrona; Alfonso Farrauto; Gaspare Matrona;
Baldassare Grillo - Giuseppe Mirabile, sindaco.»
Giuseppe Matrona era figlio di Pietro Matrona ed era nato il
15 settembre 1828; gli era fratello Gaspare, nato l’11 settembre 1835; Alfonso
Farrauto fu Francesci era nato il 9 agosto 1829.
Il Falconcini ci regala anche alcune note di cronaca che
vogliamo qui risportare. «Mandamento di Grotte - v. pag. 94 - Fu sequestrato il
giovane Isidoro Selvaggio da Grotte e condotto in una grotta nel territorio di
Racalmuto e vi rimase per oltre una settimana in mani di 4 malviventi [per la
datazione: prima del 20 agosto 1862,
n.d.r.] »
«Tutto il territorio fu seriamente minacciato nel 6
settembre dopo i fatti seguiti in Racalmuto, e quegli abitanti stettero due
giorni e due notti in sull’avviso temendo da un momento all’altro un assalto
dalla banda che si era costituita in numero di circa 200 e a suon di corno
sfidava la truppa convenuta in Racalmuto.
« Mandamento di Racalmuto - v. pag. 104 - Appena partito da
questo luogo un distaccamento di truppa verso metà di agosto sorsero voci di
ribellione ed attacco contro i carabinieri di quella stazione. Nel 18 agosto
prestandosi dalla guardia nazionale ricostituita il giuramento fu fatta una
dimostrazione colle grida abbasso V.E.,
abbasso la leva. Dopo rimase
gravemente ferito il sacerdote Felice Carmeci, che aveva fatto un discorso alla
guardia nazionale riunita in senso liberale. Nel territorio avvenivano ai primi
di settembre molti delitti di sangue e di rapina.»
Vi furono oltre 50 arresti. Quel sacerdote ferito non era
racalmutese; era di Cammarata e così viene segnato nel “Liber”: n.° 432 D.
Felice Carmeci da Cammarata: obiit 21 Martii 1873. Nel libro del Falconci fa
capolino anche il noto sacerdote garibaldino don Calogero Chiarenza.
Incontriamo a pag. 76 la “nota dei volontari di Garibaldi, dai quali fu
domandata notizia al prefetto di reggio con telegramma appena ricevuta la nuova
del fatto d’Aspromonte”; al n.° 3 è segnato «Sacerdote Calogero Chiarenza».
Mons. Domenico De Gregorio, il pacato storico contemporaneo, dedica al
sacerdote racalmutese queste note: «benché svolgesse la sua attività in
Palermo, il sacerdote Calogero Chiarenza da Racalmuto, dove era nato nel 1823,
fu in “relazione con tutti i liberali specialmente dell’aristocrazia ed era un intermediario preziosissimo tra la
capitale della Sicilia e i cospiratori agrigentini Domenico Bartoli, Pietro
Gullo, Vincenzo e Rocco Ricci-Gramitto, anime buone ed entusiaste - Rocco in
particolar modo che arrischiando la vita, recavasi spesso in Palermo per
conferire coi capi del movimento, principalmente con Salvatore Cappello ... Il
Chiarenza, cappellano dell’ospedale civico, grazie alla sua veste poteva molti
segreti conoscere, cospirare, scrivere, senza attirarsi, come altri i sospetti
del governo” [Pipitone-Federico G. - Francesco Crispi e la spedizione dei
Mille, Palermo 1910, pag. 67]»
* * *
Il Falconcini fu irrequieto fino alla fine dei suoi giorni
di permanenza a capo della prefettura agrigentina. Aveva un conto in sospeso
con Racalmuto; pensò di saldarlo nel gennaio del 1863. Limitiamoci al suo
racconto. «I tre arresti veramente politici - ammette a pag. 90 - furono fatti
nell’ultima settimana della mia autorità di prefetto; furono tre cospicui
cittadini di Racalmuto, accusati di volere per amore de’ Borboni disturbare la
tranquillità di tutta la provincia, facendo rinnovare in quel paese i vandalici
fatti del di 6 settembre. Io pensai
lungamente prima di procedere a tale severa misura, ma ripetendosi e moltiplicandosi
gli avvisi di prossimi moti borbonici in Racalmuto, e la voce pubblica
chiedendo come indispensabile una misura preventiva, per salvarmi da enorme
responsabilità mi dovei risolvere ad ordinare l’arresto di coloro che erano
evidentemente supposti fautori di tali possibili disordini: arrestandoli però
provvidi al loro convenevole custodimento, e la volontà di passarli al potere
giudiciario annunziai subito al procuratore del re, il quale trovò subito la
misura del loro arresto saviamente presa..»
Il Falconcini si premura anche di ragguagliare il ministro
dell’interno: «Sin dal giorno 9 corrente [9 gennaio 1863] - vedasi documento
riportato a pag. 128 della seconda parte del libro del Falconcini - circolavano
strane voci di combinate trame in Racalmuto che dicevansi di colore borbonico.
[...] [si aveva] la conoscenza di mantenersi quel paese ... sotto il dominio di
un partito retrivo ed ostile ad ogni disposizione governativa. Una prova
certissima poteva ritrarsi dal non essersi presentati di Racalmuto nessuno alla
leva, perché quei giovani erano indotti a scegliere piuttosto l’emigrazione per
Malta che presentarsi alle richieste del governo del re. Frattanto nel sabato
10 corrente accrescevasi molta consistenza a quelle voci di possibili disordini
in Racalmuto. [In particolare] l’essere il giorno 12 anniversario della
rivoluzione della rivoluzione in Sicilia. Riferivasi di nascoste bandiere
borboniche e si designavano siccome principali autori del tutto alcuni
cittadini i nomi dei quali erano già condannati dalla pubblica opinione, vorrei
dire dell’intera provincia. Egli è per questo che lo scrivente credé doversi
d’accordo col comando militare perché fosse tosto accresciuta d’altra compagnia
la truppa colà stanziata e diede appositi ordini all’autorità locali per
eseguire alcune perquisizioni tenute indispensabili ad assicurarsi del fatto e
procedere a qualche arresto delle persone credute maggiormente influenti e
dannose, colla sola idea di mostrare a Racalmuto che il governo non solo
sorveglia e previene ma ha la forza di agire, ciò che vale assai più pei molti
che stimavansi liberi di ogni vincolo e quasi padroni di operare a posta loro
dopo cessato lo stato d’assedio.
«Un singolare esempio
della reale esistenza delle trame di quel partito si ha in questo, che per
quanto fosse ordinato l’arresto all’impensata ed eseguito di notte, tre altri
individui, dei quali appunto andavasi in traccia, fuggirono non appena ebbero
il sospetto della loro ricerca, segno manifesto del non trovarsi essi scevri di
cole. D’altra parte il processo ... porterà lume alla cosa.
«Frattanto può assicurarsi d’essersi disposto in modo che i
tre arrestati avessero stanza il più possibilmente propria e fossero trattati
con ispecial riguardo, non dovendo confondersi, con rei di delitti comuni chi
può essere spinto anche a degli eccessi per fanatismo politico.
«Girgenti, 15 gennaio 1863. Il prefetto: Falconcini.»
Curiosa coda di perbenismo borghese: vadano pure in carcere
i galantuomini, ma con i dovuti riguardi. Per il resto, altro che politica del
sospetto! E Sciascia poteva davvero avere simpatia con un simile campione del
sopruso di stato? Un sopraffattore vittima dell’ingiustizia di Silvio
Spaventa - ci dispiace dirlo - è una
bubbola sciasciana. E i commenti al circolo? Ora blandi, ora astiosi a seconda
di chi si trattava. Anche allora - come ancora nei nostri giorni - il “casino”
vezzi massonici ed anticlericali ha costantemente avuto. Blandi si doveva
essere verso influenti soci, anche borbonici; spietati, dissacranti,
velenosissimi contro preti vecchi e nuovi, più o meno coinvolti nelle bufere
politiche del momento.
In siffatti frangenti - e non nell’improbbile 1860 - dovette
essere consumata quella agghiacciante fucilazione narrata da Sciascia:
«Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero un uomo contro il muro di una
chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di campagna fucilato contro il muro
della chiesa di San Francesco; se ne ricordava il nonno di un mio amico, aveva
otto anni quando i garibaldini passarono, i cavalli li avevano lasciati nella
piazza del castello, il tempo di fucilare quell’uomo e via, l’ufficiale era
biondo come un tedesco.»
Falconcini non svela ora i nome di quei tre - tutto sommato
- perseguitati politici. Sfogliando carte d’archivio successive, emergono echi
di schedati eccellenti racalmutesi. Significativa la schedatura della pubblica
sicurezza di Girgenti di don Vincenzo Grillo e don Giuseppe Matrona:
Grillo d. Vincenzo,
figlio del
fu Girolamo, nato il .... 1823 nel Comune di Racalmuto, proprietario.-
Statura
1.60; corporatura giusta; capelli castani; fronte media; ciglia castani; occhi
cilestri; naso regolare; bocca giusta; mento ovale; barba castana; faccia
ovale; carnagione naturale.-
Luogo di
abitazione: Racalmuto.-
Partito
politico: Borbonico - clericale.-
Candanne:
- ==
Cenni
biografici: Capo partito borbonico-clericale. Nel 1863 in Girgenti ebbe
sequestrata una corrispondenza in sensi borbonici proveniente da Malta.
Nelle
evenienze è capace ed ha influenza bastante per sommuovere masse, ma non lo si
crede atto a capitanarle
Matrona Giuseppe
del fu
Pietro nato ... 1827 [rectius 1828] in Racalmuto, proprietario; m. 1,65,
snello, nero ovale, abitante a Racalmuto.
Partito
Borbonico - Non condannato.
Figura
liberale e lo affetta onde farsi maggior credito, ma in fondo è stato sempre di
principi borbonici, Uomo ambizioso e vendicativo: influente coi tristi e
capacissimo nelle evenienze di sommuovere le masse e commettere disordini.
Vuolsi che nel 1862, egli abbia spinte le turbe dei renitenti alla leva
latitanti i quali, armata mano, turbavano l’ordine pubblico, bruciando
l’Archivio Comunale e quello della Pretura.
[In altra
scheda: Abbenché in apparenza conserva regolare condotta e mena vita ritirata,
pur tuttavia dirige /Racalmuto 17 settembre 1869/ tutti gli intrighi che si
ordiscono in Paese.]
Mons. De Gregorio rintraccia nell’Arcivio di Stato di
Agrigento [ASA - Gabinetto Prefettura; non cita la busta che dovrebbe essere
prossima al n.° 26] il sacerdote Calogero Lo Giudice di Giacomo, schedato tra i
“preti borbonici”. Nel “liber” il
sacerdote risulta al «n.° 426: D. Calogero Giudice, mansionario fidecommisso
della chiesa Monte, organista; obiit 19 Junii 1886.» Nato attorno al 1824, non
sembra di nobili natali. Nel censimento del 1822, il padre del sacerdore è
ancora ‘schetto’ e fa parte del nucleo paterno come dalla seguente scheda:
1894
|
LO GIUDICE
|
NICOLO'
|
|
|
1895
|
LO GIUDICE
|
GIUSEPPA
|
MOGLIE
|
|
1896
|
LO GIUDICE
|
GIACOMO
|
F.O
|
anni: 24
|
1897
|
LO GIUDICE
|
GIUSEPPE
|
F.O
|
17
|
1898
|
LO GIUDICE
|
CALOGERO
|
F.O
|
9
|
1899
|
LO GIUDICE
|
CARMELO
|
F.O
|
7
|
1900
|
LO GIUDICE
|
GIOVANNA
|
F.A
|
5
|
* * *
Quanto ai Farauto, pare che nel gennaio del 1863 qualcuno di
loro sia finito in gattabuia. Richiamiamo quello che abbiamo sopra riportato:
[...] il Comandante
della truppa, che venne spedito in Racalmuto, per quella circostanza, fece
eseguire l'arresto dei fratelli Matrona,
come ritenuti complici nei fatti del Settembre 1862.- Ma chiarita presto la
loro innocenza, vennero quasi subito lasciati liberi. In proseguo poi vennero
arrestati taluni della famiglia Farrauto,
e qualche aderente di quella, per lo stesso titolo pel quale furono
arrestati i Matrona [...].
Allo stato delle nostre ricerche non sappiamo aggiungere
altro: ma i ricchi archivi agrigentini - e forse quelli appena riesumati di
Racalmuto - chissà quali sorprese si riserveranno. Siamo certi che quello che
va dicendo - pag. 248-256 - Eugenio Napoleone Messana su questa congiuntura
storica avrà una drastica rettifica: per onestà bisogna però ammettere che qui
lo storico locale scrive pagine di notevole pregio documentario.
* * *
Il Falconcini ci ragguaglia fra
l’altro sulla consistenza delle opere pie racalmutesi:
1.
Monte frumentario di Pantalone: opere di pietà - rendita
lire 264 e 82 cent.;
2.
Eredità Spinola - spese generali di culto e maritaggio -
rendita L. 562,32;
3.
Fidecomm. Busuito - L. 391,57;
4.
Cong. S. Anna - L. 1329,21;
5.
Comp. Agonizzanti - L. 650,76;
6.
Congreg. Purgatorio - L. 223,46;
7.
Congreg. S. Maria di Gesù - L. 669,78;
8.
Congreg. Monte - L. 599,52;
9.
Legato del canonico Franco - L. 727,64;
10.
Legato degli Orfani
del Crocifisso - L. 127,50;
11.
Eredità Signorino - L. 1.396,87;
12.
Legato del Rev. Carini - messe - L. 127,50.
* * *
L’agricoltura andava in quegli anni
a fasi alterne: l’anno 1856, l’anno 1858, l’anno 1862 erano stati catastrofici
stando alle statistiche desumibili dalla contabilità del Convento dei Minori
Osservanti sotto titolo di Maria di Gesù di Racalmuto
Vino prodotto dalle
vigne del Convento di Santa Maria
|
Misure in
"botti" e "langelle"
|
anno
|
produz.
|
1824
|
5,00
|
1825
|
3,05
|
1826
|
4,07
|
1827
|
3,00
|
1828
|
3,01
|
1829
|
3,02
|
1830
|
3,03
|
1831
|
5,54
|
1832
|
3,28
|
1833
|
3,40
|
1834
|
4,00
|
1835
|
3,00
|
1836
|
4,00
|
1837
|
4,18
|
1838
|
3,08
|
1839
|
3,07
|
1840
|
5,00
|
1841
|
3,24
|
1842
|
4,14
|
1843
|
2,30
|
1844
|
2,08
|
1845
|
3,56
|
1846
|
5,30
|
1847
|
4,32
|
1848
|
6,00
|
1849
|
5,00
|
1850
|
3,56
|
1851
|
5,10
|
1852
|
4,32
|
1853
|
1,32
|
1854
|
3,24
|
1855
|
0,00
|
1856
|
2,32
|
1857
|
3,00
|
1858
|
3,00
|
1859
|
1,08
|
1860
|
3,00
|
1861
|
3
|
1862
|
1,08
|
1863
|
3
|
1864
|
2,40
|
1865
|
4,24
|
1866
|
2,00
|
Possiamo essere sicuri che da
settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i
galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie
sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con
i contributi dell’AIMA.
Ma era la scena politica che si
andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre
maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.
Approdiamo a momenti storici
racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo
sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la
cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue
bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante.
Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi,
forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha
bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto
bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con
rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere
anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano.
Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO fu
Ignazio,’ il 18 gennaio del 1875 un racalmutese,
che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra
Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese
espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella
appunto osannata da SCIASCIA. Negli
ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del
gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno
sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a
Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo Cavallaro,
nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti interrogatori,
aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria. Buon per i
Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse molto.
Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente ingannevole,
definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi lo aveva apertamente sottoscritto e rivendicato.
Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro Farrauto, Antonino
Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in grado di concepire e
scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere comunale Giuseppe Nalbone,
Diego Bartolotta, il fratello del consigliere Provinciale dott. Romano, la
guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso
doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi '
dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello storico prediletto da Sciascia),
Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno
delle continue sovvenzioni senza far nulla', Paolo Baeri . etc. Ma il libello, che viene recapitato il
25 maggio del 1896 a Sua E. CADRONGHI
Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga
sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO
LUIGI ed ARCANGELO'. In una reiterata
lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la
Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in
Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere
di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la
giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai
Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare
citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello
reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un
bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le
apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro
quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere
pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello,
poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i
fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre
vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia
disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo elettorale,
(sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come
nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi
col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una
pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della
malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso
stile delle denunce di MALGRADOTUTTO la
successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un
sistema indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani.
Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da
sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed
insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla
civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato
da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della
truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore
di 'una spesa barocca' per distruggere
la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del
lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire
un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per
amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono
con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi
può essere più desolante situazione?»
Riconosco di avere sempre sospettato
che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore
che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -, abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi
riesce incomprensibile il passo della sua
introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno,
... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da
capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada, edificandovi
una casetta: ora è un secolo. » Nicolò
Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente saprà ancora una
volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.
Certo, povero lui!, molto ancora
dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in
materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una
vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il
documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo
1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in
quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto
1621 (indizione anticipata, in uso negli
atti ecclesiastici dell'agrigentino). Se
«il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina
fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni
astrologici che avevano presieduto alla nascita ... del
mostro» V. pag. 182 della
Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che
la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».
Fra Diego La Matina, poi, non potè
essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180):
questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in
favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno
1621 (IV IND.) Sciascia non riuscì a
leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma
«iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il
racalmutese che tenne a battesimo il
futuro frate agostiniano.
Noi gli imputiamo anche l'avere
ignorato che la madre di Diego la Matina era una RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi
con Vincenzo la Matina il 7 ottobre
1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza
Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651
andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione
sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre
di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova,
si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in
S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i
conforti religiosi da P. Bonaventura da
'Cannigatti'.
Nell'anno 1620 - precedente a quello
di nascita di Fra Diego - era invece nato Don
Federico La Matina figlio di
Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente
racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un
nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se
talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e
molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a
pag. 197 op. cit. - va riabilitata.
Sciascia ebbe ad equivocare
maldestramente tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di
Marc'Antonio Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto
di battesimo del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra
i registri della Matrice di Racalmuto.
Giuseppe TROISI, all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia intento a comporre una versione corredata da fotografie della MORTE
DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA, ne trasse persino una interessante
fotografia. E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un
articolo pubblicato da MALGRADOTUTTO, su
MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.
Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN,
verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE
MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.
Se Sciascia lo avesse appena scorso,
lo avrebbe senza dubbio fustigato.
A questo punto, il mio acre censore
Nicolò Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole?
Pedanterie? Grette minchionerie?
Senza dubbio. Ma è appunto per
questo che mi sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio
in casa di MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo
giornaletto locale mi ha impudentemente censurato.
Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se
è uno dei due Petrotto Nicolò (figlio di
Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a
matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto' nelle contestate colonie dei 'balilla'
racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur
contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.
Non sono di antico lignaggio
racalmutese i PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza'
della Terra del Sale. Questa
famiglia appare nei registri della
Matrice solo sul finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo
un ceppo affine che si fa chiamare GULPI
PITROTTO . Di un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo
traccia negli atti di morte del l'11/10/1648 ed il primo di maggio del 1656
viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi Pitrotto figlia di Francesco e
Giovanna Gulpi Pitrotto. Un Gulpi
Pitrotto lo troviamo addirittura quale teste nel matrimonio tra Chiazza
Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il 9/5/1618.
Incomprensibilmente, a partire dal
novembre del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di
Giovanna di anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il
cognome nel solo PITROTTO e da
allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e - sia chiaro -
onorevolmente nella Terra di Racalmuto.
Solo che chi scrive, alla stregua
degli Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare presenze
racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che risalgono, a
seconda delle letture, al 1554 o al 1564.
Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per linea materna anche un
PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue locale parlando le
cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto»
nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.
Questa "querelle" tra me
ed il PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non
può apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo
agli scontro della fine dell’Ottocento.
«Si informa - scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873
l'Ufficiale di P.S. in missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi
di maggio p.p. i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e
Stanislao D'Amico da Girgenti, nelle ore
del mattino vennero in questa, ove si
riunirono a certo Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual
socio appaltatore dei Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso
giorno, insieme al detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai
nominati Ferrara Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato in Grotte, civile, ed INGRAO Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da
Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro
, ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA
sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli stessi
furono imputati e sottoposti a mandati di cattura per la rivolta politica avvenuta in Grotte,
nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono
una condotta tanto riservata da non farsi colpire dai rigori della legge e da qualunque
possibile vigilanza.»
E a Racalmuto? «In Racalmuto questo
partito [repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è
beffeggiato».
«Maestà, siamo alle Grotte» -
citiamo da Rerversibilità di Sciascia
- «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti - disse all'ufficiale di
scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini che hanno sofferto il
carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi prosperano la letteratura e
le sardoniche rime in vernacolo.
Nelle sale del circolo tutte quelle
“mene” ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle
solatie ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e
della tarda sera. Una rissa mia,
paesana, acidula con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare
per dare il ritmo, se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei
galantuomini nostrani.
* * *
Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha
sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente non
colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo per
capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente
borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello
zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure
impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della
“riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che
continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un
galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi -
nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano
“scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo
nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei
supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo
proviamo ancora, con una qualche ingordigia.
Racalmuto si affacia al secolo XX
con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario
generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648,
Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio
di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a
Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di
Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso
borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un
affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere:
Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima
Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret.
Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo
(Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti
Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni -
Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio;
Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro
Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe -
Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami:
(fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone
Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale
- Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi -
Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli -
Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco
- Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi
Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta
Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere
di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego
- Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro -
Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore -
Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca
Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero
- Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia
Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare -
Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana
Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma
Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore -
Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro -
Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv.
Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi
- Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni
Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe
Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.)
Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò -
Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.)
Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone
Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. -
Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti
Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste
alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca
Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo -
Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami:
(neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane
Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo
Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone
Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare -
Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini:
(negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna
Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato
Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero -
Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe -
Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe
- Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore -
Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi
Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il quadro economico che se ne trae è
molto variegato ed esplicativo. Oltre 63
esercenti di miniere di zolfo (per converso solo 4 esercenti di miniere di salgemma) attestano
l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in
cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane
vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore;
7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di
olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione
industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di
legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti,
di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è
discreta: negozi di formaggio e quattro
macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi
agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre
notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del
tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma molti sono fra loro strettisimi parenti ed è
da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una
effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo
degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del
fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle
famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati
ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i
Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i
vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi Pirandello ne I vecchi e i
giovani accenna alle condizioni -
avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli
zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda
la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di
Racalmuto o di Raffadali o di
Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e
arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone;
o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per
testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni
gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani
e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse un tantinello oleografica, ma
pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si
attaglia alla Racalmuto di quella seconda metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i
pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il
grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe
zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di
essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno,
nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per
i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono
come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non
tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di
danaro ben guadagnato. E fra i
proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una
netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel
linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di
gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi
disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti
al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima
di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si
seguono a brevissima distanza.
«Dalla
profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere
generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi
hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro
modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e
nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La
fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per
l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una
dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la
vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche
colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre
qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo
che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia
densa e giallastra. [...]
«I
molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi
luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda. [...]
«Qua
e là, tra le distese grigie del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della
fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo
già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono
fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della
fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni,
mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena;
i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da
vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi
soppalchi praticabili, viene versato il minerale grezzo. Lo zolfo, acceso
all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla
spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle
azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in
una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel
centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di
notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo
infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di
minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle
campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e
i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci
dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di
tranquillità.»