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Convento di San Giuliano di Racalmuto

giovedì 5 settembre 2013

gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto

 
  • QUANDO Il buon Leonardo Sciascia si avventura nelle cose di Dio e della Chiesa, non sempre la sua raffinatissima e talora pungente penna lo mette a riparo da topiche anche gravi. Successe con la faccenda del vescovo Ficarra, successe con fra Diego La Matina e purtroppo appare claudicante anche quando vuol cimentarsi con gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto. Dovremmo citare e commentare quanto scritto nelle pagg. 226 e 227 del volume che raccoglie e le Parrocchie di Regalpetra e la Morte dell'Inquisitore. Dovremmo qui comprovare queste nostre apodittiche insinuazioni. Lo faremo in altra occasione. A dire il vero attendiamo i risultati di una intrigante tesi di laurea che una discendente della grande famiglia degli Sferrazza Papa ( il cui apice è per noi un nostro estimatore, il defunto gesuita Padre Sferrazza Papa S. J) sta approntando con acuto intelletto, caparbietà sarda, e serietà indagatrice. Ed è anche una bella ragazza, il che non guasta mai. Abbiamo capito che terremoterà tanti idola baconiani. Roba insomma da mandare in brodo di giuggiole chi come me non vede l'ora di sbeffeggiare le ricorrenti cervellotiche congetture cui osano indulgere più o meno impettiti eruditi locali.
    Frattanto proponiamo questo scritto in cui molto vi è sugli agostiniani centuripini nei cui confronti Carmelo Sciascia ci appare steccare abbondantemente.
    [naturalmente non è materiale nostro, ma è preso da internet]

    LA CONGREGAZIONE Dl CENTORBI

    Tutti questi monaci, che abitavano gli eremi sulle montagne vicino a Centuripe, non appartenevano ad un ordine religioso e non seguivano nessuna regola, erano soltanto dipendenti dal Vescovo del luogo di appartenenza o terziari di qualche ordine religioso senza fare mai la professione solenne. Per cui la Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi incaricò Matteo Saminiati, protonotario apostolico e vicario generale di Catania, di far sì che quei frati entrassero a far parte di qualche ordine religioso riconosciuto dalla chiesa o che lasciassero l’abito eremitico e vivessero come chierici secolari. Per cui fra Andrea del Guasto ed i suoi compagni decisero di seguire la regola di S. Agostino. Furono dodici quelli che seguirono fra Andrea che, dopo tante difficoltà, fondò la “Congregazione dei Frati Agostiniani Riformati di Centorbi”. Il due febbraio del 1579 fra Andrea si recò a Roma dal generale dell’Ordine Agostiniano, Tadeo da Perugia, che approvò l’aggregazione di questo gruppo di frati eremiti all’OSA., ottenendo il primo decreto che lo autorizzava a fondare la nuova Congregazione Riformata in Sicilia sotto la regola di Sant’Agostino. Al suo ritorno nell’isola, però, per poter attuare quel decreto, il frate incontrò molte difficoltà, per l’opposizione del vescovo di Catania Cutelli e di alcuni eremiti, che durò circa cinque anni, dal 1580 alla fine del 1584. Nel frattempo, tra il 1579 ed il 1581, furono aperti altri dieci romitori per attendere alla vita contemplativa ed al “laborizio”. Nel 1581 arrivò l’approvazione di tale Congregazione da parte di papa Gregorio XIII e del Governo della Sicilia. In questo periodo fra Andrea del Guasto si recò per ben tre volte a Roma e alla fine, il 22 maggio del 1585, su licenza del Vescovo, prese l’abito dalle mani del p. Malchiore Testaì da Regalbuto, nel convento di Sant’Agostino di Catania, con l’approvazione del vicario generale Matteo Saminiati, insieme con i suoi dodici compagni: Andrea Diaz (Dias) spagnolo, Francesco di Paternò, Mario di Paternò, Matteo di San Filippo, Matteo di Vizzini, Domenico di Troina, Filippo di Regalbuto, Michele di San Filippo, Zaccaria di Francofonte, Bonaventura spagnolo, Leone del Guasto di Castrogiovanni (Enna) e Agostino spagnolo. Indossato l’abito, fra Andrea del Guasto, con i dodici monaci, si recò a Centuripe e fondò nella Sacra Grotta, dove si trovava la chiesa dedicata alla Vergine Maria, il primo Convento Agostiniano e così i tredici eremiti iniziarono il loro primo anno di prova. Nello stesso anno (1585) fu eletto il primo Vicario Generale della Congregazione, nella persona del fra Andrea del Guasto. Le elezioni del Vicario Generale si svolgevano sempre ogni due anni fino al 1745. In seguito il Capitolo Generale dell’Ordine OSA. dispose di poter fare le elezioni dei Vicari della Congregazione e dei Provinciali ogni tre anni. Questa Congregazione, in poco tempo, si diffuse negli altri eremi di Sant’Antonio di Regalbuto, di San Michele di Militello, di San Basilio sul Monte Scalpello ed in altri luoghi solitari. Propagatasi, ormai, in varie parti della Sicilia, i frati della Congregazione si chiamarono: “Frati Eremiti dell’Ordine di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia”. Il primo novembre, festa di tutti i Santi, del 1586 frate Andrea con i suoi compagni emise i voti di Castità, Povertà ed Obbedienza nel convento di Sant’Antonio a Regalbuto (come risulta dagli atti del notaio Ottavio di Paula). In questo periodo fra Andrea si recò ancora a Roma. La nuova Congregazione fu regolata da uno statuto a cui tutti i frati dovevano fare riferimento. Esso fu approvato dal Generale dell’Ordine Agostiniano, sotto il pontificato di Sisto V, il primo aprile del 1587, confermato il 30 luglio dello stesso anno e messo in pratica il 12 marzo del 1588. Il 3 giugno del 1587 i due conventi della Congregazione di S. Adriano si unirono a quella di Centorbi, secondo l’atto notarile di unione già effettuata dal P. Generale il 14 aprile dello stesso anno. Nell’anno 1588 i fratelli fra Santoro e fra Gregorio fondarono il convento di Militello; due anni dopo, nel 1590, fra Matteo Panzica fondò quello di Caccamo ed infine fu eretto il convento di Paternò. Costoro erano i primi discepoli di fra Andrea del Guasto. Il 10 luglio del 1591 il P. Generale OSA concede al Vicario della Congregazione la facoltà di ricevere “servatis servandis” anche i religiosi della provincia O.S.A. Apparteneva alla “Congregazione dei Frati Eremiti Riformati di Centorbi” anche il conventino dei SS. Marcellino e Pietro, aperto da p. Girolamo Grazian a Roma, in via Labicana e preso nel 1592 da fra Andrea Diaz, compagno di fra Andrea del Guasto e secondo nella lista dei tredici frati eremiti fondatori di tale Congregazione. Fra Andrea Diaz, iniziatore della riforma degli Agostiniani Scalzi d’italia, sbarcò a Messina intorno al 1584 ed entrò a far parte della Congregazione Centorbana, insieme con i suoi due compagni spagnoli, fra Bonaventura e fra Agostino. Durante il suo periodo a Centuripe p. Diaz insieme con p. Andrea del Guasto, introdusse la vita riformata e fu importantissimo il suo lavoro di “agostinizzazione” nella Congregazione, secondo la direttiva dell’Ordine. Padre Andrea Diaz rimase a Centuripe fino al 1588 poi, venuto a sapere che la provincia di Castiglia, nel Capitolo di Toledo, aveva accolto finalmente la Riforma Agostiniana, rientrò in Spagna. Il diciannove ottobre 1589 entrò a far parte della prima comunità recolletta nel convento di Talavera. Ottenuta la licenza dal Nunzio Apostolico in Spagna di portare la riforma in Italia, si trasferì nell’aprile del 1592 a Roma, presso il convento dei SS. Marcellino e Pietro. Il 19 maggio 1592, nel centesimo Capitolo Generale Agostiniano, si parlò della riforma dell’Ordine voluta da Clemente VIII. Il neo eletto priore generale, p. Andrea da Fivizzano, il 22 maggio dello stesso anno approvò i Capitoli per il buon progresso della Congregazione degli Eremiti Riformati di Sicilia. Il 28 giugno 1592 giunse a Napoli, nel convento di Sant’Agostino, fra Andrea Diaz, “vestito con un abito di panno nero e grosso, un cappuccio tondo in testa e alle spalle, cinto da una cintura larga, scalzo con le sandole di corde alla spagnola ed un lungo mantello”. Espresso il desiderio di vita riformata, il Priore gli mise a disposizione i due conventini di Santa Maria dell’Olivella, dove va a vivere, e quello di Santa Maria della Grazia, alla Renella. Nel conventino di Santa Maria dell’Olivella, p. Andrea Diaz abitò insieme con p. Andrea da Sicignano. Il 6 luglio si aggiunsero due laici: Andrea Taglietta e Lorenzo della Tolfa. Il 20 luglio arrivarono altri due giovani sacerdoti agostiniani p. Ambrogio Staibano da Taranto e p. Giovan Battista Cristallino, e infine si unirono a loro altri due religiosi più anziani: p. Giulio Calabrese e p. Giovanni da Bologna. Costoro furono i primi “riformati”. Infatti, nello stesso giorno “tutti rivestiti di rozza lana si scalzarono”. Padre Andrea Diaz diventò il Superiore di quei religiosi dei conventini di Napoli, ma tra la fine del mese di marzo e i primi di aprile del 1593 fu eletto Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. La notizia fece scalpore nel convento dell’Olivella, perché p. Andrea Diaz voleva ufficialmente unire alla Congregazione Centorbana i due conventini di Napoli. Allora la piccola comunità si divise: p. Sicignano era d’accordo con fra Andrea Diaz mentre p. Staibano e p. Cristallino erano contrari, perché ritenevano la Congregazione di Centorbi diversa da quella che stava nascendo nei conventini di Napoli. Questi ultimi fecero ricorso al P. Generale affinché non permettesse l’unione. Il Generale, allora incaricò come suo delegato, per risolvere quella controversia, p. Cristoforo di Roma. Nel frattempo p. Andrea Diaz, amareggiato da quegli eventi, decise di abbandonare tutto e far ritorno in Spagna, rifiutando anche la carica di Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. I Padri Centorbani, sapendo che p. Diaz non voleva iniziare il suo governo della Congregazione, dopo alcuni mesi elessero padre Domenico da Troina, con l’approvazione del P. Generale. La questione durò per circa sette mesi e alla fine, a metà novembre del 1593, si arrivò ad un compromesso. Il 16 novembre del 1593 p. Andrea Securani da Fivizzano, priore generale, con il decreto “Cum Ordinis nostri splendorem”, nominando padre Staibano primo vicario generale, riconobbe giuridicamente la nuova Congregazione degli Agostiniani Scalzi, separandola da quella degli Eremiti di Sicilia. Il 19 novembre 1593 l’elezione a Centorbi di padre Domenico da Troina, non essendo canonica, fu considerata nulla e quindi fu dichiarato legittimo vicario generale p. Diaz, al quale fu ordinato di recarsi in Sicilia a governare la sua Congregazione Centorbana. Quindi da un lato il Priore Generale diede ragione a p. Staibano, ufficializzando gli Agostiniani Scalzi d’Italia, dall’altro ridiede fiducia a p. Andrea Diaz inviandolo nella sua Congregazione a completare i due anni di Vicariato. Completato il suo mandato a Centorbi p. Diaz decise di ritornare in Spagna, per fondare un nuovo convento. Durante il viaggio la nave su cui viaggiava, a causa di una tempesta, fu trasportata sulle coste della Catalogna, vicino a Cadaquez, qui si ammalò gravemente e nel 1596 morì. Fu sepolto nella Parrocchia di S. Maria. L’Ordine agostiniano gli riconosce il titolo di Venerabile. Il 15 agosto del 1609, p. Andrea del Guasto fu rieletto vicario generale a Centorbi dove si celebrò il Capitolo, che fu uno dei più famosi tenutisi allora per il gran numero di frati che vi parteciparono e per le tante leggi stabilite. Il 15 agosto del 1617, fra Andrea si ammalò gravemente nel suo convento di Sant’Antonio. La sua agonia durò fino al 7 settembre, quando, dopo aver abbracciato un Crocifisso, rivolgendogli lo sguardo pieno di gioia, morì. Si concluse così, secondo il racconto di p. Fulgenzio da Caccamo, la straordinaria vita di questo frate che, dopo ottantatre anni vissuti santamente in terra, raggiunse l’eternità. Passati tredici anni dalla sua morte, su istanza del Vescovo di Catania, fu esaminato il corpo del ven. frate e fu trovato intero ed incorrotto, come più volte attestò, insieme ad altre persone, fra Vincenzo da Regalbuto della nobile famiglia dei Picardi. Il suo corpo fu analizzato nuovamente il 27 settembre 1674, durante il vicariato di p. Adeodato di Geraci. Il 4 maggio del 1918, su ordine di Mons. Agostino Felice Addeo, vescovo di Nicosia, su istanza del priore del convento di Sant’Agostino p. Giuseppe M. Campione, si è accertata, nella chiesa del convento di Sant’Antonio Abbate fuori le mura della città di Regalbuto, l’esistenza delle reliquie di fra Andrea del Guasto e l’inviolata conservazione delle medesime. Le ossa furono poste in un’altra cassa e il 19 maggio dello stesso anno furono traslate nella chiesa di Sant’Agostino della suddetta città. L’ultima ricognizione fu effettuata il tredici novembre del 1927.



    IL NUOVO CONVENTO

    Due anni prima della morte di fra Andrea, il 20 novembre 1615, il nobile Francesco Moncada dichiarò esente da ogni tassa chiunque volesse costruire una casa a Centuripe. Inoltre, per evitare ai cittadini penosi viaggi da Centuripe ad Adrano, da cui dipendevano per l’amministrazione della giustizia, dei beni e delle rendite, nominò Antonio Spitaleri governatore e giudice della città. Il 21 novembre 1617, con un accordo tra il priore del convento agostiniano, fra Michele di San Filippo, Antonio Spitaleri governatore di Centuripe e don Giuseppe Perdicaro, cappellano della città, si stabilì che quest’ultimo, non avendo nessuna chiesa a sua disposizione dove poter esercitare il suo ministero sacerdotale, poteva usufruire della piccola chiesa dei Padri Agostiniani. Nel frattempo con l’aumento della popolazione, i Padri del convento pensarono di lasciare le loro piccole e malconce abitazioni, scavate nella roccia, per costruirsi un convento ed una nuova chiesa più grande e capace di poter accogliere tanta gente. Il nuovo convento fu edificato tra il 1627 ed il 1628, sulle rovine della vecchia fortezza ed il santuario fu intitolato a “Santa Maria La Stella” dal nome della prima chiesetta costruita nella grotta. Era priore p. Stefano da Regalbuto. Però, il Vescovo di Catania, da cui dipendeva Centuripe, non credette opportuno far continuare l’amministrazione dei Sacramenti ai Padri Agostiniani e diede l’incarico ad un parroco. Intorno al 1638 p. Agostino da Sanfilippo fu il primo vicario foraneo, cioè un parroco fuori della città, inviato dal Vescovo, che giunse a Centuripe. Con la costruzione della nuova chiesa, la “Sacra Grotta” rimase per molti anni chiusa ed abbandonata. I Centuripini, che non avevano dimenticato quel luogo sacro, nel 1649 ottennero dal Vescovo il permesso di farvi celebrare di nuovo la Santa Messa, riaprendo così al culto quel Santuario, mèta di numerosi pellegrini provenienti anche dai paesi vicini. Sotto il pontificato di papa Innocenzo X, verso il 1662, furono soppressi molti conventi e ne rimasero solo diciassette; i religiosi furono chiamati nei paesi ad aiutare i parroci. Ricordiamo inoltre, che all’inizio tutti i conventi erano costruiti fuori delle città. Soltanto nel 1632 i monaci ottennero il permesso di poterli fondare dentro, ad eccezione del romitorio di Centorbi che rimase sempre dentro l’abitato. La “Congregazione Centorbana” contava i seguenti conventi: Santa Maria della Stella in Centorbi, Santa Domenica in Bideni (Vizzini), Sant’Antonio in Regalbuto, San Leonardo in Militello, San Calogero in Caccamo, Santa Maria in Artesina (EN), Santa Maria di Liccia (Castelbuono), Santa Maria dei Gulfi in Chiaromonte, Santa Maria della Consolazione in San Filippo di Agira, San Bartolomeo in Geraci, Santa Maria della Neve in Piazza, Santa Rosalia in San Michele di Ganzaria, Santa Maria in Castiglione, Sant’Ippolìto in Mineo (già in S. Basilio a quindici miglia), Santa Maria della Rocca in Monreale, Santa Maria della Grazia in Paternò, San Nicola in Mascali, e Santa Maria del Riposo in Francavilla Sicula (già in S. Adriano sul monte), Santa Maria della Sanità in Castelvetrano, SS. Marcellino e Pietro in Roma, poi, dopo il 1650, Sant’Agata la Pedata in Palermo, S. Giovanni Battista in Cattolica Eraclea e San Giuliano in Racalmuto. Questo lungo elenco ci fa capire quanto si sia propagata la Congregazione di fra Andrea del Guasto. Continuando con la nostra indagine storica, siamo giunti al 1671, quando a Centuripe, con l’aumento della popolazione, crebbe anche il numero delle parrocchie, che alla fine del XVII secolo arrivò a sei. Il 26 dicembre 1721 i Padri Agostiniani concessero agli esponenti dell’Arciconfraternita di Nostra Signora della Consolazione, prima chiamata dell’Innacolata Concezione, un pezzo di terreno adiacente alla loro chiesa maggiore “ad effetto di erigersi dai medesimi un Oratorio [per] colà esercitarvi dalli confrati suddetti tutti gli officii dovuti”. Nel 1728 il Vicario Generale della Congregazione chiese alla Santa Sede di essere autorizzato a poter cambiare l’abito “di tessuto siciliano con la sua tinta di vitriolo”, nocivo alla salute, per vestire come i Padri Agostiniani Scalzi “con tunica di saja leggiera e ferrajuolo di panno”. Quello stesso anno, il 20 gennaio, papa Benedetto XIII scrisse al generale dell’Ordine Bellisini ordinandogli di interessarsi affinché anche quei Padri si vestissero con un abito simile a quello degli Agostiniani Scalzi d’Italia. Il 12 febbraio il Generale dell’Ordine accettò quella proposta e i Padri di Centorbi cambiarono il loro abito. Nel 1757 il convento era abitato da tredici religiosi tra sacerdoti, chierici e laici. I Padri Agostiniani continuarono ad occuparsi del convento fino alla metà del XIX secolo, quando la Sicilia e, quindi, Centuripe entrarono a far parte del nuovo Regno d’Italia. Tra il 1866 e il 1867 furono soppressi gli Ordini religiosi ed incamerati dallo Stato i loro beni. Già nel gennaio del 1865 a Centuripe alcuni locali del convento furono adibiti a caserma dei Carabinieri. Successivamente, il 20 maggio 1867, i due Padri Agostiniani che vivevano nel monastero, furono costretti a cederlo allo stato. L’ex convento passò al municipio di Centuripe, che ne occupò i locali, tranne quelli adibiti come caserma. Uno dei Frati rimasti, l’ex priore don Francesco Lo Giudice si assunse il compito del mantenimento delle due chiese. Nel 1868 vi fu trasferita la biblioteca comunale e nel 1870 furono spostate le tre scuole comunali maschili. Il convento di Sant’Agostino, poi, fu sede del Municipio, della Pretura e di altri uffici comunali. Nel periodo fascista l’ex chiostro del convento, che era aperto da una parte, fu chiuso e si costruirono nuovi locali adibiti ad uffici e ad antiquarium comunale. In seguito il fabbricato ormai con i locali umidi e fatiscenti, fu demolito e ricostruito ex novo. Di quel convento ci rimane oggi soltanto la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’Agostino, con accanto l’oratorio.
     
     
     

agostiniani e gesuiti nel palazzo dei signori

Non ho ricevuto contributo alcuno da parte dei miei paesani che dissolvessero qualche mio flebile dubbio- Forse a Racalmuto continua ad esserci davvero la mafia, di sicuro la cultura omertosa. Allora a rischio di prendere un abbaglio (mi verrà corretto) penso che questo fu il Convento degli Agostiniani quando divennero "comodi".  Prima in quel convento vi erano i padri agostiniani dell'Ordine di Centuripe ove il grande Siascia tenne a intruppare  il suo eroe eretico Fra Diego La Matina. E dalle Parrocchie di Regalpetra alla Morte dell'Inquisitore materia di affascinante portata letteraria. Le vicende di quel convento fanno parte di mie avventure microstoriche (v. Racalmuto nei Millenni e LaSignoria Racalmutese dei del Carretto e migliaia di post nel mio blog Contra Omnia Racalmuto). Nei primi anni dell'Ottocento il convento e soprattutto  questo pretenzioso palazzo entra sia pure fugacemente nella storia dei padri Gesuiti siciliani. I Nobilotti del paese ne volevano fare una scuola elitaria da affidare ai Gesuiti  e contribuirono molto a dare l'attuale conformazione allo stabile. Ma l'iniziativa abortì subito. Qui cessò ogni presenza conventuale o gesuitica e divenne maniero di certe famiglie crestomantiche arricchitesi frattanto per il boom solfifero di Racalmuto. Di recente una laureanda sarda (la Sferrazza Papa) vi impiantò la sua tesi di laurea che ebbe grande successo accademico (massimo dei voti e lode) e che fu persino premiata dalla Fondazione Sciascia. Ma per impegni la tesi deve rimanere riservata, non diffondibile. Cautele che forse intuisco ma che non accetto.

processo Casarrubea

domenica 29 marzo 2015


Il processo Giallombardo-Casarrubea

L'importanza del processo per diffamazione intentato dal generale Giallombardo contro il prof. Casarrubea è estrema. Le carte processali andrebbero tutte quante riconsiderate magari mimando un contro processo alla FONDAZIONE SCIASCIA.
 
Della colpevolezza o meno di Ettore Messana si tratta. Se Messana dovesse essere quel CAPO BANDITO politico che avrebbe voluto il comunista Li Causi e che pare vorrebbe rimarcare ancora l'ex comunista Casarrubea, sarò il primo a desistere dalla mia intenzione di far dedicare una importante strada ad Ettore Messana nel suo paese di origine (anche se non ci è nato): RACALMUTO.
 
 
Se no, VOGLIO LA STRADA.
 
Intanto estrapolo passi della sentenza mezzo assolutoria e mezzo  tartufesca (assoluzione per prescrizione e non perché il fatto non sussista). di quel lungo dispositivo   - credo redatto  dal PM - del 26 aprile 2006 (cose dunque di nove anni fa).
Ve li sottopongo al vostro discernimento.
 
Per me è topico questo passaggio:
 
"La tesi secondo cui FRA DIAVOLO fu ucciso dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una colluttazione provocata dal primo, (pag. 27), ma “a freddo” in seguito ad un ordine telefonico, emerge, come detto, dalle dichiarazioni rese da TERRANOVA e PISCIOTTA al processo di Viterbo."
 
Su questo punto esplicherò le mie considerazioni come dire quale contro PM del processo.  Ma rinvio il mio svolgimento del tema  a tempi migliori.

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Infine, giunto sul posto il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, il capitano GIALLOMBARDO, venne convocato presso l’ufficio del gen. Dei CC. CALABRO’, per una riunione insieme all’ispett. di Pubblica Sicurezza MESSANA E al colonnello PAOLANTONIO. Quest’ultimo, però, su richiesta espressa del GIALLOMBARDO, non partecipò alla riunione.

Nel corso di tale incontro l’ispett. MESSANA accusò il GIALLOMBARDO di avere ucciso FERRERI nonostante avesse saputo dal col. PAOLANTONIO che il bandito era un loro confidente ed anzi proprio per tale motivo. Seguì una lite durante la quale il capitano contestò la veridicità di tale affermazione.

Successivamente, nel corso dell’autopsia, alla quale assistette anche il GIALLOMBARDO, questi ebbe modo di verificare che il FERRERI era stato attinto anche all’addome da un pallettone del fucile da caccia sparato dal brig. CALANTONI nel corso del conflitto a fuoco. I medici legali gli riferirono che il FERRERI sarebbe morto comunque di peritonite a causa di questa prima ferita, come del resto annotato anche nel processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947, redatto dal G.I. dott. G. MACALUSO.

Nel corso del suo esame da parte del PM e del difensore di parte civile, il gen. GIALLOMBARDO ha fatto inoltre più volte riferimento ad una serie di documenti, prodotti dalla difesa di parte civile all’udienza del 02.07.04. In particolare il teste ha ricordato l’attestato di conferimento della medaglia d’argento da parte del Presidente della Repubblica, l’elogio della giunta di Alcamo, la lettera di compiacimento del generale dei CC, il Rapporto Giudiziario da lui steso in data 01.07.47, in ordine al conflitto a fuoco, l’archiviazione in data 30.12.1948 del procedimento penale cui il GIALLOMBARDO fu sottoposto per la morte dei banditi. (pag. 10)

Ma rilevanti nuove circostanze, precisazioni ed anche contraddizioni, emergono in sede di controesame del teste da parte del difensore dell’imputato.

In primo luogo è infatti risultato che il confidente che avvertì GIALLOMBARDO dell’incontro, cui doveva partecipare il FERRERI nei pressi di Alcamo, era un appartenente alla mafia locale (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag. 35).

In secondo luogo il teste ha chiarito che il Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, da lui sottoscritto, era stato in realtà redatto dal suo superiore, maggiore Marinesi Vincenzo (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag. 50).

Rilevante è inoltre la contraddizione emersa in ordine alle condizioni fisiche del Ferreri, al momento in cui questi si fece notare dai gradini del magazzino: il GIALLOMBARDO ha insistito nell’affermare che il bandito appariva perfettamente sano (“era un grillo…un felino”) e che non sanguinava; ma nel Rapporto Giudiziario è invece riportato che il FERRERI disse subito: “Non mi toccate, sono ferito…” (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.04, pagg. 93, 94, 95 e del 14.10.04, pagg. 6, 33, 34).

Altro particolare importante riguarda il momento in cui i carabinieri trovano FERRERI e la consapevolezza del capitano GIALLOMBARDO, già da quel momento, di trovarsi proprio di fronte al bandito. A tal proposito il teste dice: “Io coscientemente sapevo di affrontare Fra’ Diavolo, perché sapevo di affrontare Fra’ Diavolo.” (cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pag. 7). Nonostante ciò il FERRERI non venne ammanettato durante il trasporto né dentro la caserma, perché l’ufficiale aveva dato credito all’affermazione del bandito di essere un agente segreto ( cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pagg. 24-25).

Elemento di assoluto rilievo emerso nel corso del dibattimento è che il Rapporto Giudiziario del 01.07.1947, non solo è stato in realtà redatto dal maggiore MARINESI VINCENZO e non dal firmatario dell’atto, ma riporta delle circostanze false, relative proprio al momento critico dell’uccisione del bandito FERRERI. (pag. 11)

In particolare il gen. GIALLOMBARDO ha riferito che durante la colluttazione né il maresciallo LO BELLO né il carabiniere GUERCIO gli diedero l’aiuto descritto nel rapporto, ma anzi lo lasciarono solo: “Il maresciallo LO BELLO soffriva di stomaco. Se l’era fatta addosso. Ed è andato via. E mi ha lasciato solo. Il carabiniere GUERCIO dichiara che con il moschetto cercava di… Ma non è vero…non poteva esserre armato in caserma…il moschetto si usa nelle perlustrazioni… scappò pure lui”. Ne deriva che i due carabinieri non furono testimoni dell’uccisione del FERRERI, contrariamente a quanto da costoro sostenuto nel corso dell’indagine che seguì a tale fatto (cfr. trascrizione dell’udienza del 14.10.04, pagg. 55,59,60,61). Del resto il testre aggiunge che in realtà solo sua moglie fu presente alla fase finale del confronto con il bandito (cfr. trascrizione dell’udienza del 14 .10.04, pag. 63).

Infine il GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio del generale CALABRO’, precisa di aver espressamente richiesto che il col. PAOLANTONIO non partecipasse a tale incontro, proprio perché sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo per tempo informato dei rapporti esistenti tra FERRERI e l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza (cfr. trascrizione dell’udienza del 14.10.04, pag. 95).

Gli elementi probatori introdotti dalla difesa dell’imputato, mediante escussione di diversi testi e produzioni documentali, hanno fatto luce sullo stato della conoscenza del fatto storico al momento della stesura del libro “Portella della Ginestra- Microstoria di una strage di Stato” e sul metodo scientifico d’indagine seguito dall’imputato, con particolare riferimento alla raccolta del materiale utilizzato e alla verifica delle fonti, dalle quali esso è stato prelevato.

Il teste LUPO SALVATORE, professore ordinario di storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo e autore del libro “Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni”, ha affermato che FERRERI, secondo le acquisizioni universalmente note ed accertate da atti giudiziari, era stato un confidente dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza ed aveva (pag. 12) promesso all’ispettore MESSANA di consegnargli GIULIANO (trascrizione dell’udienza del 06.05.05, pag. 12) .

Il teste ha precisato che fonte molto autorevole sull’argomento è l’archivio documentale lasciato da FRANCESCO SPANO’, capo dell’ispettorato interprovinciale dopo MESSANA e maggiore collaboratore del prefetto MORI. L’ispettore, in particolare sostenne, in documenti poi pervenuti al figlio ARISTIDE, che FERRERI era uomo nelle mani della cosca alcamese dei RIMI, i quali indicarono all’Ispettorato il FERRERI, come possibile tramite per arrivare a GIULIANO. SPANO’ riteneva che VINCENZO RIMI era fiduciario per l’uccisione di FERRERI da parte dei carabinieri, perché temeva che il bandito, arrestato, parlasse.

Il prof. LUPO ha inoltre spiegato che per la gran parte degli storici la fine del FERRERI è da ritenersi “misteriosa” sia per le modalità della stessa sia perché il bandito era un possibile testimone della strage di Portella della Ginestra e forse addirittura conosceva i mandanti della stessa. FERRERI, infatti, aveva riferito al colonnello PAOLANTONIO di una lettera ricevuta da GIULIANO, il quale, dopo averla letta, disse: “Domani dobbiamo andare ad uccidere i comunisti a Portella” (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 17, 21, 33).

Il teste, infine, nella sua qualità di professore universitario e di esperto della materia trattata, ha detto di ritenere che nel libro in questione siano stati esaustivi la raccolta del materiale utilizzabile e lo studio delle fonti dalle quali esso è stato prelevato e che lo scrittore abbia riportato una versione dei fatti largamente condivisa nella comunità degli studiosi (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pag. 23, 24).

Il teste Barrese Orazio, giornalista ed autore del libro “La guerra dei sette anni” sul bandito Giuliano ha riferito di aver seguito, negli anni Settanta, tutti i lavori della Commissione parlamentare di Inchiesta sulla mafia, ed in particolare, della sottocommissione Mafia e banditismo.

Egli ha in particolare affermato che, in base ai suoi studi FERRERI era stato presente il giorno in cui GIULIANO, tra il 27 e il 28 aprile 1947, aveva deciso la strage di Portella, annunciando al resto della banda: “E’ venuta l’ora della nostra liberazione”(pag. 13). Il particolare della sua presenza in tale occasione, é infatti suffragata da diverse testimonianze rese durante il processo di Viterbo e davanti alla Commissione Antimafia ( trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pag. 47, 48,68,69,70).

Il bandito GIOVANNI GENOVESE, deponendo davanti al giudice istruttore del tribunale di Roma, su tale circostanza aveva rivelato: “Il 27 o il 28 aprile 1947,…..sono venuti a trovarmi GIULIANO con i fratelli PIANELLI ed il FERRERI SALVATORE… verso le ore quindici è sopraggiunto SCIORTINO PASQUALE, il quale portava una lettera….Hanno letto il contenuto della lettera….Dopo averla letta, la bruciarono con un cerino… Egli allora mi ha detto: ‘E’ venuta la nostra ora della liberazione… bisogna fare un’azione contro i comunisti: bisogna andare a sparare contro di loro, il primo maggio a Portella della Ginestra…. Presenti alla nostra discussione erano i fratelli PIANELLI ed il FERRERI” (vedi documentazione allegata alla relazione conclusiva della Commissione parlamentare di Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, doc. n. XXIII, n.2, vol. IV, deposizione di GENOVESE GIOVANNI, prodotta in copia all’udienza del 07.11.05).

Barrese ha aggiunto che, dalle stesse fonti, testimonianze rese durante il processo di Viterbo e davanti alla Commissione Antimafia, si evince anche la presenza del bandito FERRERI a Portella, il giorno della strage.

La circostanza è per altro affermata nella sentenza pronunciata dalla Corte d’ Assise di Viterbo: “Della presenza di costui fra i roccioni della Pizzuta al momento della consumazione del delitto, non può davvero dubitarsi ”. ( Sentenza del 3 maggio 1952 emessa dalla Corte di Assise di Viterbo contro Salvatore Giuliano ed altri, pubblicata nell’ambito dei lavori della Commissione Cattanei, Relazione approvata il 10.02.1972, prodotta in copia all’udienza del 07.11.05).

Venne invece negata dal generale PAOLANTONIO, durante le sue deposizioni nelle citate sedi istituzionali; questi sostenne infatti che il FERRERI in quel periodo stava male, tanto che nei giorni successivi alla strage il bandito venne operato di appendicite grazie a interessamento del PAOLANTONIO (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 68, 69, 70 e testo delle dichiarazioni (pag. 14) rese dal generale GIACINTO PAOLANTONIO al Comitato di indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 25.03.’69, prodotto il copia all’udienza del 07.11.05).

Il teste BARRESE quindi ha precisato che ciò che veramente rileva è che FERRERI era stato a conoscenza della decisione di GIULIANO di compiere la strage: avendo, come pare probabile, il bandito fornito tale informazione all’ispettore MESSANA, quest’ultimo si era trovato nella difficile situazione di chi sapeva e non aveva fatto nulla per evitare la strage, con tutte le conseguenti responsabilità. A quel punto per l’ispettore sarebbe stato inevitabile decidere di eliminare il suo informatore, il quale se arrestato, avrebbe potuto riferire di avere avvisato il MESSANA del progetto di strage, potendo anzi vantare tale informazione come titolo di merito (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 55, 73, 74, 75).

La deduzione in ordine al fatto che FERRERI avesse informato MESSANA dei preparativi per la strage è fondata anche su quanto riferito dal senatore GIROLAMO LI CAUSI. Questi, poche ore dopo l’eccidio si recò in prefettura, ove era presente l’ispettore MESSANA, il quale ebbe a dire: “Per me la strage è stata consumata da GIULIANO”. Alla richiesta di chiarimenti (“Come fa lei a saperlo”?), lui non rispose (vedi copia del libro “Banditi, mandanti e governo nella strage di Portella della Ginestra”, pag. 63, prodotta all’udienza del 0711.05). Il senatore per altro aveva sostenuto tale sua tesi anche nella seduta parlamentare del 23.06.1949 (vedi stralcio della seduta, pubblicato durante i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, doc. XXIII, n. 6 del 28.04.1998, parte prima, prodotto all’udienza del 0711.05).

Il giornalista BARRESE ha anche confermato quanto scritto nel suo libro e da lui appreso dalla lettura delle deposizioni di PAOLANTONIO alla Corte di Assise di Viterbo ed alla Commissione Antimafia: PAOLANTONIO “qualche tempo prima dei fatti DI Alcamo…si era recato presso l’allora capitano GIALLOMBARDO per informarlo dei rapporti che c’erano tra MESSANA…e Fra’ Diavolo” (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 50, 57, 58). (pag. 15)

In effetti il PAOLANTONIO sul punto aveva affermato: “FERRERI ci interessava ed appunto per questo l’ispettore MESSANA disse: “Senti, FERRERI è ad Alcamo; può darsi che GIALLOMBARDO lo peschi. Se ritieni sia il caso, avverti GIALLOMBARDO che noi abbiamo questi contatti e quindi che, per lo meno, ci informi…”. Io andai…. Il capitano GIALLOMBARDO, preoccupato di sue responsabilità poi ha negato a qualcuno che gli ho parlato ed ho avuto contatti con lui…Io sono andato e gli ho detto: “Capisci che se per te FERRERI è un merito, tanto per farti dare un encomio, per noi è una pedina che ci deve portare a un obiettivo molto più importante?” (testo delle dichiarazioni rese dal generale GIACINTO PAOLANTONIO al Consiglio di Presidenza ed al Comitato di Indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 22.10.1969, prodotto in copia all’udienza del 07.11.05).

Il teste ARISTIDE SPANO’ , figlio del citato capo dell’ispettorato di Pubblica sicurezza, ha confermato che in un documento del padre è scritto che VINCENZO RIMI “fu il fiduciario per l’uccisione di FERRERI, perché temeva che FERRERI arrestato potesse parlare” (trascrizione dell’udienza del 04.07.05, p. 13).

Egli ha aggiunto che le ipotesi sulla fine del FERRERI erano tante, ma in ogni caso il bandito doveva essere eliminato perché a conoscenza di segreti. La versione ufficiale non pare al teste credibile.

RUTA CARLO, autore del libro “Il binomio Giuliano-Scelba”, in merito alla fine del FERRERI, ha ribadito quanto scritto nel suo libro e cioè che “in realtà si trattò di un’esecuzione a freddo. Si parlò, in particolare, di un ordine perentorio, pervenuto via telefono, dal Comando Regionale Carabinieri di Palermo, che a sua volta dovette ricevere precise direttive da altre sedi. Fra’ Diavolo fu insomma il primo testimone di troppo ad essere stato soppresso dentro un edificio dello Stato”.

Egli ha spiegato di avere fondato il suo ragionamento sugli atti ufficiali, su testi di altri autori ed anche sulla stampa dell’epoca (BESOZZI, ADELFI); in relazione al presunto ordine telefonico, ha tenuto a precisare che non essendoci prove certe (pag. 16) egli ha solo scritto “si parla di un ordine” (trascrizione dell’udienza del 04.07.05, pagg. da 56a 60).

La tesi dell’uccisione a seguito di una telefonata è riportata anche da Giuseppe Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica”. L’autore infatti scrive: “Ritengo, invece, che, dall’altro capo del telefono, siano arrivati ordini perentori di chiudere per sempre una bocca che avrebbe dovuto svelare inquietanti intrighi di Stato” (vedi copia del libro citato, pag. 34, prodotta all’udienza del 07.11.05).

Del resto è GASPARE PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo, a sostenere: “Il capitano GIALLOMBARDO uccise Fra Diavolo in questo modo: prima sparò una raffica di mitra all’auto su cui stavano Fra’ Diavolo, suo padre e i due fratelli PIANELLI che tornavano da un incontro segreto con la polizia di Alcamo. Solo Fra’ Diavolo rimase vivo e il capitano lo portò in caserma. Da lì telefonò a Palermo e quando ebbe finita la telefonata, completò il suo lavoro”vedi copia del libro “Storia di Salvatore Giuliano di Montelepre” di SANDRO ATTANASIO E PASQUALE PINO SCIORTINO, pag. 134, copia del libro “L’impero del mitra di SALVATORE NICOLOSI, pag. 507, nonché il libro “Portella della Ginestra” di ANGELO LA BELLA e ROSA MECAROLO, pag. 97, prodotti all’udienza del 07.11.05).

Anche TERRANOVA ANTONINO, nel corso del processo di Viterbo, sostenne che “prima dell’uccisione del Ferreri vi fu una conversazione telefonica con Palermo ed io seppi che di questa telefonata GIULIANO tutto aveva saputo. Con precisione come pervenne tale notizia a GIULIANO può dirlo GASPARE PISCIOTTA”. (verbale delle dichiarazioni rese da TERRANOVA ANTONINO al processo di Viterbo, prodotto all’udienza del 07.11.05).

La teste PIA BLANDANO HA RIFERITO CHE NEL 1995, PRESSO IL Tribunale di Roma, ha aiutato il prof. CASARRUBEA a selezionare e fotocopiare documentazione relativa al processo di Viterbo ed in particolare la sentenza, le deposizioni e i documenti presenti nel fascicolo. Ha così confermato quanto in realtà si evince facilmente dalla lettura del libro dell’imputato e delle relative note e cioè che una delle fonti principali di tale testo è stata (pag. 17) la documentazione afferente al processo di Viterbo sulla strage di Portella della Ginestra.

NICOLA TRANFAGLIA, professore di storia contemporanea all’Università di Torino e autore del libro “Mafia, politica e affari: 1943-1992”, si è occupato anche dei rapporti tra mafia e banditismo, utilizzando come fonti la relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia presieduta da CATTANEI, in particolare la relazione specifica del commissario BERNARDINETTI sul caso GIULIANO e sui rapporti mafia e banditismo, nonché gli atti del processo di Viterbo ed in generale tutti gli atti delle varie commissioni antimafia.

Il teste, consultando anche documenti dei servizi segreti americani, desecretati dal governo CLINTON, ha potuto comprendere che il bandito FERRERI aveva un rapporto riservato con alcuni esponenti delle forze dell’ordine italiane e morì perché sapeva troppe cose riguardanti la strage di Portella della Ginestra (trascrizione dell’udienza del 17.10.05, pagg. 23, 24).

Rilevanti a tal proposito appaiono alcuni stralci, riportati nel libro sopra citato del teste, della Relazione della Commissione CATTANEI sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MARZIO BERNARDINETTI: “La morte del bandito FERRERI, uno degli informatori e uno dei protagonisti della strage di Portella della Ginestra, già catturato e al sicuro in una caserma, per mano di un ufficiale dei Carabinieri; la stessa morte di GIULIANO, colto nel sonno e quindi inerme e innocuo per mano di un altro bandito: sono fatti questi che sconcertano profondamente e danno adito alle considerazioni più severe e financo al sospetto di collusione tra le forze di polizia ed i banditi… Certo si è che anche la non chiara fine di FERRERI e lo stesso mistero che avvolge la morte di PISCIOTTA non contribuiscono a chiarire quell’ultimo periodo di vita della banda GIULIANO”. (vedi copia del libro “Mafia, politica ed affari:1943-1991”, pagg. 20 e 42, prodotta all’udienza del 07.11.05, nonché trascrizione dell’udienza del 17.10.05, pagg. 33, 34, 35).

Il consulente tecnico di parte, dott. LIVIO MILONE, esaminati i documenti e le foto dell’epoca, nonché gli atti del presente procedimento, ha ritenuto incompatibile la versione del Generale (pag. 18) GIALLOMBARDO in ordine all’uccisione del FERRERI con i dati medici e balistici emersi dagli atti ufficiali e dalle notizie fornite dal Generale (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli atti e trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e ss.).

In particolare il consulente ha evidenziato alcune palesi incongruenze:

1) il Gen. GIALLOMBARDO ha dichiarato di aver esploso al capo del FERRERI due colpi di pistola cal. 6,35, ma il medico intervenuto per la visita esterna del cadavere descrisse “una ferita d’arma da fuoco alla regione sopraciliare destra”. I medici legali che effettuarono l’autopsia rilevarono due ferite al lobo frontale destro, sneza però indicare alcun elemento balistico repertato; ma i proiettili, a causa del loro piccolo calibro, avrebbero dovuto trovarsi all’interno della scatola cranica. I dubbi sulle ferite alla testa sono rafforzati dalla fotografia del cadavere del bandito.

2) Il teste GIALLOMBARDO ha riferito che il FERRERI era stato attinto allo stomaco da un pallettone sparato dal fucile da caccia del brigadiere CALANTONI. Ma dal processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947 (vedi anche verbale prodotto all’udienza del 07.11.05) risulta che anche la ferita all’epigastrio era stata prodotta da proiettile d’arma da fuoco di piccolo calibro esploso a breve distanza (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli atti e trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e sgg.).

3) Il generale ha affermato che il bandito, al momento in cui fu scoperto, non appariva in alcun modo ferito e di avere appreso solo al momento dell’autopsia che quest’ultimo era stato attinto allo stomaco da un pallettone del fucile da caccia del brigadiere CALANTONI. Ma il tipo di ferite all’epigastrio, evidenziate nel processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto comportare una emorragia addominale di una certa intensità, una fuoriuscita di materiale gastrico, di materiale ileale e fecale, tali da comportare il decesso del FERRERI per peritonite (trascrizione udienza del 17.10.05, pag. 108).

4) In ordine alla più volte riferita colluttazione tra il GIALLOMBARDO ed il FERRERI, il consulente osserva che dai documenti (pag. 19) medico-legali dell’epoca non si evincono escoriazioni e lesioni compatibili con tale racconto; in ogni caso la grave ferita allo stomaco riportata dal bandito non avrebbe consentito a questi di aggredire il capitano dei carabinieri (trascrizione udienza del 17.10.05), pagg. 88,90, 107, 108).

5) Il dott. MILONE ha anche confutato la tesi che il GIALLOMBARDO riferisce di avere appreso dai medici legali dell’epoca e cioè che il pallettone sarebbe stato fermato dal contenuto gastrico (una grossa quantità di pastasciutta) e che quindi all’apparenza era come se il bandito avesse ricevuto un forte pugno; il consulente esclude la rilevanza di un qualsiasi contenuto gastrico, ma in particolare in questo caso le stesse lesioni indicate nel processo verbale di descrizione di cadavere indicano che il pallettone (o proiettile) non è stato trattenuto a livello gastrico (trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 104. 105).

Del resto lo stesso GIALLOMBARDO, al processo di Viterbo, riguardo alle condizioni fisiche di FERRERI al momento in cui fu scoperto dai carabinieri, aveva dato una versione differente da quella fornita nel presente processo: “Quando fu fermato da me il FERRERI ferito, egli mi disse di essere ferito…” (verbale della deposizione di GIALLOMBARDO ROBERTO, pag. 2, prodotto all’udienza del 07.11.05).

Il giornalista VINCENZO VASILE, autore del libro “Salvatore Giuliano un bandito a stelle e strisce”, ha confermato quanto riferito dagli altri testi della difesa in merito ai rapporti di FERRERI con l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e con i carabinieri, alla presenza del bandito durante la strage di Portella e durante i preparativi della stessa, alla inverosimiglianza della versione ufficiale sulla fine del FERRERI.

Anche lo scrittore GIUSEPPE CARLO AMRINO, nel suo libro “La Repubblica della forza”, evidenzia: “Sta di fatto che uno dei possibili e più informati testimoni, il bandito SALVATORE FERRERI…un confidente dell’ispettore MESSANA che aveva partecipato alla riunione nel corso della quale era stata organizzata la strage del 1° maggio, era stato eliminato dalla polizia con procedure analoghe a quelle che sarebbero costate la vita (pag. 20) al povero anarchico PINELLI al tempo della vicenda VALPREDA” (vedi libro citato, p. 91, prodotto all’udienza del 04.07.05).

Le dichiarazioni dell’imputato indicate nei capi di imputazione, sia quelle dallo stesso profferite nel corso della trasmissione televisiva del 30.04.1997 che quelle riportate nel libro “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato”, appaiono oggettivamente lesive dell’onore del querelante. Per entrambi i reati ricorre la causa di estinzione della prescrizione ma, ai sensi dell’art. 129 co.2° c.p.p., risulta evidente da quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale che il fatto di cui al capo b) non costituisce reato, in quanto l’imputato ha agito nell’esercizio del diritto di critica storica e nei limiti dello stesso.

Giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p. per i reati di diffamazione a mezzo stampa, individua i limiti all’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, che discendono dall’art. 21 della Costituzione: “l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; la correttezza dell’esposizione di tali fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; la corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità, principio comportante l’obbligo del giornalista di accertare la verità della notizia e il rigoroso controllo della attendibilità della fonte” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 5941 del 05.04.2000).

Ma la Corte di Cassazione, con giurisprudenza ormai costante in tema di diffamazione a mezzo stampa, distingue il diritto di critica da quello di cronaca “in quanto, a differenza di quest’ultimo non si concretizza nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio e, più in generale, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica non può che essere fondata su un’interpretazione necessariamente soggettiva dei fatti. Ne deriva che quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni (pag. 21) assertive ed i limiti scriminanti del diritto di critica, garantito dall’art. 21 Cost., sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione, con la conseguenza che detti limiti sono superati ove l’agente trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, penalmente protetta”. (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 2247 del 02.07.’04).

Per altro per la Suprema Corte è “giudizio di mero fatto quello avente ad oggetto la qualificabilità di una data manifestazione del pensiero come cronaca o come critica, fermo restando che nella seconda di tali ipotesi il limite del diritto di critica è segnato solo dal rispetto dei criteri della rilevanza sociale della notizia e dalla correttezza delle espressioni usate”. (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 20474 del 14.02.2002).

La Corte è inoltre intervenuta più volte nell’individuare i confini del corretto esercizio del diritto di critica storica, riconoscendo una più ampia tutela alle affermazioni contenute in un’opera storica, in virtù del principio della libertà dell’arte e della scienza, sancito dall’art. 33 Cost.: infatti “in tema di diffamazione a mezzo stampa (art. 595 cod. pen.), l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che il giudice, al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza – quanto meno sotto forma di indizi certi, precisi e concordanti – delle fonti indicate e utilizzate dall’autore per esprimere i propri giudizi, con la conseguenza che è illegittima la decisione con cui il giudice di perito pervenga alla affermazione di responsabilità il ordine al delitto di cui all’art. 595 cod. pen., da un canto, limitando il diritto della difesa alla controprova e, in particolare, impedendole di pervenire alla prova storica dei fatti posti a fondamento della tesi sviluppata nell’opera suddetta e, dall’altro, pervenendo ad una valutazione di offensività di alcune frasi estrapolandole dal contesto, il cui vaglio è (pag. 22) necessario per pervenire ad un giudizio obiettivo e completo e, quindi, per stabilire se l’opera in contestazione ricada sotto la tutela dell’art. 21 Cost. o sotto quella più ampia dell’art. 33 Cost.” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 34821 del 11.05.2005).

Anche condivisibile giurisprudenza di merito ha individuato “i limiti scriminanti del diritto di critica, che si fonda non solo sull’art. 21 Cost. che tutela la libertà di manifestazione del pensiero, ma anche sull’art. 33 Cost. che garantisce la libertà di creazione artistica e di ricerca scientifica, non coincidono con quelli del diritto di cronaca, non potendosi pretendere il requisito della verità richiesto per la sussistenza di quest’ultima scriminante, proprio perché ogni ricostruzione di fatti passati è necessariamente soggettiva” (Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).

Nella fattispecie, quindi, appare in primo luogo necessario che le frasi di cui al capo b) della rubrica siano valutate non estrapolandole dal contesto di un’opera di oltre trecento pagine, ma vagliando l’opera nel suo complesso.

In tal modo è possibile valutare se l’opera di Casarrubea debba essere considerata solamente sotto l’aspetto della libera manifestazione del pensiero ovvero trovi tutela anche nel più ampio ambito della tutela della libertà della ricerca scientifica di cui all’art. 33 della Costituzione.

Ed invero, nel libro di Giuseppe Casarrubea “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato” sono sicuramente ravvisabili il metodo scientifico di indagine, la esaustiva raccolta del materiale utilizzabile, l’autorevolezza delle fonti, diverse ed esattamente individuate, nonché la correttezza di linguaggio e l’assenza di attacchi personale i polemici.

Dalle lettura del libro si evince agevolmente inoltre che oggetto di studio è un evento passato, esaminato nella sua ampiezza e sotto varie sfaccettature.

Il libro in esame ha ad oggetto la strage avvenuta l’1 maggio 1947 a Portella della Ginestra. L’accadimento è affrontato, nel testo dell’imputato, in tutta la sua complessità e cioè avendo riguardo al periodo storico in cui si verificò, al contesto sociale e politico, ai fenomeni della mafia e del banditismo (pag. 23) dell’epoca, agli eventi che seguirono alla strage, alle indagini di polizia ed alle vicende giudiziarie del fatto principale e di quelli in qualche modo connessi.

L’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere che l’autore ha seguito senz’altro un metodo scientifico, basato su una indagine complessa, in cui persone, avvenimenti e rapporti sociali sono divenuti oggetto di un esame articolato, che ha condotto, su base di dichiarazioni e di elementi di fatto espressamente individuati e puntualmente richiamati nelle note, alla formulazione di tesi, per altro condivise da gran parte della comunità scientifica (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, teste LUPO SALVATORE, pag. da 17 a 24).

L’attività di ricerca, raccolta e selezione del materiale utilizzato per realizzare l’opera in questione, è stata La più completa possibile ( vedi le deposizioni dei testi LUPO SALVATORE E BLANDANO PIA). Dalla lettura del libro emerge con chiarezza che le fonti, da cui è stato tratto il materiale, sono essenzialmente atti giudiziari di vari processi, che hanno avuto ad oggetto l’accertamento dei fatti narrati, in particolare gli atti del processo svoltosi presso la Corte di Assise di Viterbo nei confronti di SASLVATORE GIULIANO ed altri e la relativa sentenza del 3 maggio 1952, gli atti del procedimento per l’uccisione di FERRERI SALVATORE e degli altri quattro banditi, nonché atti di varie commissioni parlamentari di inchiesta sulla mafia e sul banditismo e testi di altri autori che hanno studiato la meteria.

Tutte le fonti sono esattamente individuabili, in particolare mediante lettura delle note in calce ad ogni singola pagina.

Il linguaggio adoperato dallo scrittore appare sereno, pacato, scevro da astio personale e mirato esclusivamente a favorire la migliore comprensione del fenomeno descritto.

Il testo in esame infine racchiude in sé aspetti anche solamente informativi, ma essi sono funzionali alla successiva valutazione, nella quale gli avvenimenti descritti vengono riletti in chiave critica, sulla base delle intuizioni logiche e dei collegamenti che l’autore effettua tra i vari fatti (pag. 24).

L’opera del CASARRUBEA può pertanto definirsi “libro di storia” e, in presenza dell’offesa dell’altrui reputazione, può configurarsi operante la scriminante del diritto di critica storica.

Occorre tuttavia verificare se l’imputato, nell’usare le espressioni evidenziate nel capo b) della rubrica, abbia rispettato i limiti del diritto in esame.

Sostenere infatti che in tali casi non si può pretendere il diritto della verità, “non comporta affatto che il diritto di critica, anche nell’ambito della ricerca storica, possa diventare strumento di aggressione dell’altrui reputazione. E’ sicuramente consentito, all’esito di una ricostruzione storica, formulare conclusioni negative che suonino riprovazione morale dell’individuo, purché le intuizioni storiche siano fondate su accadimenti dimostrati, tanto più rigorosamente quanto più squalificante sia il giudizio espresso. Esulano infatti dall’opera storica, proprio per l’imparzialità e l’obiettività che devono caratterizzarla, mistificazioni e ricostruzioni della realtà mutilate e deformate ad arte, o asserzioni e giudizi privi del necessario supporto motivazionale, che presuppone la leale rappresentazione dei fatti riportati e il controllo della corrispondenza alla realtà degli elementi addotti a fondamento della propria opinione” (Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).

Nel caso di specie appaiono rispettati i limiti del corretto esercizio del diritto di critica storica.

In merito ai fatti descritti nel capo b) della rubrica, l’imputato affettivamente ha scritto: “L’episodio in realtà accadeva in circostanze piuttosto strane perché nell’imboscata cadevano oltre a FERRERI, il padre di questi,VITO, ANTONIO CORACI e i fratelli SALVATORE E FEDELE PIANELLI, confidenti di PAOLANTONIO… tanto più che, stando alle affermazioni di TERRANOVA Cacaova, prima dell’uccisione di FRA DIAVOLO, che era rimasto ferito, vi era stata una conversazione telefonica con Palermo, di cui era stato informato lo stesso GIULIANO. FERRERI viene ucciso in quello strano conflitto a fuoco dal GIALLOMBARDO, nonostante questi fosse stato avvertito dal (pag. 25) PAOLANTONIO della funzione di questo confidente per la cattura di Giuliano… e quando il bandito ferito, nella caserma di Alcamo, chiese di essere portato a Palermo, e spiegò che era un “agente segreto” al servizio dell’ispettore MESSANA, perché venne ugualmente ucciso, con una “esecuzione a freddo?”.

Tale ricostruzione storica ed il conseguente giudizio sulla condotta tenuta nella circostanza dal cap. GIALLOMBARDO, appaiono fondate su accadimenti dimostrati. Si tratta per altro di intuizioni storiche largamente condivise dalla comunità scientifica (vedi le deposizioni dei testi della difesa e le opere storiche prodotte anche in copia) e di giudizi negativi espressi anche da organi dello Stato (vedi sopra, pag. 15,Relazione della Commissione parlamentare Cattanei sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MAURIZIO BERNARDINETTI).

Occorre sottolineare che lo scrittore ha offerto una ricostruzione completa della morte del FERRERI, riportando, anche se per confutarla, la versione ufficiale, citando il Rapporto giudiziario redatto dall’allora capitano GIALLOMBARDO e indicando persino l’onorificenza ricevuta da quest’ultimo a seguito dell’uccisione del FERRERI ( vedi sopra, pag. 3,4,5).

Analizzando i singoli punti della contestazione si deve osservare, in primo luogo, che il termine “imboscata”, adoperato dallo scrittore per indicare l’operazione che condusse al conflitto a fuoco con i banditi appare di per sé privo di una connotazione negativa, indicando il fatto pacifico che i carabinieri si erano appostati in attesa dei banditi, facendoli così cadere in una trappola.

In secondo luogo risulta dimostrato che TERRANOVA ANTONINO, durante il processo di Viterbo, abbia riferito che, prima dell’uccisione di FERRERI, vi era stata una conversazione telefonica, di cui era stato informato lo stesso GIULIANO. L’episodio della telefonata è per altro confermato dallo stesso GASPARE PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo (vedi sopra pag. 14).

La circostanza che il PAOLANTONIO avesse per tempo informato GIALLOMBARDO dei rapporti esistenti tra FERRERI e l’ispettorato di (pag. 26) Pubblica Sicurezza emerge dalle deposizioni del primo davanti alla Corte d’Assise di Viterbo ed al comitato d’indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 22.10.69 (vedi sopra, pag. 13).

Lo stesso GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio del Gen. CALABRO’, subito dopo la morte DEL FERRERI, ha precisato di aver espressamente richiesto al Gen. che il Col. Paolantonio non partecipasse a tale incontro, proprio perché già sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo tempestivamente informato dei rapporti esistenti tra FERRERI e MESSANA (vedi sopra, pag. 9) .

Mentre e pacifico che FERRERI si fosse subito qualificato quale “agente segreto “, per quanto attiene alla condizioni fisiche del bandito al momento del arresto, il Gen. GIALLOMBARDO ha in udienza affermato di non essersi accorto che il bandito fosse stato ferito gia nel primo conflitto a fuoco. Lo stesso generale però aveva firmato il Rapporto Giudiziario in cui si dava atto che il FERRERI disse subito di essere ferito; inoltre GIALLOMBARDO ribadì tale informazione deponendo al processo di Viterbo (vedi supra, pag. 17).

Su tale aspetto il CTP ha dichiarato che le ferite all’epigrastrio, evidenziate nel processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto comportare una evidente emorragia addominale e una fuoriuscita di materiale gastrico, di materiale ileale e fecale (vedi supra, pag. 16).

Infine lo scrittore si chiede perché FERRERI, nonostante si fosse qualificato come agente segreto, fu ucciso con una “esecuzione a freddo”.

Innanzitutto l’autore riporta tale espressione tra virgolette, proprio per segnalare la non originalità della stessa. Tale espressione era stata infatti già usata da Carlo Ruta, nel suo libro “Il binomio Giuliano- Scelba” e da SALVATORE NICOLOSI, nel libro “L’impero del mitra”. Lo stesso concetto è espresso anche da Giuseppe Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica” (vedi supra, pag. 13-14).

La tesi secondo cui FRA DIAVOLO fu ucciso dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una colluttazione provocata dal primo, (pag. 27), ma “a freddo” in seguito ad un ordine telefonico, emerge, come detto, dalle dichiarazioni rese da TERRANOVA e PISCIOTTA al processo di Viterbo.

Si tratta di una intuizione storica che però è in contrasto con quanto narrato dal querelante sul punto e con gli atti giudiziari relativi al procedimento penale subito dal GIALLOMBARDO conclusosi con la sua archiviazione.

Tuttavia il teste GIALLOMBARDO, nel corso della sua deposizione, è caduto in numerose contraddizioni ed in inspiegabili incongruenze con atti ufficiali e considerazioni logiche e medico-legali.

Egli infatti sembra avere mentito in ordine alle condizioni fisiche del FERRERI al moamento dell’arresto, forse per rispondere ai dubbi sulla possibilità di una colluttazione provocata da un soggetto gravemente ferito; così invece giustificando tali dubbi. Del resto o il bandito era gravemente ferito, ed allora non poteva certo scatenare una lite dall’esito scontato, ovvero non lo era, ed allora si trattava di un feroce e pericoloso bandito che non poteva non essere ammanettato e chiuso in una camera di sicurezza ed anche in questo caso non avrebbe potuto avventarsi contro il capitano. Inoltre in quest’ultimo caso resterebbe il mistero su chi e quando avesse procurato al FERRERI la ferita allo stomaco, in effetti descritta nel verbale di autopsia come procurata da proiettile di piccolo calibro da distanza ravvicinata.

Il generale ha inoltre affermato che non era stato informato dal PAOLANTONIO del ruolo di FERRERI come confidente di MESSANA; ma, oltre alle contrarie dichiarazioni rese dal PAOLANTONIO al processo di Viterbo, egli stesso è caduto in contraddizione affermando di avere espressamente richiesto al generale CALABRO’ che il PAOLANTONIO non partecipasse all’incontro previsto, perché sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo informato di tale ruolo del FERRERI.

Nel corso della deposizione del querelante, come detto, è emersa anche la falsità del suo Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, non solo da un punto di vista formale, in quanto in realtà redatto da un soggetto diverso dal firmatario e comunque (pag. 28) non presente ai fatti, ma da un punto di vista sostanziale, nella parte in cui attesta la presenza del mar. LO BELLO e del car. GUERCIO durante la colluttazione con il FERRERI.

Come conseguenza non sembra più utilizzabile dal GIALLOMBARDO, a sostegno della propria versione, il provvedimento di archiviazione emesso dal Giudice Istruttore di Trapani in data 30.12.1948, basato evidentemente proprio su tale rapporto e sulle deposizioni dei due falsi testimoni.

Inoltre tutte le sopra riportate considerazioni del consulente di parte non possono alimentare i dubbi sul reale svolgimento dei fatti che portarono il bandito FERRERI alla morte.

Del resto accettando un’informazione da un confidente appartenente alla mafia, si accetta il rischio di essere strumentalizzati dalla stessa.

In conclusione, a fronte di una poco chiara versione dei fatti offerta dal querelante, la tesi del querelante sulla fine del bandito FERRERI, impossibile da documentare oggettivamente (poiché opinioni e giudizi possono essere condivisibili o meno, ma non certamente essere veri o falsi), trova fondamento in fonti certe ed appare plausibile e sostenibile.

In assenza di testimoni degli ultimi momenti di vita del bandito, in considerazione delle molteplici contraddizioni e falsità evidenziate, nonché del lungo lasso di tempo intercorso dal fatto, non sembra oggi possibile ricostruire una verità processuale sull’uccisione di SALVATORE FERRERI: la vicenda pertanto rimane affidata al giudizio della storia e dei suoi studiosi.

Casarrubea Giuseppe DEVE QUINDI ESSERE ASSOLTO DAL REATO ASCRITTOGLI AL CAPO B) perché IL FATTO NON COSTITUISCE REATO, IN QUANTO COMMESSO NELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI CRITICA STORICA.

Diversamente, in ordine al reato contestato al capo a), non risulta dagli atti evidente, ai sensi dell’art. 129, secondo comma c.p.p. che il fatto non costituisce reato.

In primo luogo si osserva infatti che le dichiarazioni contestate non sono contenute in un libro di storia, ma sono state pronunciate dall’imputato nel corso di un’intervista televisiva che non può certo essere qualificata come opera letteraria tutelata dall’art. 33 della Costituzione. (pag. 29).

Le gravi parole profferite, “eliminato a freddo”, “esecuzione”, “fatto assolutamente criminale”, non hanno trovato adeguata spiegazione nel corso della breve intervista.

In sostanza, mentre il lettore del testo del CASARRUBEA ha la possibilità di apprendere tutto il contesto storico ivi descritto, compresa la versione ufficiale della vicenda, di conoscere le fonti su cui lo storico basa il suo ragionamento, ed eventualmente di giungere a conclusioni diverse da quelle dello scrittore, lo spettatore della trasmissione televisiva del 30.04.1997 ha potuto solo ascoltare la tesi dello scrittore, presentata come unica possibile versione dei fatti: in tal modo non sembrano essere stati rispettati i limiti del diritto di cronaca o di critica, poiché appunto la te3si dello scrittore è stata esposta come unica verità e poiché l’espressione “fatto assolutamente criminale”, peraltro pronunciata al di fuori di un contesto più ampio, viola il sopra descritto principio di continenza.

Ciò posto, il reato ascritto all’imputato al capo a) della rubrica deve essere dichiarato estinto per essere decorso il ternine di prescrizione previsto dalla legge (artt. 157-160 c.p.), rilevato che si tratta di reato commesso in data 30.04.1997 e ritenute concedibili le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, in considerazione dell’incensuratezza dell’imputato e della sua personalità.

P.Q.M.

Visti gli artt. 157 e ss. C.p., 531 c.p.p.

DICHIARA

Non doversi procedere nei confronti di CASARRUBEA GIUSEPPE in ordine al reato di cui al capo A), essendo lo stesso estinto per sopravvenuta prescrizione;

Visto l’art. 530 primo e terzo comma s.p.p. (pag.30)

ASSOLVE

CASARRUBEA GIUSEPPE dal reato ascrittogli al capo b) perché il fatto non costituisce reato, in quanto commesso nell’esercizio del diritto di critica storica;

indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.

Partinico, lì 27 gennaio 2006-06-29

Il giudice

DOTT. SALVATORE FLACCOVIO

Depositato in cancelleria, lì 27 aprile 2006-06-29 Il Cancelliere



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Postato da Blogger su Contra Omnia Racalmuto il 3/28/2015 06:28:00 PM

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