Profilo

sabato 18 luglio 2015

Beppe Cino, Pierino Carbone, Ben Morreale, Mangrino ed io

 
 
 
 
 
 
Davvero Beppe Cino trae un suo film (doverosamente di sinistra) da un romanzetto di una spia americana della CIA, tutto di destra e soprattutto anticomunista e di conseguenza avverso ad un ipotetico Leonardo Sciascia che Ben Morreale considerava dissennatamente un agit prop del PCI a Racalmuto?
 
 Del suo "Sorci Verdi" il Morreale ebbe l'improntitudine di farne omaggio a Sciascia che sornione  rimise il volume alla locale Biblioteca di Racalmuto ove ebbi la ventura di trovarlo, leggerlo e riderci sopra.
 
Portammo dopo al Circolo Unione di Racalmuto il Morreale - quando ormai era vecchio pentito e cattolicissimo (persino biglotto). Si prestò al nostro cinico gioco. Io sobillai l'avv. Garlisi. L'avvocato Garlisi derise sardonicamente il pentito autore dei "sorci verdi". Quella sera i sorci verdi glieli fece vedere l'arcigno legale racalmutese.
 
Perché mai, in tempi di guerra fredda, il Morreale sedicente professore di storia forse in Francia dedicò tanta attenzione a questo nostro piccolo paese? Cosa terrorizzava la CIA americana? Davvero SI TEMEVA L'INTELLTUALE DI SINISTRA CHE ALL'EPOCA CORRISPONDEVA AL NONE DI LEONARDO SCIASCIA?
 
IN QUEL LIBRO VI E' ANCHE UN ANTICLERICALISMMO DI BASSO CONSUMO. NE FECE LE SPESE padre Arrigo, alle prese con una puttana messaci nascostamente a disposizione da un personaggio di media borghesia, il Sicurella,  nella sua villa sotto San Giuliano.
Ma lasciamo correre. Una cosa mi impressiona. Leggo con occhio critico ma non ormai del tutto avverso la STORIA SEGRETA DELLA SICILIA di Giuseppe Casarrubea mio equivoco contendente sino alla sua recente morte (mentre flirtava con me dà documento di sostegno e assenso al linciaggio di Gigi Restivo nel suo MalgradoTutto  consumò in un Natale contro il mio tentare di dedicare una via al grende compaesano comm.  di San Maurizio e San Lazzaro dottore Ettore Messana.
 
A pagina 40 di quel libro, leggo: "c) Giuseppe Mangrino 'l'The Senator ex deputato al parlamento e socialista di spicco, ha trascorso un periodo di esilio e in grado di attivare contatti preziosi a Messina e dintorni". Per Casarrubea il Mangrino rientra in un elenco di "spie e sbirri , delatori e doppi agenti dell'OSS".
 
E con ciò? direste. Vi dico che il mio affabile informatore  Guglielmo Schillaci  mi parlava a lungo di un senatore frequentatore per lungo tempo del Circolo Unione di Racalmuto. Poi sparì, certi bene informati dissero che altro che socialista era, era un agente dell'OVRA. Dall'Ovra all'OSS non è che fosse un tragitto raro. In questo il libro del Casarrubea è molto  informato.

lo zafferano sicano della grotta di Fra Diego, l'eretico di Sciascia

Questo per me era e resta lo ZAFFERANO GIALLO,  il particolare crokus che Strabone attorno agli anni Trenta d. C. diceva essere la terza fonte del nutrimento dei Sicani (dopo il frumento e il miele). Per Sicani Strabone intendeva le plaghe che da Enna si estendevano sino alle porte di Akragas, epicentro i Monti Sicani e nel cui ambito ritengo centrale la Grotta di Fra Diego di Racalmuto con il circondante territorio di Milena.
Ne trovai un esemplare in autunno appunto in una balza che sale dallo zubbio su la pianura sopra la nostra grotta immortalata da Sciascia.
Giravo LE PARROCCHIE DI GIRGENTI per Studio 98, speaker d'eccezione Totuccio Palermo al quale faccio tantissimi auguri. Ne ha tanto bisogno. Quanto è ingrata questa Racalmuto!
Non ne conoscevo né nome né caratteristiche. Qualche lume ebbe a darmelo il linneo racalmutese dottor Giovanni Salvo. Ma da scienziato sognatore non vuole che se ne diffonda la notizia. Scrive a pag. 105 del suo "Racalmuto -  il patrimonio storico - Gli ambienti - la flora . la fauna" che trattasi di "ZAFFERANASTRO GIALLO (Sternbergia  lutea)". Non tollero quel dispregiativo! E poi chi ci dice che lo zafferano di Strabone o meglio quello del colore del tanto zolfo del suolo che trovai allora sia proprio quella specie che se non capisco male fu individuata dal un botanico lontanissimo, lo Sternberg? Se non se ne studiano le autoctone caratteristiche, i bulbi, la loro composizione chimica etc - e spero che gli abilissimi studiosi di Niscemi vi suppliscano e mi diano un qualche conforto - non potrò aderire alla catalogazione del Salvo - Strabone invero parla di crochi e questi non sono commestibili. Ma ovvio che si riferiva appunto allo zafferano, terza fonte nutritiva, dei nostri prati solfiferi.
 
Io vivo in questo mondo e penso che tutto deve essere rivolto al miglior tenor di vita degli esseri umani. Quindi, per me, dovrebbero riprendere le coltivazioni di tali particolari pistilli. Ora come ai tempi di Strabone. Se vogliamo lavoro per i giovani, progresso, il rifiorire dell'agricoltura anche per attirare turismo con cibi sani genuini ed antichi.
Svegliamoci e diamoci alle iniziative proficue.

la primissima colazione dei mietitori di Baccarecce (ormai solo un vago ricordo)

la primissima colazione dei mietitori di Baccarecce (ormai solo un vago ricordo)


Il linguaggio del Cicolano mi affascina, quello originale antico autentico. Sono siciliano e spesso colgo assonanze tra il mio dialetto e questo delle terre che circondano il Lago del Salto. Regno delle due Sicilie insomma che qualche traccia l'ha lasciato. Ma qui dominò anche Federico Secondo, lo Stupor Mundi abbandonò la Sicilia e scorribandando di qua e di là nei pressi edificò L'Aquila, addosso allo Stato Pontificio ancora adesso sorge Girgenti.



Dai parenti di mia moglie qui persino stanziali colgo taluni detti, termini, espressioni che esulano dalle lande del comune dissertare per acquisire valenze di grande civiltà, di costumi specifici. di inobliabili passioni.



Ecco un termine, ad esmpio: U SDIUNU,



Tempo di mietitura, lavori defaticanti, estenuanti. Contadini in stato di grande miseria. Il grande proprietario terriero (mio suocero lo era a Baccarecce frazione di Pescorocchiano) radunava quei contadini bisognosi. La mattina presto, tutti nell'accogliente caseggiato che il Lugini jr. vorrebbe derivazione della villa rustica romana. Per il Lugini il facoltoto proprietario terriero metteva sù casa per le sue necessità anche per il suo decoro. Egli aveva un ambiente sola a mo' di torretta da dove dominava i suoi terreni, i suoi vigneti in digressioni a terrazzamenti, le "prata": agiva da praetor, vigilava, dirigeva, richiamava; era autorevole ma suo modo generoso.



Ed in effetti mio suocero, il sor Costantino Benedetti, ne aveva di questi tratti dominatori.



I mietitori dunque del borgo (Baccarecce) si radunavano nel palazzo del signorotto e subito avevano modo di ristorarsi. Subito vi era U SDIUNU. una precolazione ove abbondava il pane, il pane di grano: il mietitore ne mangiava una piccola parte, il resto lo conservava per i suoi figli per la sua famiglia. Tempi duri di fame e di miseria che durarono sino al primo dopoguerra. Dopo il grande esodo a Roma e quindi la crisi dell'agricoltura nel Cicolano che Mussolini con quel lago artificiale aveva molto rastremato di terre coltivabili. ç

rapsodia storica


Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.

Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.

Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti.

Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.

Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:

30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;



ed il cappellano detentore dei libri annota:



Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis

Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.

Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.



L’interregno di Maria Branciforti









Eseguita la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente requisiti. La Corte però non li trattiene: li concede alla vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto torna in potere dei del Carretto.

Il privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore dei curiali di Palermo.

Donna Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla Gancia di Palermo:

(Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)

Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;

inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.



Giovanni V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui ignoriamo l’età.





GIROLAMO III DEL CARRETTO









Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tal Macaluso - in mano dei Gaetani.

Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.

Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:

1625 LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA




Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.

S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine.

La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.



Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.

Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:

«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674); Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»



Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche per lui irresistibile.

Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.

E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. Sono ricavabili questi estremi:

"COPIA Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO 1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".



Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:

  1. Domina Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et Branciforti comitis Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS



Sappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della matrice:

906 10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.



Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.

Girolamo III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati che emergono dal Fondo Palagonia. Un atto soprattutto.

Il conte ha modo di dire di sé:

Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.



Il feudo di Racalmuto a fine del ’600

Ed ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:

Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:

  1. delli Gibillini e feghi
  2. delli Cometi;
  3. e fegho delli Bigini;
  4. del fegho di Zalora;
  5. del fegho di Scintilìa;
  6. del stato e ducato delli Grotti;
  7. del fegho e principato di Campofranco;
  8. e fegho della Ciumicìa

e altri confini ...

Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.

Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - -





Non sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della contea ancor prima della sua stessa propria morte.

Girolamo III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.



Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.





Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.

Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.

La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.

Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:

Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.



La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.



La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.

Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:



1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie



Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.

Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.

E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.

Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica).

Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).

Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.

Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).



L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.

Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.

Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).

Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.



Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.

Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.

Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:

GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA







L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.

''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:

- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;

- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;

- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;

- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;

- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.

Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento.

Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.

Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''

Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.



GIUSEPPE I DEL CARRETTO









Continuiamo Con il Villabianca: « Videsi questo nell'onorato impiego di Capitano di Palermo nel 1698, e premorendo al padre senza figli fece estinguere nella sua persona la Famiglia illustrissima del CARRETTO de' Signori di SAVONA, che prendendo origine Reale, stimavasi una delle più cospicue Prosapie di questo Regno (f) [Caso di Sciacca del SAVASTA cap. 15. f. 43]. Fu sua moglie BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA, la quale per il credito della sua dote avvalorato da una sentenza proferita dalla R. G. Corte nel 1711. pigliò possesso di questo Stato, e insieme di questo Titolo a 10. luglio 1716. Venendo essa a morte succedette in questi feudi sua sorella OLIVA SCHITTINI e GALLETTI maritata a Giacomo P. Lanza, il di cui figlio



ANTONINO LANZA e SCHITTINI se ne investì a 26. Agosto 1739. Questi vive attuale P. Ventimiglia, P. Lanza, B. dello Stato di Calamigna, etc.»

Don Giuseppe del Carretto riceve l’investitura di Racalmuto il 21 marzo del 1687 « ob donationem inrevocabiliter inter vivos sibi factam per illustrem d. Hieronymum del Carretto eius patrem vigore donationis per acta notarii predicti de Cafora et Tagliaferro die 17 maij X ind. 1687 sicuti depositione dicti ill.is d. Hieronymi constat per investituram per eum captam olim die 16 septembris V ind. 1666

E’ costretto a ripetere il rito per la morte di Carlo II il 20 gennaio 1702. Altre spese. Altri dissi con il padre che risulta ancora vivo. Nella documentazione palermitana abbiamo:

«Si può passare l'investitura per la presente possessione tantum ob mortem Caroli Secundi regis Domini nostri in Palermo a 20 gennaro 1702 - Don Giuseppe Bruno.»

Giuseppe del Carretto nel 1702 è plurititolato;

questa la sfilza dei suoi feudi e titoli:

Die decimo nono Januarii X ind. 1702

illustris d. Joseph del Carretto possessor ac dominus comitatus Racalmuti ducatus Bideni Marchionatus Sanctae Eliae et baroniae terrae Ferulae.

Il padre don Girolamo III risulta ancora vivo a quella data del gennaio 1702. Se è vero che il figlio gli premorì, tale morte avvenne tra questa data e qualche tempo prima del 1711, quando ad avviso del Villabianca fu pronunciata la sentenza di assegnazione della contea di Racalmuto alla vedova di Giuseppe I del Carretto, BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA.

Girolamo III del Carretto cessava di vivere il 9 marzo 1710. In un documento del fondo Palagonia riguardante don Luigi Gaetano si parla infatti «de morte sequuta dicti ill.s D. Hieronymi per fidem mortis Parochialis Ecclesiae Sancti Nicolaj de Calsa h. u. sub die nono martij 1710 sicuti de possessione dicti quondam ill.s d. Hieronymi constat per investituram per eum captam olim die 16 septembris 5 ind. 1666.»

I nobili del Carretto cessano quindi di essere i feudatari di Racalmuto il 9 marzo del 1710. Con tale data si chiude anche la nostra ricostruzione della vicenda feudale carrettesca in quel di Racalmuto. Quel che avviene dopo - e dura un secolo - è storia del baronaggio locale con gli Schettini, i Gaetano (la parentesi Macaluso non rileva) ed i Requisenz protagonisti. I nobili del Carretto racalmutesi - quanto al ramo maschile - si sono piuttosto malinconicamente estinti, prima dei grandi sconvolgimenti storici del 1713 allorché vi fu il breve avvento in Sicilia dei Sabaudi.







APPENDICI



Il Falconcini è proprio un fanatico del Nord, venuto a Racalmuto ‘a miracol mostrare’ della prepotenza piemontese: attorno all’autunno del 1862 sua altezza prefettizia non può tollerare che nel piccolo paese dell’Est agrigentino due famiglie continuino a fare sceneggiate da Capuleti e Montecchi. Contatta il sindaco di Agrigento, Giuseppe Mirabile; lo sa amico dei Matrona e dei Farrauto; gli fa sapere che se costoro non mettono la testa a posto, lui all’isola li manda; ne i poteri; ne ha la voglia - forse più verso i Farrauto che verso gli ora prediletti Matrona. Il Nostro grafomane lo dovette essere: prende carta e penna e così indirizza una missiva al disorientato sinfaco agrigentino: « Al signor avvocato Mirabile sindaco della città di Girgenti ... Il paese di Racalmuto ... è diviso in due partiti ... l’uno capitanato dai signori Matrona, ed assume l’apparenza di liberali; l’altro è qui dato [da chi? Dall’avv. Picone?, n.d.r] dai signori Ferrauto e Mantione e fa sembianza di rimpiangere il dominio dei borbonici. [...] Io son risoluto far cessare il più presto e per sempre le gare delle famiglie Matrona e Ferrauto. [...] Ella signor sindaco tiene rapporti di amicizia con i membri delle due famiglie Matrona e Ferrauto. [Dato che è bene] non mantengano esagerate passioni politiche, [è bene si sappia che] potranno facilmente essere forzati a vivere lontani dal paese.

«In pari tempo provo il bisogno di notiziare V.S. Ill.ma che l’arresto avvenuto del sacerdote Mantione, e ciò che ad esso terrà dietro, fu cagionato solo da speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità, e non derivò per nulla dalla sua inimicizia personale coi Matrona [...] Girgenti 3 ottobre 1862. Il prefetto Falconcini.»

La nota ci svela il connubio tra i Farrauto ed i Mantione: i Mantione erano pur sempre gli eredi di quel bizzarro - ed impropriamente osannato - canonico Mantione. Ancora nell’Ottocento erano potenti e (se crediamo al Falconcini) prepotenti. Certo non era cosa da poco carcerare un sacerdote solo per la prevenzione di un prefetto nordista, all’improvviso convertitosi alla causa dei Matrona. Excusatio non petita, ci pare quella giustificazione della carcerazione del sac. Mantione solo “per speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità”; noi siamo certi che alla base c’era solo la vendetta dei Matrona, il loro odio verso chi ritenevano reo di insolente “inimicizia personale”. Alla faccia del perseguitato Falconcini, qui fanatico estimatore dei Matrona così come il suo postumo - oltre un secolo dopo - Sciascia.

Il sac. Mantione, così anonimamente infangato dal nordico prefetto, resta d’incerta individuazione - salvi gli apporti di ulteriori ricerche d’archivio - essendo due i sacerdori con quel cognome operanti in quel tempo a Racalmuto: Annibale e Giuseppe. Nei nostri archivi informatici ritroviamo:



DIACONI E CHIERICI

1
1851
ANNIBALE
MANTIONE






13
1851
GIUSEPPE
MANTIONE
A.26 PALERMO CAPP. OSPEDALE





ANNO 1873



17
1873
GIUSEPPE
MANTIONE
A.49
19
1873
ANNIBALE
MANTIONE
A.45
ANNO 1878








3
1878
GIUSEPPE
MANTIONE



Nel “liber in quo adnotantur ... nomina sacerdotum “ della Matrice sono così contrassegnati:

n.° 420: D. Annibale Mantione, Mansionario, obiit 27 Maji 1882;

n.° 429: D. Giuseppe Mantione, obiit 4 Aug. 1888.

Si è certi che entrambi i preti Mantione si godevano ora i frutti della parsimonia del loro zio canonico. Contro costui noi non siamo nuovi nello scriverne contro corrente. Citiamo questo passo.

Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una poco esaltante ombra.

A voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle fonti, al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine).

Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio viene riadatta, o edificata (o riedificata) la novella chiesa di S. Rosalia che resiste sino al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.

Ma già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozzini nella visita pastorale del 1732. Vi si riferisce il § IX ove è inclusa nell’elenco “delle processioni” quella di “S. ROSALIA”.



Ritorniamo alla già citata pagina del Messana su Scipione Savatteri. Il Messana trasse lo spunto da un episodio del 1625 per la sua epopea familiare. L’episodio è narrato dal Cascini, un padre gesuita del ‘600 incaricato dal cardinale Giannettino Doria per un’inchiesta sulla santa, incarico che si risolse in un libro non spregevole ai fini delle ricostruzioni storiche dell’epoca. Il gesuita narra che: "Ne si mostrò poco divota verso S. Rosalia la terra di Rahalmuto, la quale come si è detto nel primo libro, fin dal suo principio, nacque sotto la protettione di questa Santa e vi dedicò la sua prima chiesa, havendola hora rifatta di nuovo; è incredibile la divotione, con che viene visitata a piè scalzo ogni sera non da pochi, ma d'una moltitudine grande. Però con molto maggior mostra di pietà, e humiltà ciò fecero il giorno quando accompagnarono la sua Santa reliquia, che fù l'ultimo di Agosto 1625, erano andati a portarla da Palermo, ben 80. a cavallo, e quella mattina, che fù Domenica, si cantò prima [pag. 375] la Messa nella Chiesa dei Padri Minori Osservanti colla solennità solita; e si liberò una spiritata; dopo il Vespro pur solenne si fece la processione, nella quale, benché vi fosse molta pompa d'apparato con tre archi trionfali, di luminarie per tre giorni, di concerto di Musiche, e salve di schioppi, nondimeno superava ogni cosa la devotione, che s'udia delle voci, e sospiri, e pianti, e si vedea della moltitudine tutta a piè scalzo.

Accettò la Santa la pietà loro, e gli mostrò a chiari segni, che la sua protettione l'havea liberati dalla pestilenza; imperoché havendo la terra delle Grotte presso à due miglia molto mal menata da quel morbo, colla quale così infetta per un buon pezzo, prima che fosse dichiarata, vi fù pratica stretta, per essere in buona parte parenti fra loro e haver molta communicatione, non si attaccò però male veruno; anzi entrandoci dentro appestati diversi, si di questa terra, come d'altre, i medesimi che la portavano poi in altri luoghi, quivi non vi lasciarono vestigio alcuno.»

Ed ecco, di rincalzo il nostro Eugenio Napoleone Messana, rifare quella storia, ampliarla, manipolarla, modificarla ed elevare il peana ai suoi parenti Savatteri:



«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia unica del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto] aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo per la legge del maggiorasco vigente era destinato alla successione della contea.



«Le figlie erano entrambi ospiti della zia Marzia del Carretto, figlia di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al 1598, data della sua morte e vi sarebbero forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del padre, allarmato dell'insurrezione contro il nuovo pretore. In quell'occasione Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero ricondotte al castello sane e salve.



«La sorte arrise al milite Scipione Savatteri che sposò Maria ed ebbe in dote il feudo di Gibillini. Questo matrimonio diede inizio alla famiglia dei Savatteri di Racalmuto, che risulta essere la più nobile di tutte le altre.



«I Savatteri infatti discendono da Pable Zavatier, nobile francese al seguito del conte Ruggero [...]



«Non si hanno notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai nozze, si sa soltanto che lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l'Abbazia di Santa Chiara ...».



Stando al Villabianca (Sicilia Nobile), l’abbadessa si chiamava Maria e non Marzia.





Ma, per completezza, occorrerebbe addentrarsi nelle vicende del casato dei Del Carretto e per far ciò necessiterebbe un libro intero - che forse apprirà a suo tempo e luogo. Abbiamo già scritto sulle tante figlie di Girolamo I Del Carretto - il figlio Giovanni, figlie legittime non ne ebbe - soprattutto sulla celebre virago donna Aldonza, quella che dotò il convento di Santa Chiara: queste le altre sorelle: donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto. Le del Carretto - antecedenti e successive - non potevano essere assegnate in isposa a Scipione Savatteri, per evidenti ragioni .... di età. Quanto alle altre sbavature sui del Carretto del Messana, è meglio qui sorvolare.

Scipione Savatteri primo (ve ne sarà un altro a fine secolo XVII) è di per sé una figura di spicco: non abbisogna di sicuro di falsi orpelli nobiliari per imporsi all’attenzione degli storici.

I Savatteri a metà del secolo XVII.



Il ricco archivio della Matrice di Racalmuto ci ha conservato due “numerazioni delle anime” - cioè a dire due censimenti religiosi - che sono databili, rispettivamente, intorno al 1660 ed al 1666. La compagine racalmutese risulta a quell’epoca arricchita di vari nuclei familiari dei Savatteri. Ci risultano sei nuclei per il 1660 e sette per il 1666. Nuovi nati e nuovi matrimoni spiegano le variazioni dei nuclei familiari. Presso Filippo Savatteri, alloggiava nel 1660 Maria la Bosca. Un personaggio - Isabella la Bosca - che è venuto alla ribalta di recente in studi sulle “magare” inquisite dal Sant’Ufficio. Parente o mera omonimia?

Il padre Girolamo M. Morreale vorrebbe un Gaetano Savatteri donante nel 1627 per devozione verso Maria SS. Del Monte; pensiamo che il dotto gesuita sia incorso in un duplice errore: quello di considerare donazione un mero obbligo di soggiogazione e quello di leggere in Gaetano un nome diverso, forse Giacomo. A quell’epoca non risultano Savatteri con il nome di Gaetano (ben diversamente da ciò che avverrà nel XIX e XX secolo).