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domenica 6 marzo 2016


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Gli anni 1390-1416 introdussero nella storia del feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie


sono domate e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [1] Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona ormai l’infrazione della legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente espanizzata. La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa;  la Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara la sua concessione. Essa si assume ancora il controllo dei matrimoni. [2] La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e catalanizzata dai Martino si trova sempre di fronte l’avversa congiuntura che caratterizza la fine del XIV secolo: una rendita in calo che non compensa più le usurpazioni facili le rendite del Patrimonio reale ora difese da un’amministrazione castigliana strettamente legata alla casa d’Oltremare: un indebitamento cronico accresciuto dall’ammontare delle spese di prestigio per doti esagerate. Nel servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i profitti ed i posti di prestigio riservati all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme al modello ispanico [3]

Questi ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una classe di coqs del villaggio, determinano un ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.

Una buona gestione patrimoniale, il consenso generale d’una opinione e d’una monarchia che vogliono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e dello Stato, l’espansione, così, in Terraferma, ripresa dopo una pausa di più di 50 anni,[4] permettono alla feudalesimo siciliano di attendere senza troppo danno il punto di ritorno della congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è l’essenziale; la ripresa delle rendite, che segna subito la ripresa demografica ed il grande movimento commerciale, all’inizio irregolare, poi regolare, restaura , nel 1450, definitivamente la povertà economica della nobiltà fondiaria e del clero, lungamente scalfita. I primi indici di questo raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420, ma lento e contrastato. Poi s’estende ai feudi dell’interno. [5] Nel 1513, Giovan Luva Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che precisano la  rendita – sulla quale poggia l’imposta de sang -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al 193,8% in Val di Noto, infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di questi due secoli; e queste percentuali sono confermate e messe in risalto nella tavola n° 195, ciò frattanto sicuro: le modifiche sella geografia feudale sono, in effetti, numerose.

L’acuta sensibilità  dell’aristocrazia feudale e delle famiglie della nobiltà urbana verso la  congiuntura delle rendite terriere non spiega solo le strategie d’acquisizione dei “latifondi” che si prolunga, dopo la fase di abbandono delle terre (tra il 1350 ed il 1390, si aveva conoscenza di una dozzina di donazioni di feudi ai monasteri), l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione modesta e recente rivaleggiano per ottenere delle chiese e dei bagli perpetui bloccando – in perpetuo – un affitto con minaccia di aumento,

 Molto consapevoli dell’evoluzione della domanda essi spogliano coscienziosamente vescovadi e monasteri del sovrappiù futuro della rendita  e si dimostrano generosi pur di sciogliere il contratto.[6]

Più approfonditamente, la fiducia ritrovata li incita ad incrementare il loro vantaggio, a tentare di assicurare alla loro classe il possesso del suolo, e a rinforzare la loro proprietà per la generalizzazione dello stato feudale della terra..

Parallelamente, dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, vera “reazione feudataria” che ispirano le difficoltà economiche molto reali, i baroni titolari di “terre” abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, essi estendono il potere feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in favore della lunga e costosa impresa napoletana, e che permette di colmare gli effetti ritardi della crisi delle rendite terriere. Un altro disegno si fa gradualmente chiaro nella prassi della nobiltà siciliana, quello di ripopolare delle terre. Là ancora, essi rinnovano, dopo la parentesi della catastrofe demografica, con la loro tradizione della difesa dell’abitato rurale  -  un migliore sfruttamento della terra, la rendita delle gabelle, e della giustizia e l'autorità politica vale bene il sacrificio di qualche salma di terra, destinata a  giardino ed a beni comuni per i nuovi abitanti.

Questa nobiltà che accetta la pace reale, lascia frattanto le armi. Essa non rinuncia né al prestigio della cavalleria né al gusto della violenza. Se, nella mischia feudale, le strategie familiari si cozzano, la nobiltà terriera veglia gelosamente sul suo stile di vita, sulla sua autorità, sugli uomini, con un’alta coscienza della sua specificità. Ma senza “serrata”: questa aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, stile, prestigio attirano, affascinano. E il rinnovamento delle famiglie, permette la mobilità del capitale feudale, disinnescano gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e l’aristocrazia fondiaria.

 

 



[1] ) Nel 1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re, e, verso il 1459, quella del feudo Taya  ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[2] ) Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni dell’erede unico del feudo), Alfonso dal 1419 al 1454, spinge in modo pesante a concludere dei matrimoni, pagati dai candidati facoltosi 100 onze promesse la re per Giovanni Torrella, per la mano della figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo). quelli sollecitato, su 50 candidati, 32 catalani, 5 napoletani, per 12 siciliani solamente (più un rabbino siciliano); quasi tutti sono nobili, o per lo meno fanno una carriere militare o di corte. Le giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui 9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate, qualche volta successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea!; ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[3] ) I dottori in legge provengo già di sovente, nel XIV secolo, dal meglio dei cavalieri urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello, Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo). La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[4] ) Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per una’lleanza matrimoniale con il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La conquista ha così permesso di ridurre in Sicilia la concorrenza; all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf. E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[5] ) Nel 1446 la locazione del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826, 17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17 once: 58% d’aumento in 5 anni.
[6] ) Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato, i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150 salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone bloccato ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.

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