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martedì 12 aprile 2016

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Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi  sia  al fenomeno  normanno del feudalesimo sia a quello  accentratore  e demaniale  dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo.  Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti  all'agricoltura ed  abili nelle colture arboree e negli ortaggi.  Per quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.» ([1])
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità. ([2])

 Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare.  La religione cristiana di rito latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.

Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni.  Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche.  Le sole in grado di  coordinare  le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita  quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di  protagonista  agli Altavilla  e  rappresentava  un dato  strutturale  della  società normanna.» ([3])
Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino.  Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini suoi, allogeni,  chiamati  dalla natia Normandia,  fu  - ripetiamo - il  taglio adottato  da  Ruggero nella instaurazione della Chiesa  di  Roma nelle  terre  della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.

Il vescovado di Agrigento e le sue pretensioni territoriali: Racalmuto inglobato nella diocesi della Girgenti normanna



Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero.  Dubitiamo persino che ebbe notizia  di  essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al  vescovo  francese Gerlando. Nell'anno 1092, [4] dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando.  I confini della diocesi sarebbero stati definiti  da  Ruggero  in persona. Il documento, in latino ([5]), può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene chiamato  GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra  di  Zineth [Pietralonga];  indi  sino ai confini di Iatina [Iato]  e  Cefala [Cefaladiana]  e quindi ai limiti di Vicari; indi fino  al  fiume Salso,  che  costituisce il discrimine tra Palermo e  Termine,  e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi  lungo  il mare sino al fiume Torto; e da  qui,  da  dove sorge,  si  estende verso Pira, sotto Petralia;  quindi  sino  al monte  alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia  e da questo punto i confini della diocesi seguono  il  corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento  da  Butera.  Lungo la costa i  confini  della  diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini  con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia  la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»

Se  il lettore è stato paziente nel seguire il zig zag dei  confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al  di  qua  del Salso,  venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un  vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne  descritto dalla pur tardiva storiografia  secondo  il consunto stereotipo di uomo  di  nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto.   Tale  versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la  riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato  in  Besansone, città della Borgogna,  di  copiosa  dottrina fornito,  eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed  eloquentissimo,  trasse alla fede gran numero di Ebrei e  di  Musulmani.[p. 454]»
 I padri bollandisti ci appaiono più  circospetti. In base alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono  che Gerlando fosse il gran cappellano del  conte  Ruggero, carica  che  fu  di GEROLDO, e quanto al resto  si  rifanno  alle postume  storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il  vescovo  Gerlando, sono postumi e  secondo  l'ultima  critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda  metà del  sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti  della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e  sulla sua esistenza storica non sembra lecito  nutrire  dubbi.
Il  personaggio non  è dunque inventato e questo è già molto.   E il  vescovo  ebbe subito fama di santità, come può  arguirsi  dal Libellus  custodito nell’Archivio Capitolare ove si  parla dell'anima  benedetta del beato Gerlando che,  discioltasi  dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da  secoli arabo  e solo arabo. Forse residuava un uso del greco  nei  ceppi antichi più tenaci.  Questo vescovo borgognone che chissà  quale  lingua parlasse (pensiamo a quella natia di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di certo, per lui,  incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi  furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.   
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in  mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di  verità  deve pur esservi: forse Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un  certo  colloquio con i potentati locali di lingua  araba.  In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati  poliglotti  che poterono stabilire alcuni contatti, specie di  natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio  Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24  dicembre 1092) - una falsificazione  in  forma originale, secondo il Collura  -  accenna  a nobilati  francesi già presenti in Agrigento, a  concanonici  che officiano  in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti  francesi da  beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi  ed  un cavallo.  Su  tutto  vigila il vescovo Gerlando,  mandato  da  un Rogerius  che  ci avrebbe redento da 'demonicis ...  ritibus'  da riti  demoniaci (che pure era la grande religione di Allah).   Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale,  invero, Petrus Maurituniacus). Vi  è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma  greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a  colpirci, è il richiamo allo  strumento  giuridico  del privilegium che  viene firmato in presenza di testi e davanti  ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene reputato 'justus'.  Francesi, notai, prebende  ecclesiastiche, canonici,  vescovi probi ed assennati, ma anche interessati  alle cose  terrene,  tutto  il mondo  della  burocrazia  ecclesiastica romana  vi traspare, ed era passato appena un  quinquennio  dalla conquista  normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto,  villani, schiavi ed oggetto di pii legati.


Le vicende della conquista normanna


Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Montedoro (più propriamente a Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare); il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.
Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il diradamento del fitto buio che oggi ci angustia. 
Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi.  Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di I. Peri).  Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.


La genesi del feudo di Racalmuto


Ripuliti gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli [6] e precisamte a quello che reca il n.° 209 il cui sunto recita in latino:
Executoria concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in pertinentiis  Agrigenti, vid. Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus Fridericus incolebat.   [7]                                               

Era dunque un’esecutoria della concessione che veniva fatta da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro Racalmuto, chiamato - non si sa se per errore di trascrizione o per più precisa denominazione - RACHALCHAMUT. Quei tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo, è questa la data di nascita della storia racalmutese, almeno fino a quando non si trovano altre fonti scritte o archeologiche. Per quel che abbiamo detto prima, gli esordi racalmutesi medievali possono retrocedersi di una ventina d’anni, ma non di più.
Un Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che l’Amari considera “diligentissimo cronista” [8] per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di Bartolomeo di Neocastro, del Sanudo. [9]
La vicenda viene dal Peri [10] così sintetizzata ed interpretata:
«Federico Mosca conte di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri (le truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la validità dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»
E successivamente (pag. 46):
«Se la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania, fu più prudente che difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in Calabria.»
Annota, peraltro, l’Amari: [11]«Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500 presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a lui. ...»
Se Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di quello del diploma angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri, neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica (pag. 31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella», quello che avrebbe edificato il nostro Castelluccio.
Ma a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino? Non abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla falsariga del racconto dell’Amari.[12] Le truppe angioine riconquistano il castello di Licata, che era stato assediato dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel 1269 si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a poche città che gli prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine degli Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a combattere per Carlo con la scusa che stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di ventura e crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi d’aprile del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava solo di conquistare Lucera per fame, combatté di persona i Saraceni e si accinse a riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò due volte il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de Beaumont, poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini del solo D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart, ed indi di quest’ultimo soltanto,  fu mandato per sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele della stessa crudeltà, assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap. XVIII). 
L’Estendart condusse nell’isola millesettecento cavalieri con grande numero di arcieri e vi furono associati oltre 800 cavalieri che stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri. Ricominciò davvero la guerra.
Quel condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli, chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la morte dell’Estendart e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di certo dagli Angioini sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni, de Beaumont, poiché ricaviamo che egli riscosse le taglie pagate da vari comuni invece di mandare uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi che Sciacca fu conquistata dagli Angioini.
Anche Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista di Sciacca, che vi avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti da varie parti, riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento, Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200 cavalieri toscani che la difendevano valorosamente. Il re fece costruire apposite galee per quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre 1269. L’ordine era di passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città. Essa fu presa per il tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una porta. Guglielmo d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza, né ragione d’uomini alcuna.»
Cessata la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e confiscare loro i beni», annota l’Amari. [13]
In tale frangente, ebbe dunque a verificarsi lo spossessamento del feudo di Racalmuto che dal “traditore”  Federico Musca passò al fedele - estraneo e francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame. In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura: le sue ubertose terre avranno fornito pane a sufficienza. Ma il nuovo signore de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni granarie. Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca - finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte [14] di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone di Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. [15] Non pensiamo che il conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre, site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo amministratore. Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini di origine araba, usciti da non molto tempo dalla condizione di “villani”, una sorta di schiavitù a mezzo tra la servitù della gleba e la remissiva subordinazione della fede cattolica, vigile nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per il noto aforisma “omnis auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien da Dio. Ed il lontano Negrello era pur sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava ubbidirgli e basta, come al ribelle conte di Modica.


Racalmuto durante i Vespri Siciliani


Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina. [16] Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini; l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed a noi Racalmutesi del Duemila, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel sipario del teatro comunale. [17] Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro. [18] Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo, quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.»[19] Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla [20] - che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato, ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone Federico Mosca - siciliano, onnipresente, collerico, predatore - era subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos amministrativo e la rapida fuga dei  loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone, immagazzinare, alienare, incassare e per intero.
Il 10 settembre 1282, arriva da Palermo una missiva [21] indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri: una richiesta da trabiliare, visto che i locali non avranno capito neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angherie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.


[1])  EDRISI, Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo,  libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele  Amari,  Roma 1880.

[2]) «Un problema complesso e contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, op. cit. pag. 543.
[3]) S. Tramontana, "La monarchia normanna e sveva", op. cit. pag. 541.

[4]) Secondo  i  BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM, collegerunt ac  digesserunt  Joannes  BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia",  addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -  autori secondo il COLLURA [op.cit.  p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il primo vescovo di Agrigento  post saraceno potè  essere  consacrato  dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi  salì  al  soglio pontificio  (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene avanzata solo sulla base di un'asserzione  del  PIRRO che  vuole Gerlando consacrato da Urbano II "ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini  diocesani da parte di Ruggero è però del successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo  documento capitolare di Agrigento - fa risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento -  Libellus, c. 18B - afferma: «complens duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino  vicesimo quinto die mensis februarii [1104]». Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento  dell'archivio di Agrigento porta la data appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in proposito  del Collura, op. cit., p. XI e p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma  incidentalmente e senza alcun supporto critico.  

[5])  «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius  episcopus vocatur GERLANDUS , cui in parochiam assigno quicquid intra fines  subscriptos  continetur, [  ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et  inde tenditur  per  divisiones Iatinae et Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero  usque  ad  flumen Salsum,  quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore huius fluminis, ubi cadit in mare,  protenditur  haec parochia  de  iuxta mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur, tenditur ad Pira  de  subtus Petram Heliae, atque inde ad altum montem, qui est supra Pira; inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur  cum flumine  Petra Helie, et ex hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum  et Butheriam; atque inde per maritimum usque ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch  tenditur sicut  hoc flumen currit usque de subtus Corilionem , ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione  et Termis.»
 Questo documento è pubblicato sub 2)  dal Collura, ["Le più antiche carte ...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto accurata. Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa  agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA, GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN, LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.  cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una copia incompleta della seconda  metà del XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae  Regni',  I,  codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10 febbraio 1509, ed  in  'Liber  Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L], redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del  1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)" [op. cit. p. 7].
Il  FAZELLO, il religioso di Sciacca nato nel 1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo  documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si avvalsero  dell'opera del Fazello, ma ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul  documento  e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e ss.]. Anche il  Picone  [op. cit. appendice I] riporta il testo con note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia sacra,  t. I, p. 695 e 696],  non ha sottomano i documenti originali di Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di ratifica, del 10  ottobre del 1098.
Il  Pirro  utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti gli altri editori tra cui il MANSI,  il  CARUSO,  il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura, op. cit., p. 21]. Nel 1960 il documento viene edito criticamente dal Collura [op. cit. doc. n. 5, p. 21-24], secondo il quale "nel complesso il testo della bolla è sincero".

[6] ) I REGISTRI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA - VOL. VIII - A CURA        DI JOLANDA DONSI' GENTILE -(Ricostruiti da Riccardo FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti Napoletani) vol. VIII 1271-1272 Napoli 1957 

[7] )  Reg. 1271.A, f. 246. Fonti: De Lellis l.c. Dal Secreto Sicilie - cfr. op. cit. pag. 65 La località viene nell'indice, a pag. 333, riferita a Racalmuto (veramente  sta scritto: Racalnuto). Per De Lellis l.c. bisogna intendere: Carlo De Lellis, Notamenta ex registris Caroli I. Trattasi di un manoscritto. Il documento trovavasi già pubblicato in una analoga opera: REGESTA CHARTARUM ITALIAE - 'GLI ATTI PERDUTI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA' - transunti da Carlo de LELLIS, pubblicato sotto la direzione di Riccardo Filangieri, a cura del R. Istituto Storico per il Medio Evo - Roma 1939 - Vol. I a cura di Bianca Mazzoleni - Il testo palesa molte difformità, sia pure solo formali. [v. pag. 55]

                                      
967 - Petro Negrello de Bellomonte militi, exequtoria concessionis casalium in pertinenciis Agrigenti, videlicet Rachalgididi, casale Rachalchamut et Sabuchetti et casale Brissane, nec non domus in qua habitat Fredericus Musca        proditor; que casalia Rachalgididi, Rachalchamut et Sabuchetti et dicta domus fuerunt Frederici et casale Brissane devolvit per obitum  sine liberis quondam Iordani de Ceva. - (f. 246)

        Vi appunta la sua attenzione ( ma con qualche inesattezza): Illuminato PERI: Uomini, città e campagne in Sicilia dall'XI al XIII secolo - Laterza, Bari 1978. Nella nota n. 6 al cap. XXI (cfr. pag. 331 e 332) riduce in questi termini l'assegnazione di Racalmuto:  La nuova lotteria feudale dai Reg. ang.  (e cioè: I Registri della Cancelleria angioina, ricostruiti da R. Filangieri di Candida e dagli Archivisti napoletani, Napoli 1950 sgg. - cfr. pag. 294) .......RAHLHAMUD e altri casali già di Federico Mosca e Giovanni de Ceva ( VIII, pag. 65, a Pietro Nigrel de Bellomonte) ...                                                
        La nota riguarda il seguente passo di pag. 266: «Erano espressione, nell'insieme, e con maggiore evidenza i secondi, del movimento nella cerchia dei feudatari di Sicilia verificatosi sotto Carlo d'Angiò: una lotteria che toccò        intiere terre e casali; ma che, se non mise in circolo una  feudalità irriguardosa per ambizioni fondate su reale potenza, non creò neppure un solido aggangio alla dinastia. Anche perchè i nuovi signori non foruno accompagnati da un seguito che avesse presa sul tessuto demico o valesse quanto meno a contenere prevenzioni e risentimenti, nostalgie seppur strane e aspettative magari vaghe ...»

[8] ) Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano - Milano 1886 - vol. I - cap. X  pag. 3.
[9] ) Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano - Milano 1886 - vol. I - cap. IX pag. 339 e pag. 340. Cfr. in particolare la nora sub 1) di pag. 339 che bene inquadra la questione del diploma del 30 dicembre 1282, base della narrazione dei fatti che vedono tra i protagonisti appunto il nostro Federico Mosca, indicato come conte di Modica.
[10] ) Illuminato Peri - La Sicilia dopo il Vespro - Uomini, città e campagne 1282/1376 - Bari 1981, pag. 31.
[11] ) Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 345.
[12] ) Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 55 e segg.
[13] ) Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 65.
[14] ) Arturo Petix - Da Milocca a Milena - Milena 1984, pag. 27.
[15] ) Nell'inventario dei Registri Angioini compilato nel 1568 al n.12 leggiamo: «Item uno altro registro di carta ut supra intitulato Registrum Regis Caroli I° anni 1271, comincia 'Scriptum est Bayulis' e finisce 'ultimo augusti XV indictionis' di carte  n. 248.» Cfr. pag. 248: PROVISIONES SEQUENTES DIRIGUNTUR SECRETIS SICILIAE. - Cfr. pag. 250 : N. 966 Petro Negrello de Bellomonte ...  etc. c.s.  Pietro, Conte di Montescaglioso, Camerario del Regno, BEAUMONT (de) o BELMONTE ( cfr. pag vol. VIII 127, 128, 145, 173, 187, 191, 199 etc.) NEGRELLO PETRO DE BEAUMONT (cfr. pag. 65 e 182).  Cfr. pag. 145 (n. 246) - Mandatum pro mutuo unc. C cum Petro de      BELLOMONTE, Montis Caveosi et Albe Comite, Regni Siciliae Camerario. Reg. 1272, XV ind. f. LXVIII, t) De Lellis l.c. n. 580.                                                          

      
[16] ) Léon Cadier - L’amministrazione della Sicilia angioina, a cura di Francesco Giunta - Flaccovio editore Palermo, 1974 -
[17] ) Sul sipario non è poca la letteratura sinora accumulata. Citiamo a caso: Gaetano Restivo: quel sipario abbandonato, in Malgradotutto, novembre 1993, f. 2MT; Aldo Scimé: Perché rinasca, in Malgradotutto, settembre 1994, f. 3MT; Leonardo Sciascia su l’Espresso (1978?) citato dallo Scimé;
[18] ) Leonardo Sciascia - Il mito del Vespro, Sciacca 1982, pag. 21.
[19] ) ibidem, pag. 13.
[20] ) ibidem, pag. 14.
[21] ) Ci riferiamo al documento VIII che Giuseppe Silvestri pubblicò nel 1882 tra i “Documenti per servire alla storia di Sicilia” - Prima Serie - Diplomatica - vol. V - Palermo 1882 - “De rebus regni Siciliae” (9 settembre 1282-26 agosto 1283). Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona - Documento VIII - pag. 8 (Palermo 10 settembre 1282, ind. XI) - «.... universitati RACALBUTI. Archeorum XV».

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