Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
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Ceti paganti
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ceti esenti
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evasori
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totali
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N.° Fuochi
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896
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0
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90
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986
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Abitanti (fuochi * 3,53)
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3.163
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0
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316
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3479
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Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitati del 1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello infrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziaria e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano ingerirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con evidente scarso successo.
Dai rapporti episcopali emerge questo interessantissimo quadro delle caratteristiche istituzioni e affiorano, sia pure con una fioca luce, questi nostri antenati ([59]) :
6. Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano costituite in 17 corpi di fabbricati, e che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava i legati.
7. Nella detta ecclesiola vi era anche la confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1. Montana mastro Paolo;
1. Cacciatore mastro Paolo;
1. Santa Lucia Cesare;
1. Vaccari Giovanni.
Avevano dodici once di reddito sopra diverse case che appartenevano alla detta Confraternita, che si solevano locare per le stesse dodici once.
1. Confraternita della chiesa di Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1. Cacciatore mastro Pietro;
1. Vaccari Pietro;
1. de Agrò Mirardo;
1. Fanara Addario.
Erano al contempo Governatori ed avevano quattro once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
2. Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1. de Agrò Natale;
1. Vurchillino (Borsellino) Antonino;
1. Murriali Giuliano;
1. de Alaimo Michele.
Erano al contempo Governatori ed avevano dodici corpi di case in Racalmuto che solevano locare per dieci once all’anno.
3. Confraternita di S. Giuliano: ne erano rettori:
1. Curto Angelo;
1. Lauricella Andrea;
1. Curto Stefano;
1. Picuni Antonino.
Avevano una certa rendita. Fu loro imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [60] Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse. ([61])
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente sarebbe ascesa quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3) Chiesa di Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di Santa Margherita;
6) Chiesa di San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della “NUNTIATA”
2) Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di Santa Margherita;
4) Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
4. la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
5. Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
6. Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([62]) dettato flebilmente quando era già prossimo alla morte: a raccoglierlo è il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo stilato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto impero giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione: gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed ispiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
1. donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
1. donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
1. Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non relaxavit et relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte ed il testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
7. 5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
8. 5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
9. 10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
10. 5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
11. 5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
12. 5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
13. 5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone ha due consanguinee nel convento di Santo Spirito di Agrigento: suor Scolastica e suor Giovanna Nudizzo. Se ne ricorda in punto di morte stabilisce un legato di 5 once per ognuna di loro. Ne avrà avuto preghiere ardenti.
Il barone ha un obbligo di coscienza: deve chiarire le dubbie ascendenze di don Matteo del Carretto. «Item praefatus dominus Testator - ha voglia di dichiarare - ad instantiam Magnifici Domini Matthei de Carrectis, et Dominae Antoninae eius filiae dixit et declaravit qualiter tempore vitae condam spectabilis Cesaris de Carrectis audivit ab eodem domino Cesare, qualiter ipse dominus Cesar erat filius Dominae condam Contissae de Valguarnera, cuius pater erat olim filius dominorum Sigismondi, et Valentini de Valguarnera condam Cesaris [...]Unde ad instantiam dictorum Magnificorum Matthei et Antoninae Patris, et filiae pro eis stipulantibus me notario publico, factum est praesens capitulum pro exoneratione conscientiae jacens in lecto infirmus, confessus et contritus ut dixit etc.»
Il barone resta, comunque, legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era fervida): «Item elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.»
Ancora un ritorno alla beneficenza: «Item dictus dominus Testator dixit et declaravit quod super bonis praedictis Petri de Cachertone habet uncias duas censuales, annuales, et rendales. Ideo de eis legavit, et legat Venerabili Conventui di lu Carmino unciam unam. et tt. sex [f. 56] pro illis uncia una et tt. sex quos restabunt super eius bonis Sanctae La Lomia quae bona voluit quod intelligantur, et sint de cetero dissobligata, restans supradictorum reddituum ad complementum dictarum unciarum duarum relaxavit, et relaxat heredibus dicti condam de Cachertone, quia fuerunt male impositae et ita voluit, et mandavit.» Sembra una resipiscenza; un volere riparare nel terrore della morte a malefatte, o almeno a qualcuna delle malefatte, delle vessatorie imposizioni, degli arbitrii predatori.
Fiducia al prete De Leo, di cui abbiamo detto sopra: «Item instituit in eius fideicommissarium et praesentis testamenti exequutorem Reverendum D, Franciscum Deleo, Vicarium praedictae Terrae Racalmuti cum pacto intradicto.» Come si vede, l’arciprete non è neppure considerato: era un burocrate in abito talare; a Racalmuto era presente solo per riscuotere.
La chiusa del testamento è rituale, con i testi e la firma, con l’indicazione del notaio redigente: Testes sunt hij Videlicet Ego frater Sigismundus de Agrigento testor; Ego Antoninus de Russis U.J. Doctor interfui et testor; Ego Sacerdos de Leo interfui, et testor; Ego Marcus Piemontisius interfui, et testor; Ego Vincentius Damianus interfui, et testor; Ego Mattheus Damianus interfui, et testor.
Ex actis condam Jacobi Damiano copia per me notarium Michaelem Angelum Vaccaro notario Racalmuti dictorum et aliorum act. conservatorem generalem. - Coll. Salv. .
Il processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato ed avesse in quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei marchesi di Savona documentato l’insigne virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diociotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra è ben chiaro che Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie porte regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispirò quando redisse questo profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del serenissimo Rè Filippo Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576,( [63]) esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. ( [64]) Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 ( [65]), e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. ( [66]) di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI nell’istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese ( [67]) - fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto impero, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale. Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostarono i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto quella immane pestilenza che colpì l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà, come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato ... , à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto, che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiche pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi sodisfare nullo preiudicio generato ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo Supradicti Martij in Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
Perche ritrovandosi l’università di questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di rendita,
E pertanto
le gabelle ... averanno da raddoppiare, et accrescere
sopra le quali s’haverà d’imponere il novo imposto il quale sarà per il corpo, e capitale della detta rendita
E prima sopra la gabella del vino
[f. 233] Sopra la gabella dello Pani, fogli, fiori, e frutti virdi, e sicchi,
Sopra la gabella delli panni, arbascie, cannavazzi, e cordi
Sopra la gabella dello linu cànnavu (canapo), ferro, e ramo rustico, e lavorato, e legname d’ogni sorte rustica, e lavorata
Sopra la gabella delli Pisci, e Salsizzi,
Sopra la gabella delli Pani, formaggi, cascavalli, Meli, e cera
.
Per le quali gabelle, e loro pagamenti s’haveranno da fare li capitoli per li Magnifici Jurati, e con l’impositione delle pene solite come sono l’altri capitoli.
Il Magnifico Jacobo Piamontese Giurato è del sopra parere.
Il Magnifico Jacobo Sciurtino ut supra.
Il Magnifico Signor Giovanni Artale Tudisco ut supra.
Il Magnifico Giuseppe d’Ugo ut supra.
Petro Barberi ut supra.
Martino Rizzo ut supra.
Magistro Antonio Vulpi ut supra.
Il Mastro Notaro Giovan Vito d’Amella è di parere come di sopra, et si, et quatenus lo raddoppiamento raccrescimento che si farà alli gabelli predette non bastassero per la sodisfatione di quello che si deve alla Regia Corte quolibet anno, e per la soggiugatione che si farà quod utique dette gabelle s’habbiano da aggumentare, e raddoppiare, et accrescere, tante volte, quante sarà f. 235] di bisogno in modo che si complisca il pagamento predetto, e che s’habbiano d’imporre altre gabelle essendo di bisogno in modo che detta Università non venghi a pagare al minuto, e per tassa, e che si debbia fare thesaureri persona sicura, d’eligersi per li giurati quolibet anno per li pagamenti predetti e suoi spisi, con salario d’onze vinti l’anno il quale s’habbia d’obligare nomine proprio et à fare li pagamenti predetti con li debiti cauteli per atto publico come à detti Giurati parerà.
* * *
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sorgono i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dello secolo XX di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese come dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576, e così si dispiega:
Il crollo demografico del 1576, come si vede, sembra irreversibile (anche se fu dovuto più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi a quota 5488.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - portarono ad una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario che si volatizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Per di più si pagavano sei onze annue per “tande”.
[3] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[7] ) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[8]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[9] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[10] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[13]) Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno dal 1714: non può quindi riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[14]) Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto - LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7 dell’11/12/1658”.
[15] ) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[16]) D. Francisci Baronii ac Manfredi - De Maiestate Panormitana libi IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX.
[18]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[21]) F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[24]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[26]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[28]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma pos. 1.24.C. 19/24]
[29]) F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg.]
[30]) Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese, il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto - a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta' della Madonna del Monte.
[31]) F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia) pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum.
[33]) D. Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.]
[34]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[35]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
[36]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[37]) L'Inveges ci informa a pag. 159 che Marchisia Prefolio «si morì carica d'anni ... nella stessa Città di Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior Chiesa della medesima città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana anche fù sepellito Federico Chiaramonte suo figlio loco depositi con ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; & ogni dì si celebrasse una Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1 [nota 1: In Tab. Conventus S. Dominici Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae Incarnationis 1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino N. Domino Friderico III. Rege anno sui regiminis 16.
[38]) Citiamo sempre da La Cartagine Siciliana (pag. 228 e ss.): Venne Costanza per la morte di Federico padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede.
[39]) Diario della città di Palermo dai mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 136.
[40]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 283.
[41]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e ss.
[42]) Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6, 7 e 8, in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[43] ) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[46] ) Rosario Gregorio fu storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla giancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[48] ) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[49]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE N. 1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[51] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e segg.
[52] ) Il conto venne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentete Pan. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[53] ) Giuseppe Nalbone e Calogero Taverna, Racalmuto in Microsoft - dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[54]) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di regalpetra - Morte dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[57]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno 1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).
[58] ) Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE - BUSTA 1487 - PROCESSO n.° 1175 - ANNO 1518-21
[59]) Fontana Rosa (tesi di laurea) - Relatore: prof. Paolo Collura - La visita pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona - Parte II (A. 1542-43) - Università degli Studi di Palermo - facoltà di Lettere e Filosofia - Anno Accademico 1981-82 - pag. 206-218.
[61]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[62] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.
[66] ) (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta di VICARI, e porta di MACQUEDA]