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mercoledì 29 marzo 2017

Il dottor Fior del Fatto quotidano quando si arrampica sulle tecniche del pronto contro termine della CSR (noi diremmo outright, almeno così si chiamavano ai tempi della mia ispezione a Sindona) vuol forse illustrarmi l'enigmatica voce 190 del bilancio CSR? (vedi mio precedente post).
Il Dottor Leone della Falbi ha intimato rettifiche ai sensi di legge. Ci pare che il dottor Fior sornionamente se ne impipa come pubblichiamo sotto.
Sarà quel che sarà ma a me non arriva ancora neppure lo scarno schema contabile che mi dovrebbe indurre a votare sì quale socio non molto arrendevole.
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Mentre l’intero sistema bancario italiano ha mandato in soffitta le operazioni pronti contro termine rese obsolete dalla politica dei bassi tassi d’interesse e dalla possibilità per le banche di finanziarsi a costo zero presso l’eurosistema, la banca dei banchieri centrali italiani resta invece saldamente ancorata a questo strumento che tra il 2011 e il marzo 2016 ha fruttato alla clientela il 2,75% annuo. Attualmente i soci di Csr beneficiano di un tasso del 2,2% sulle operazioni pronti contro termine. Per capire le cifre in gioco basti pensare che a fine 2015 – nonostante l’introduzione di un massimale annuo di 500mila euro per ogni socio – il volume dei pronti-termine è quasi raddoppiato (+94%), arrivando a sfiorare i 220 milioni di euro e contribuendo ad aumentare notevolmente il costo della raccolta per l’istituto. Un’assurdità non giustificata da altro se non dalla volontà di assecondare il desiderio di elevati rendimenti da parte della clientela, anche a scapito di una sana gestione della banca. A riprova di quanto detto, si tenga presente che le condizioni contrattuali non riflettono in alcun modo le esigenze momentanee di provvista della banca: infatti i contratti pronti contro termine vengono stipulati in ogni momento su richiesta della clientela e a un tasso fisso predeterminato e sono definiti dalla banca stessa un prodotto da “investimento” nella relazione annuale sulla gestione.
Alla lunga, però, questa politica pare insostenibile e così Csr da qualche tempo ha iniziato ad applicare delle condizioni di minor favore su conti correnti e pronti contro termine (come testimonia la graduale riduzione dei tassi) per traslare i benefici soprattutto sugli azionisti attraverso la politica dei dividendi e attraverso un’espansione azionaria che sembra volta a favorire i soci più facoltosi. A maggio 2016 il numero massimo di azioni che ciascun socio può detenere è stato innalzato da 2.000 a 2.500, per un investimento complessivo di 92mila euro. Considerando che negli ultimi anni la remunerazione media in termini di dividendo si è collocata intorno al 4% e che di anno in anno il valore delle azioni è sempre cresciuto, si può dire che si tratta di un investimento niente male. Pochi mesi dopo, però, è stato rimosso il limite di 2.500 azioni stabilendo che il singolo socio non può detenere più dello 0,5% del capitale ed è stato varato il nuovo regolamento di negoziazione delle azioni della banca che prevede che ogni socio possa acquistare o vendere fino a 2.000 azioni al mese (due sessioni quindicinali con un ordine massimo di 1.000 azioni per ciascuna). Ciò ha ampliato oltre misura le possibilità di guadagno per i soci più facoltosi, che possono arrivare a investire in azioni della banca anche più di 70mila euro al mese. Il capitale della banca è variabile ma a fine 2015 era composto da oltre 13 milioni di azioni e il limite dello 0,5% corrisponde a oltre 65mila azioni per un investimento complessivo di circa 2,5 milioni di euro.
Csr è una banca popolare non quotata in Borsa che stabilisce autonomamente il valore delle proprie azioni e, guarda caso, questo valore non fa che salire di anno in anno. Addirittura cresce anche nel corso della stessa assemblea di approvazione del bilancio. E’ capitato ad esempio ad aprile 2016. L’assemblea ha stabilito in 36,57 euro il valore delle azioni (5 euro di valore nominale e 31,57 euro di sovrapprezzo “valevole per l’esercizio 2016”), salvo poi apprendere subito dopo che “in considerazione dei primi positivi risultati economici maturati nel corso di questo esercizio, il Consiglio ha deliberato di adeguare con decorrenza 1 giugno 2016, il controvalore dell’azione portandolo a euro 36,80”. In realtà – come precisa meglio la successiva delibera del consiglio d’amministrazione – si tratta di un “interesse di conguaglio” che incorpora nel prezzo dell’azione una quota dei dividendi che verranno distribuiti l’anno successivo, un po’ come accade quando si acquista un’obbligazione e, in aggiunta al prezzo, si paga il rateo d’interessi maturati.
Nel caso delle azioni, però, decidere di applicare un rateo ai dividendi che verranno erogati in futuro è una scelta curiosa, anche perché – come vedremo tra poco – l’andamento economico di Csr non è esattamente positivo. L’applicazione di un rateo presuppone, in buona sostanza, che la banca abbia già deciso quanto remunererà gli azionisti e lo farà a prescindere da come andrà effettivamente a chiudersi l’esercizio. Inoltre, il valore stesso delle azioni viene fissato annualmente sulla base di una valutazione che non sembra supportata da alcun parere “terzo” e non si trova – almeno nei documenti pubblici – alcuna considerazione al riguardo espressa dal collegio sindacale o dalla società di revisione. Ma dicevamo della gestione non proprio brillante dell’istituto: nell’esercizio 2015 il margine d’interesse è crollato a 10,1 milioni di euro (-41%), i costi operativi sono più che raddoppiati (da 3,7 a 7,9 milioni) e – come si legge nella relazione sulla gestione – il risultato complessivo si è attestato su valori positivi grazie esclusivamente alle plusvalenze (38 milioni di euro) realizzate con la cessione di una parte dei titoli in portafoglio, come del resto era già accaduto nel 2014.
Insomma, per far quadrare i conti e remunerare adeguatamente i propri soci la banca dei banchieri centrali (che, a differenza di tutte le altre, non ha nemmeno costi di sede visto che è gentilmente e gratuitamente ospitata nei locali della Banca d’Italia) ha dovuto metter mano al portafoglio titoli, perché l’attività caratteristica è in realtà in perdita. Ciononostante, il prezzo delle azioni continua a crescere (nel 2014 valevano 34,34 euro, nel 2016 36,57 euro, il 6,5% in più) e vi è un’intensa attività di riacquisto e di vendita di azioni proprie da parte della banca che, a questo proposito, dispone di una riserva di oltre 80 milioni. Dunque i soci non corrono il rischio di restare a bocca asciutta. Cosa questa spinta all’espansione azionaria e alla compravendita di azioni della banca abbia a che fare con lo spirito mutualistico che dovrebbe animare le banche popolari è tutto da capire. Così come sarebbe da capire se ai consiglieri d’amministrazione di Csr sia consentito effettuare cessioni azionarie a fini speculativi e se questa operatività debba essere o meno portata a conoscenza del consiglio d’amministrazione. Nel corso della scorsa assemblea questa domanda è stata posta da un socio e la replica del presidente non si è fatta attendere: “Notizie del genere, attinenti comportamenti dei singoli soggetti, sono coperte da riservatezza”. Una risposta in perfetto stile Bankitalia.
Riceviamo e pubblichiamo la seguente precisazione del Sindacato Indipendente Banca Centrale:
Egregio Direttore,
negli ultimi giorni, due articoli del sito internet del Fatto Quotidiano hanno avuto ad oggetto la Banca d’Italia, il ruolo del suo personale e la c.d. “banca interna” di quest’ultimo: a nostro avviso, si tratta di articoli gravemente privi di conoscenza della materia trattata, con effetti – speriamo involontari – denigratori del lavoro di tutti i dipendenti dell’Istituto di Vigilanza.
Come noto, nessuna Istituzione può essere “a prescindere” al riparo da critiche, e tanto meno un’Istituzione come la Banca d’Italia, che ha tra i suoi obiettivi trasparenza e sana gestione degli intermediari finanziari, e che tali principi deve saper applicare – innanzi tutto – a se stessa.
Tuttavia, ci preme segnalarLe che gli articoli in questione forniscono ai lettori una rappresentazione del tutto falsata del ruolo attuale della Banca d’Italia e dei compiti del suo personale.
Dileggiare l’importanza dei programmi di educazione finanziaria verso l’esterno, indurre il lettore a credere che le iniziative di apertura al pubblico dei palazzi storici possano essere in qualche modo rappresentative dei compiti e delle responsabilità giornaliere dei dipendenti della Banca d’Italia, per non dire delle affermazioni per cui nonostante “il libero accesso a internet…il tempo non passa mai” per i dipendenti, impegnati a lucrare chissà quali guadagni dalla loro “cassa interna”, tutto per avvalorare la tesi contenuta nel titolo dell’articolo (“Bankitalia, ormai i controlli li fa la Bce. I dipendenti si riciclano guide a Palazzo Koch e presentatori di nuove banconote”), non risponde – a nostro avviso – ai criteri di buon giornalismo di cui la testata che Lei dirige si fa paladina.
Se una giornata l’anno (giornata non lavorativa, ndr) alcuni dipendenti partecipano come “guide” per mostrare aspetti artistici dei palazzi della Banca, non si può scrivere “i dipendenti si riciclano guide”. Soprattutto, è importante che i lettori del Fatto Quotidiano siano informati che non risponde al vero il fatto che “i controlli ormai li fa la Bce”. I controlli continuano a essere svolti, come e più di prima, dalle strutture nazionali della Banca d’Italia: poteri assoluti sulle banche less significant e condivisi con la Bce sulle banche maggiori. Ma possiamo assicurare al Fatto Quotidiano che i carichi di lavoro dei dipendenti della Banca d’Italia non sono affatto diminuiti con l’avvento del Single Supervisory Mechanism della BCE, anzi: piuttosto, sarebbe importante considerare la pluralità di campi in cui si espleta la funzione di vigilanza, dalla tutela del cliente alle preziose attività di antiriciclaggio, dalle ispezioni on site al raccordo continuo con i Joint Supervisory Team della BCE.
Se un giornalista del Fatto fosse interessato a scrivere compiutamente della Banca d’Italia, troverebbe molte persone in grado di spiegare le nostre innumerevoli attività, non ultima la delicata gestione della circolazione del contante. Una volta informato, siamo certi che il tenore degli articoli cambierà.
Analogamente, l’articolo successivo – del medesimo autore – sulla gestione della Cassa interna ai dipendenti della Banca d’Italia, e sui supposti “rendimenti eccezionali” offerti ai dipendenti, è viziato da una parossistica ricerca dello scoop, a costo di trascurare dettagli essenziali. Fra di essi, il fatto che la Cassa interna dei dipendenti della Banca ha – per soci e clienti al tempo stesso – larga parte degli stessi dipendenti della Banca.
Pertanto, i rischi di una gestione maldestramente definita “eccezionalmente generosa”, ricadrebbero quindi sugli stessi beneficiari di tali trattamenti.
Rischi, peraltro, inesistenti.
Infatti, la “cassa interna” è una banca assai particolare nel panorama italiano: non presta soldi ai “soliti noti”, non li presta a imprese decotte, non li presta ai palazzinari, non li presta ai potenti di turno, e per questi motivi è una banca a “sofferenze zero” e iper-patrimonializzata.
Questa sana struttura patrimoniale e finanziaria è il frutto di gestioni serie e oculate, e dovrebbe semmai essere presa a esempio da un sistema bancario che fa l’esatto opposto: presta soldi a prenditori inaffidabili, si carica di sofferenze, e poi scarica sui risparmiatori il peso di scelte dissennate.
Quando c’è un esempio da seguire, sarebbe un delitto non riconoscerlo.
Cordialmente,
Il SINDACATO INDIPENDENTE BANCA CENTRALE
Ringraziamo il Sindacato Indipendente Banca Centrale per le cortesi precisazioni che però non smentiscono nella sostanza i fatti riportati negli articoli. In particolare per quanto riguarda la gestione di Csr che, come risulta dalla stessa relazione del cda, da alcuni anni necessita di un serio riequilibrio e non può quindi essere presa come esempio da nessuno.
Paolo Fior
Iil

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