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domenica 24 settembre 2017

Microstoria di Riesi per la penna del Ferri
gravi delitti
Fra i numerosi, gravi delitti che succedevano, ne scegliamo alcuni avvenuti sulla fine del secolo scorso, ai nostri giorni; non già per impressionare, ma per narrare dei fatti di sangue. La penna si rifiuta a descriverli, ma nostro dovere di notarli, giacché sono stati di dominio pubblico; essi appartengono alla storia, alla nostra storia: purtroppo, non possiamo negarli ne tacerli, è così!
Il primo e quello del 1891, delitto avvenuto nella miniera Tallarita la sera d 22 Agosto.
Tal Giovanni Piantone, borgomastro, dalla Lombardia, era venuto qui con la famiglia come sorvegliante dei lavori interni ed esterni della miniera presso l’Amministrazione francese. Uomo buono, lavoratore, era alla mano di tutti e i superiori lo stimavano. La domenica in Riesi, amava farsi il bicchiere con gli amici zolfatai.
Col frutto del suo lavoro si aveva fabbricato la casetta di fronte al Carcere vecchio; manteneva la famiglia discretamente, si era affezionato al nostro paese. Pero durante la settimana il più delle volte si restava in miniera, dormendo in una misera casuccia sopra un pagliericcio. Sincero, generoso offriva da bere a questo e a quello degli amici. Tutti lo salutavano e lo rispettavano.
Or una sera, terminato il suo lavoro, Don Giovanni Piantone sali alla botteguccia ordinando la Cena. Egli si sedette al fresco sulla panca, aspettando di prendere il boccone. Apparecchiata la tavoluccia, messa su la bottiglia, il Piantone cominciò a mangiare. Quando meno se l’aspettava, un colpo di pistola lo prese in pieno petto, facendolo stramazzare a terra senza poter dire: Cristo aiutatemi. Alla detonazione, nessuno vi fece caso, usi come si è a sparare dentro e fuori la miniera: solo il trattore scese abbasso gridando: “Hanno ammazzato a Piantone!...”. Erano verso le undici, svegliatisi impiegati, Direttore e Ingegneri, videro il cadavere disteso a terra, immerso in una pozza di sangue; in questo mentre salirono gli operai dall’interno, e visitando il freddo cadavere, se ne vennero a casa spaventati, addolorati.
La triste notizia giunse a Riesi dopo la mezzanotte. Moglie e figli di piangenti, corsero sul luogo. Fattosi giorno, dopo le constatazioni di legge, il cadavere venne trasportato a Riesi, dove fu seppellito nel nostro nuovo Cimitero che trovasi alla passata della miniera. Una croce e il nome ricordano il delitto del povero Giuvanni Piantone che non fu rivendicato dal la giustizia umana.
Quale il movente del delitto chi sono stati gli autori? Non si seppe nulla!. Si fecero degli arresti ed indizi, ma non si venne a capo di nulla.
L’altro delitto ancor più efferato avvenne la sera dell’8 Ottobre 1901 in persona del cav. Gaetano Bartoli Inglesi, suo figlio e il campiere. Il Bartoli, che aveva sposato la figlia del Sindaco D’Antona, ereditando il palazzo e la estesa proprietà dei genitori e una vistosa dote, era il più ricco del paese. Messa su casa, accudiva alla famiglia e ai suoi averi.
Ma dei masnadieri – chiamiamoli cosi, con questo nome - i delinquenti nati, ne insidiarono l’esistenza. Essi con lettere minatorie, gli chiedevano del denaro, pena la vita. Il cav. Bartoli a queste minacce fece l’orecchio da mercante, non mandando la moneta al punto segnato, ne dando passo alle Autorità della Giustizia. E i masnadieri giurarono di vendicarsi. Già una volta fu assalito per la via di Spampinato, ma la scampò, lasciando la giumenta e perché sull’imbrunire vi erano delle persone ; gli amicisi dileguarono, fingendo di non cercarlo più; ed egli si era un po’ rassicurato, sebbene stava sempre guardingo. Quando andava in campagna, bene armato e col suo Fattore, la mattina partiva tardi e prima della sera ritornava a casa. Ma i masnadieri lo appostavano come il coniglio.
Dopo circa un anno, lo assaltarono. Era l’epoca della collocazione delle mandorle, il cav. Bartoli aveva un bel fondo alla Contessa, contrada di Mazzarino; con la sua ciurma si restava alla Casina, venendo ogni due o tre giorni per la spesa.
La sera di. quel giorno fatale 8 Ottobre, ritornava a casa assieme il figlio, al Campiere e le donne coglitrici, un pò più tardi del solito, cacciavano perché c’era lo scuro allo stretto sentiero delle due colline di Santo Isidoro, nelle vicinanze del paese, furono fatti segno al tradizionale “faccia a terra!” da persone “infacciulate”, dalla collina. Il figlio tredicenne che era avanti sull’asina disse al Campiere: “Via cacciamo, non avete paura” ma un colpo di fucile alla nuca lo stramazzò a terra cadavere; spaventati sì fermarono; indi i masnadieri scesero ed uccisero il Campiere: preso il cav. Bartoli per mano, gli levarono il Weter e glielo scaricarono al fianco. Impaurendo le donne colla faccia a terra, ebbero il tempo di legare le bestie agli alberi, accompagnare le donne atta Casina, farle chiudere in silenzio, minacciandole, trasportando alcuni oggetti, fra cui il Weter in una grotta al vallone di Castellazzo sopra il giardino di Faraci. Vi fu in quella notte una fucileria allo scopo di spaventare la gente dei dintorni.
Intanto la Stessa sera del misfatto, una scena drammatica, dolorosa, si svolgeva in casa della signor Bartoli D’Autona. Ella, visto venire il cane avanti, mise la pasta, apprestandosi ad apparecchiar la tavola. Affacciatasi al balcone, il marito non veniva; un’altro momento e... nemmeno! Agitata, fece mangiare i figli che lasciò in balia della serva e corse dalla madre.
Questa la confortò dicendole che a quest’ora sarebbe ritornato, ma che!... Ebbe il triste presentimento, fece coricare i bambini e via di nuovo dalla madre. La signora D’Antona, credendo che si fosse il genero restato in campagna, svegliò il servo e lo mandò alla Casina. Si erano fatte le undici e il massaroLuigi, a malincuore, ma di corsa, prese la via della Contessa; giunto sul sentiero, immerse i piedi su un cadavere, imbrattandoli di sangue, ma con la furia e lo scuro, non ci badò non se ne accorse; affrettando ìl passo, giunse alla Casina. Bussando, sulle prime non risposero, credendo che fossero i briganti, impaurite mute dal dolore, dallo schianto; ma alle grida, alla voce; Aprite!... sono io! la prima ad affacciarsi fu la moglie del Campiere che vociando rotta dal pianto annunzia “ Hanno ammazzato mio marito, il padrone, il figlio!...” Senza por tempo, il massaroLuigi, rivoltati i tacchi, se ne ritornò più morto che vivo! Ripassando dal sentiero vide la strage: sudato, trafelato, la prima notizia la diede ai Carabinieri, passando dalla Caserma.
Sparsasi la brutta nuova in paese, fu un movimento continuo di andare e venire sul luogo dell’infame orribile delitto; incontratesi le donne, sembravano delle Marìe, delle Maddalene. Era Sindaco il cugino dell’ucciso, cav. Don Carmelo Inglesi, il quale con le lagrime agli occhi, interessava la Giustizia. Alla vista dei cadaveri distesi sul ciglione, si commossero anche le pietre; le bestie ancora legate, furono i testimoni dell’orrenda carneficina ma le bestie non parlano. Per tutto il giorno, la folla non cessò il via vai. Verso la sera i morti furono portati al Cimitero.
La stampa di tutti i paesi, occupandosi giornalmente del delitto, faceva l’ira d Dio per scoprire i rei. C’era di mezzo il Senatore D’Antona, stretto parente della famiglia in lutto, per la Giustizia occuparsene minutamente. Una taglia di 500 lire fu messa per chi scopriva i delinquenti, gli autori dell’assassinio.
Più di quindici giorni passarono, senza che degli assassini si mostrasse nessuna traccia; ma un caso volle che fossero scoperti, assicurati alla Giustizia, sebbene il capo sia stato ucciso.
Sentite come, o lettori:
La guardia Campestre Pietro Debilio Sferrazza, trovandosi in perlustrazione nelle campagne di Castellazzo, per via incontrò un certo Rosario Cammarata, sarto straccione, ubriacone, che aveva un pezzetto di terra di fronte alla grotta, dove si riunivano i masnadieri, e dove costui portava loro i sigari, il formaggio e il vino per banchettare. Nel salutarlo, il Debilio si fece dire dove andasse e quegli sbigottito gli disse che era innocente, ma... che... Allora la guardia, scesa da cavallo, lo costrinse a fagli rivelare il resto e quello abboccò all’amo. Esperto il Debilio lo rimandò indietro imponendogli di non dir nulla e lui, rimontato a cavallo, andò ad appostarsi dietro un albero davanti la grotta col fucile spianato.
Essendo giorno di Domenica, non vi era nessuno; a mezzogiorno passato i masnadieri aspettavano ancora il Cammarata che non venne.
La guardia Debilito per più di un’ora stiede lì fermo. Il Capo della masnada, Filippo Terranova, un reduce delle patrie galere che aveva scontato 20 anni di prigione per due omicidi, affacciatosi col Weter in mano, scorta la guardia, si mosse in atto di... ma un colpo di palla lo prese in un occhio, ferendolo mortalmente; gli altri fuggirono dall’altra parte della grotta.Il Debilio, spronando il cavallo, venne a portar la nuova ai Carabinieri che assieme a tutta la F. P. corsero alla grotta di Castellazzo, dove vi fu un accorrere di curiosi. Messo il brigante, ferito grave, su una scala a barella, fu portato al Carcere, ove, dopo alcuni istanti, mori.
Il primo ad essere arrestato fu Don Rosario Cammarata, il quale confessò chi furono gli autori del delitto, sebbene lui non prese parte al fattaccio. Fra gli arrestati come compagni vi erano il figlio del Fattore di casa Bartoli e un certo Pesce, mazzarinese.
L’impressione fu enorme!. Il signor Debilio venne Premiato con lire 500 e la nomina a Capo delle guardie Campestri a vita: il Prefetto volle conoscerlo di presenza per il brillante servizio.
Chiudendo la parentesi della cronaca nera del nostro paese, non dobbiamo tanto stupirci, perché Riesi non è stato il solo unico paese, in cui la mafia e la delinquenza abbiano fatto simili gesta.
Lo abbiamo detto, lo ripetiamo: oggi questo non succede più; quei tempi di triste memoria sono passati. Col Governo di Benito Mussolini, siamo entrati in un’era di pace, di tranquillità, di benessere. Egli stesso lo disse e lo fece; venendo in Sicilia comprese che ci voleva da noi l’assetto per le popolazioni.
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Cap. XLIII
gli scioperi
Accanto alla mafia alla delinquenza c’erano anche gli scioperi che venivano a funestare il paese. Il conflitto tra capitale e lavoro veniva ad aggiustarsi con lo sciopero che fu detto “ un’arma a doppio taglio”; tante le volte erano gli operai che si ferivano; tante le volte che essi scioperi portavano turbamenti e conseguenze gravi: ed è perciò che il Fascismo fece cessare del tutto gli scioperi, talché S. E. Riccardo Ciano nel 1924 tuonò a Livorno con queste parole: “Gli italiani non vedranno più la via degli scioperi!...”. (1)
Nei paesi zolfiferi era facile ogni momento fare degli scioperi. Gli zolfatai alla minima occasione scioperavano per l’aumento del prezzo giornaliero o per un abuso: allora occorrevano soldati e Carabinieri per il maimteiìinlento dell’ordine pubblico, giacché si temevano disordini, saccheggi, delitti.
Due colossali ne ricordiamo noi a Riesi che meritano di essere riferiti per la portata grave che ebbero. Lo facciamo, consapevoli dei fatti avvenuti, per dire cosa erano gli scioperi, perché si facevano e come terminavano.
Il primo fu quello del 1884 a causa del ribasso dello zolfo. L’Amministrazione francese voleva scemare il prezzo ai picconieri che lavoravano a cottimo; essi non accettarono il ribasso, quindi si misero in sciopero. Da una parte e dall’altra non possibile comporlo, di modo che si prolungava. Subito una Compagnia di soldati e rinforzi di Carabinieri vennero qui.
Gli operai delle due miniere resistettero il più che poterono senza punto sottomettersi; ma poi si diedero a schiamazzare per le vie, gridando: Pane e lavoro!... La fame spinge il lupo ad uscir dalla tana e darsi a scavar la terra per mangiarsela; a frotte gli zolfatai uscivano in piazza e nelle vie, rubacchiando nelle botteghe, bussando dai proprietari: le Autorità civili e militari invano si misero di mezzo per far cessare lo sciopero, di guisa che gli animi degli zolfatai si inasprirono ancor peggio.
Un pomeriggio, usciti fuori a dimostrazione, si ridussero in massa a chiassare nella piazza Garibaldi; ad essi si uni buona parte del popolo: Accerchiati dai soldati, tumultuando, presero anche delle pietre, ingrossando le grida. Per farli sciogliere, visto che la dimostrazione era seria, il Delegato di F.S., ricevendo una pietrata, ordinò i primi due squilli di tromba; ma in luogo di calmarsi i dimostranti si accanirono di più: al terzo squillo ordinò il, fuoco, ma il Capitano si oppose all’ordine, intimando i soldati a star fermi, a non sparare, evitando così l’eccidio. Allora il Delegato tolta la sciarpa declinò la responsabilità, lasciandola al Capitano e partendo per Caltanissetta. E il bravo Ufficiale dell’esercito italiano, salito al balcone del Casino dei Civili, arringando la folla disse che non era venuto per uccidere dei fratelli; che la responsabilità ora cadeva su di lui, pregando gli scioperanti a sciogliersi e andarsene alle loro case.
In un momento la dimostrazione si sciolse; ognuno rincasò in santa pace. L’indomani mattina egli si recò al Municipio e si indisse una riunione del Consiglio Comunale, dove propose di mettere delle somme per aprirsi dei lavori, dando egli l’esempio per il primo col dare lire cento. Gli altri lo seguirono generosamente, i proprietari fecero lo Stesso e si raccolsero 20 mila lire. Con questa somma, fecero acconciare delle vie di campagna agli zolfatai, i quali, per quindici giorni, si sfamarono.
Era Sindaco il Sig. Di Benedetto Mandera che oculatamente aperti i brevi lavori, finiti i quali si diede a tutt’uomo a far discendere gli operai in miniera, dopo più di un mese. Da una parte e dall’altra, le perdite furono enormi.
E il Delegato di P. S.? e il Capitano? Si potrà domandare, Rispondiamo: Il primo non si vide più a Riesi ; il secondo fu e encomiato dalla Prefettura.
L’altro sciopero più terribile, colossale, avvenne nel 1903, il giorno 8 di Giugno. Siccome era il tempo della mietitura, così gli zolfatai, col pane in terra, se ne andarono a cogliere spighe per far fronte allo sciopero ; ma cessata la messe, si videro nello stretto bisogno di reclamare ; l’Amministratore Nuvolari non voleva cedere.
La mattina del 10 Luglio, in massa con la bandiera della loro Società scesero in miniera, trascinandosi l’Ing. Accardi, loro Direttore e seguiti da una Compagnia di soldati. Per la via altri uomini e ragazzi l’accompagnarono alla miniera, unendo le loro voci. Giunti ivi, il Direttore diede ordine alle guardie minerari di non far scendere nessuno a basso; la folla, guardata dai soldati, rimase sul comigliolo della miniera: qualcuno voleva fare resistenza alle guardie, ma avendo una di queste sparato un colpo in aria, fu il segnale della rivolta; il popolo irruppe, scendendo abbasso e Fece man bassa di tutto e di tutti,
Vi erano dei pecorai nei dintorni con bastoni, dei contadini con fucili, gli altri con delle pietre e coltelli. Direttore, Ingegneri e impiegati si chiusero dentro le loro belle casine; ma scassate le porte, ferirono gli ingegneri; altri maltrattati fuggirono, le donne spaventate, scapparono oltre il fiume. Ira di popolo, libera me Domine!Resisi padroni, cominciarono a saccheggiare le case. I soldati non spararono, perché chiesero dei rinforzi a Sommatino, rinforzi che vennero tardi, quando tutto era distrutto. Non contenti di avere saccheggiato le case, entrarono nelle macchine devastandole e rompendo tutto ciò che capitava loro; i dimostranti gridavano, minacciavano senza pietà, successe il finimondo!
Soddisfatti dell’opera compiuta, ritornarono in paese tranquillamente. Però alcuni presero il largo per più giorni.
Chiamato l’ing. civile Luigi Lamantia per periziare i danni, furono calcolati 100 mila lire. Un processo cominciò a istruirsi contro i presunti rei. Il 15 Luglio furono arrestati l’Avv.Gaetano Pasqualino e l’ing. Giuseppe Accardi, quali istigatori dello sciopero assieme ad una trentina di persone tra zolfatai e contadini.
Era Sindaco il cav. Inglesi il quale, se da una parte fu contento dell’arresto dei due suoi nemici politici, d’altra parte si adoperò a far scarcerare quei che erano innocenti, le cui famiglie gli andarono a piangere in casa; ad onor del vero, bisogna dire che l’Avv. Pasqualino, trovandosi a casa, sconsiglio gli zolfatai ad andare in miniera, e l’ing. Accardi vi andò per frenare gli impeti: ma i! Delegato di P. S., certo Nicolaci, terranovese, fece come il pesce delfino col suo amico, scrivendo un nero rapporto per tutti e due. Ad ogni modo dopo sei mesi di processo, gli imputati furono assolti.
(1) Lo scrivente era presente
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Cap. XLIV
la grande guerra
Occupiamoci ora della guerra in relazione al nostro paese della Grande guerra, la guerra Europea che cominciò il 1914 e finì il 1918, trascinando il mondo nel la rovina.
Scoppiata nel 1914 tra gli Imperi Centrali e la Francia a cagione del delitto di Serajevo, l’Italia stiede un’anno neutrale, lasciando in lizza la Germania e l’Austria-Ungheria contro la Francia.
Il fatto da noi fu giustificato per rivendicare i confini naturali di Trento e Trieste, di cui l’imperatore Francesco-Giuseppe non ci voleva dare “nemmeno una pietra” . Coloro che ci leggeranno appresso nei secoli futuri sapranno più dettagliatamente come in un primo tempo la Germania, violata la neutralità del Belgio, l’Inghilterra scese in campo in difesa del piccolo regno devastato ed ancora la Russia, mentre la Turchia si schierò a favore degli Imperi; poi scese l’Italia ed infine l’America. Le generazioni che sorgono e sorgeranno appresso devono sapere che la detta Grande guerra durò cinque lunghi anni senza cessare facendosi per terra, per mare, nell’aria. La vita umana non ebbe più valore; nei paesi, nelle città la sera si stava allo scuro per paura delle bombe gettate da aeroplani, uccidendo vecchi, donne, fanciulli: gli uomini in vigore delle loro forze erano alla guerra. Da ciò ne venne la penuria dei viveri e di tutte le cose necessarie alla vita.
Riesi diede il suo contingente con morti, feriti e mutilati. Riguardo al caro viveri, si fece di necessità virtù. Istituitosi un Comitato di soccorso, si fece a gara per le famiglie dei soldati in guerra; la casa della signora Donna Francesca D’Antona, che ci aveva un figlio soldato, era frequentata dalle madri e signore per allestire gli “scalda panni”.
Sui campi di battaglia, nelle trincee, accorrevano giornalmente i nostri soldati a difendere la patria. In giorni tristi, si piangeva, si soffriva anche la fame, ma ci si rassegnava. Che si voleva fare? Di chi la colpa ?
Finalmente la guerra cessò il 4 Novembre 1918. Cessato il fuoco, fatto l’armistizio, ritornarono fra le famiglie i prigionieri, i reduci, i mutilati ; solo i morii che non ritornano mai, non si videro, ma le famiglie si rassegnavano, sapendoli morti da eroi.
E’ scritto alle Termopoli,
In sugli achei stendardi,
Meglio morir da liberi
Che vivere da codardi.
Fra 500 mila morti italiani, si distinsero da valorosi, seguenti nostri Compaesani che noi vogliamo qui ricordare, venerare, rimandando i loro nomi ai posteri.
Il Capitano Salvatore Faraci, già Tenente di Complemento del 22 Regg. di Fanteria. Ebbe i natali il 24 Aprile 1882 da Vincenzo e Gaetano Imbergamo. Operai agiati lo mandarono a Caltanissetta a proseguire gli studi all’istituto Tecnico, compiuto il quale, Salvatore passò a Catania a frequentare l’istituto nautico, dal quale ne usci col grado di macchinista navale in prima; ma il giovane Faraci non pago di ciò, volle elevarsi ancora, recandosi a Torino per frequentare studi Superiori industriali, mentre era impiegato in Officine meccaniche.
Nel 1909, chiamato alle armi, si affezionò subito alla vita militare. Congedatosi col grado di Sottotenente di Complemento, ebbe l’idea di salpare per l’America. Nella guerra fu richiamato e venne in Italia. Da Messina fu mandato in Carnia e nel Novembre del 1915 vi tornò di nuovo per istruire le reclute del suo reggimento; ma dietro sua domanda fu rimandato alla Frontiera, passando col grado di Tenente sul Trentino e in Valsugana. Il 19 Maggio 1916, durante un assalto eroico, cadde sul campo della lotta. Medaglia di argento con motivazione:
* Mentre con animo saldo e fermo braccio, alla testa dei suoi
* prodi soldati, faceva argine all’orda nemica, irrompente, fu
* colpito a morte da pallottola nemica.
”Mirabile esempio di amore per la patria fino al sacrificio della sua giovane vita”.(Da: La Rivista eroica).
Capitano Giuseppe Ferro di Giuseppe e di Rosina Cultrera, maestra elementare nato il 7 Ottobre 1904. il padre, R. Ispettore scolastico a Catania, vide il figlio iscritto al secondo anno d’Università in legge; appena scoppiata la guerra, lo studente universitario, si arruolò nei plotone Allievi Ufficiali del 68 Fanteria di stanza a Milano. Nel Maggio 1915 era già Sergente. Nominato Sottotenente, prese parte con la Brigata Sassari ai fatti d’armi; sul Carso, nel 18, versò il suo primo sangue: una palla lo colpì alla mano destra che gli rimase anchilosata.
Il Tenente Ferro, guaritosi, fu i mandato in Eritrea. Cola, appreso il rovescio di Caporetto volle essere rimandato in Patria. Mandato in Francia, fu a Digione; il valoroso Tenente che da un anno era stato nominato Capitano, cadde da eroe il 29 Settembre 1918.
Ecco la motivazione che accompagnabva la Medaglia d’Argento:
* Mirabile e costante esempio di fermezza e di coraggio,
* nel passaggio di un ponte fortemente battuto dal’Artiglieria
* nemica, non d’altro si preoccupò che del proprio reparto.
* Colpito egli stesso da una scheggia di granata ad un braccio,
* rimase fermo al proprio posto per regolare il m movimento dei
* suoi uomini, finchè colpito una seconda volta a morte,
* lasciò la vita sul campo.(da una monografia del padre)
Rocco Jannì di Pasquale e di Antonina Giardina, Tenente, nacque nel 1895. Maestro elementare, compiuti gli anni di servizio, al momento della guerra fu aggregato alla Sezione Mitraglieri Fiat, Brigata Sassari..
Ito al fronte da graduato, si trovò dinanzi al nemico; giovane ardimentoso, pieno di entusiasmo, volle slanciarsi all’assalto, malgrado i reiterati richiami del suo Capitano. Ferito mortalmente all’addome, fu trasportato all’ambulanza militare, dove dopo poche ore moriva.
Il Governò gli decretò la Croce di bronzo al merito di guerra. (Manca la motivazione).
Tenente Enrico D’Antona del fu cav. Pietro e Donna Francesca, nato nel 1884. Studiando a Napoli e a Torino da avvocato, parti per la guerra; fu prigioniero a Val Sugana.
Cessata la guerra, durante il viaggio di ritorno lo cole una polmonite e mori a Trieste il 6 Dicembre 1918.
Il Sergente Ciulla Gieseppe di Gaetano e di Santina D’Antona proprietario borgese, nato nel 1890, aveva prestato regolare servizio. Richiamato al fronte col grado di Sergente fu nelle trincee. Indi ottenne la licenza per i lavori campestri ma poi, ritornato al suo posto di combattimento, fu nel rovescio di Caporetto. Nella confusione si seppe che era morto di polmonite all’ospedale di Verona.
I suoi fratelli che si trovavano al fronte, ne appresero la notizia senza poter conoscere il Luogo dove fu seppellito. Mancano perciò i particolari.
Tra i soldati figli del popolo, morti sui campi di battaglia. e decorati al valore, vi furono, fra i 96:
Marino Rosario di Francesco e Giuseppa Bellomo, bersagliere, nato nel 1895. Fu uno dei primi; durante il combattimento, ferito gravemente, cessò di vivere a Pacchiasella il 2 Novembre 1816. il Governo gli decretò. la medaglia di bronzo. La stessa sorte del Marino subirono:
Albo Antonio, Angilella Salvatore, Amarù Antonio, Catarinolo Francesco, Di Martino Antonio, Di Letizia Calogero, Di Ventra Salvatore, La marca Gaetano, Lauria Gaetano, Lo Giudice Angelo, Licata Vincenzo, Marotta Cristoforo, Maurici Giuseppe, Marazzotta Salvatore, Sciamone Liborio, Sciacchitano Giuseppe, Rizzo Angelo, Toscano Giuseppe, Vella Salvatore e Vella Michele.
Questi nomi formano un quadro, sebbene incompleto, in una sala del Municipio, con le loro fotografie, in mezzo alle quali spiccano i ritratti dei Capitani Ferro e Faraci.
Le altre famiglie non diedero le fotografie dei loro cari.
Per tutti, fu eretto il Parco della Rimembranza, in ricordo dei gloriosi caduti, secondo le disposizioni del Ministero dell’Educazione Nazionale. Così, il detto Parco sorse alla Spatazza, nello stradale Mariano e propriamente di fronte alla Centrale Elettrica.
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Cap. XLV
la “spagnuola”
Non era ancora cessata la guerra, quando un’altro flagello venne a funestare l’umanità: la “spagnuola”.
Come nella favola classica di Giovanni La Fontaine, degli animali colpiti dalla peste che “fuggivano spaventati cercando un riparo”, così gli uomini e la scienza non sapevano cosa fare per trovare un rimedio al male.
La “spagnuola” : questa febbre mediterranea venuta dalla Spagna, fu un’epidemia molto fulminante che mieteva tante vite umane in un momento, senza pietà. Se tutti non morivano, “tutti erano spaventati”, al dir dello scrittore francese citato.
La morte non guardava in faccia a nessuno: grandi e piccoli; uomini e donne; ricchi e poveri. Chi era preso da quella malattia difficilmente se la scansava e, quando non moriva, restava con qualche difetto.
Le famiglie povere, orbate dai loro cari e immerse nella miseria, non sapevano darsi pace, pensando alla morte spaventevole; vi furono parecchie famiglie i quali ne mori vano due e tre, il lutto era quindi generale, Infuriando il morbo crudele, il seppellimento dei cadaveri veniva operato alla confusa, trasportandoli al cimitero senza nessun conforto. Anche per quelli che morivano in campagna non venivano fatte onorevoli sepolture e si partivano senza nessun accompagnamento. Coloro che erano poverissimi bastavano le poche masserizie ad addobbare una bara; talune famiglie facevano uso delle tavole del letto per la cassa mortuaria.
Ingordi falegnami,speculatori, approfittando del momento, sfruttavano chiunque a loro si presentava.
Col Municipio del Sindaco, nella requisizione che si faceva, si commettevano abusi e soprusi inauditi. Tutto era requisito per dare aiuto agli ammalati, ma il popolo soffriva, mancando del necessario. Beato chi poteva avere un pò di zucchero, d carne o di pane e pasta. Al solito, gli arruffoni ne profittavano. Un quidam, comprata una gallina L.20 per conto del Comune, le tirò il collo e la diede al figlio per portarla a casa.
La “spagnuola” durò quattro mesi, dal Settembre al Dicembre 1918.
Parrà cosa incredibile, eppure è vero. La malattia della “spagnuola”, a Riesi, fece più strage della guerra. Mentre la guerra fece un centinaio di vittime; essa “spagnuola” ne fece morire seicento.
Passata questa marea, che ci lasciò il triste ricordo d’una morte che non venne dagli uomini ; rimasto il caro viveri della guerra che si rimediava con il lavoro ben pagato, si predette di potere andare avanti, superando gli ostacoli della vita. Ma non fu cosi!
Il paese contava circa i6 mila abitanti.
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Cap. XLVI
il bolscevismo
Quel tale Giuseppe Butera, che aveva infiammato la mente degli operai, specialmente dei contadini, si mise a predicare il bolscevismo venuto dalla Russia. Egli, staccatosi dal partito popolare trascinandosi dietro la massa, offendeva tutto e tutti; da socialista spinto. di facile parola, nelle vie, nelle case, dappertutto, predicava coraggiosamente la Rivoluzione.
Il Governo dell’On. Nitti lasciava il campo libero ai socialisti, di modo che nei paesi d’Italia i bambini e le bambine cantavano:
Avanti popolo
Alla riscossa
Bandiera rossa
Trionferà!...
Era l’andazzo delle follie rosse. E il Butera si prefisse di volere per forza la divisione delle terre a Riesi, dicendo di espropriare i feudi ai principi. Naturalmente il popolino, imbevuto di tali principi, gli teneva bordone, battendogli le mani, accarezzandolo. Cosicché lui, forte del suo partito, teneva in soggezione gli altri. Era diventato l’idolo della massa incosciente! Ebbe la tracotanza di presentarsi da candidato come deputato socialista al Collegio. Perciò, nei paesi vicini andava propagando le sue idee, appoggiato dal partito centrale del giornale “l’Avanti”.
Insomma, diede molto fìl da torcere alla P. Sicurezza.
Coi partiti sovversivi, il dopo guerra fu peggio di prima. Qui.da noi, teneva il paese in continuo movimento, in continua animazione di giorno e di sera. I contadini volevano la divisione delle terre, erano diventati bolscevichi; il loro capo assecondando le loro aspirazioni, tempo permettendo, si armavano e andavano nei feudi a prendere possesso.
I padroni delle terre avevano dato ordine ai Campieridi lasciarli fare onde evitare eccidi. Si partiva la mattina per molto tempo con gridi e chiasso e bandiere, arrivando alla meta designata della campagna. Seguiti da una Compagnia di soldati e CarabinIeri tra il chiasso e l’allegria, si facevano la divisione del feudo, cui limiti, piantando le bandiere, cantando: “Bandiera rossa trionferà”. La giornata trascorreva gozzovigliando, schiamazzando, facendo come le galline che schiamazzano prima di far l’uovo.
Al ritorno rientravano la sera nel paese in fila, soddisfatti delle loro operazioni; rincasati, appena preso un boccone, tutti alla Sede socialista per la conferenza del Butera. L’indomani punto e da capo, le solite agitazioni; il conferenziere (sic) faceva sentire le sue minacce, tuonando contro il Governo di allora. E i Carabinieri lì presenti non dicevano nulla.
Impavido, imperterrito, Giuseppe Butera sì credeva padrone. Oltre il battimani e gli applausi che riscuoteva dalla folla, egli era portato a spalla, alimentando la sua bocca di ciambelle e dolci.
Chiusi i proprietari nelle loro case ben serrate, non uscivano, non potevano dir nulla; scorgendone uno nelle vie, gli davano la baia ed era costretto a ritirarsi per tema di qualche brutto tiro.
Minacce su minacce, chiassi su chiassi, i giorni volavano, sperando che migliorassero con quello stato di caos davvero increscioso. Tutto era lecito dal Governo deplorevole del l’On. Nitti che aveva dato la mano larga ai socialisti, i quali se erano forti, non erano neppure d’accordo fra loro.
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Cap. XLVII
la mitragliatrice (famosa repubblica riesina)
Come conseguenza di tutto questo mal Governo, di tutto questo malessere di questo disordine, abbiamo avuto a Riesi la Mitragliatrice. Anche questa brutta pagina di storia dobbiamo registrare in pieno secolo XIX. Scriviamo sotto l’impressione del triste epilogo della nefasta giornata della Mitragliatrice. Ecco il fatto, come avvenne:La Domenica dell’8 Novembre 1919, i soliti bolscevichi, decisero di andare a prendere possesso del feudo Palladio, di proprietà dei principi Fuentes, dato in gabella. Da qui partirono non solo essi, ma chiesero l’aiuto dei loro compagni mazzerinesi, i quali, armati ed a cavallo, vennero a Riesi. Essendo il feudo vicino per lo stradale di Calamita, uomini, donne e ra­gazzi si misero in moto. Il Butera era in prigione. Chi organizzò la gita fu un certo Angilella, uno spietato socialista, Piovutoci non si sa da dove. Costui, predicando a squarciagola, diceva di farla finita coi signori proprietari incitando i cittadini ad armarsi, gli operai di tenersi pronti per la rivoluzione. Lungo la via, soldati, o Carabinieri non poterono arginare, calmare il Popolo. Giunti, al feudo, fecero le dovute operazioni, senza essere molestati. Intanto la P. S. si provvide duna Mitragliatrice che fu piazzata accanto alla chiesa della Madrice tra la piazza Garibaldi e il, Corso Vittorio Emanuele. Gli scalmanati ritornando sull’imbrunire entrarono in paese cantando battendo le mani. Trovandosi nella piazza, l’Angilella ordinò al popolo dì andarsi ad armare e ritornare. E difatti così fecero. La piazza ed il Corso formicolavano di gente. Ad un certo punto il Tenente e il Delegato di P. S. premerono la mano del soldato, facendo funzionare lo strumento micidiale. Al crepitio fulminea della Mitragliatrice seguirono altri colpi di fucile e revolvers. Il terrore invase tutti gli animi. Un momento dopo si vide un campo di morti sia in piazza che nel Corso: anche i feriti fecero spavento. Nella confusione gli sparatori fuggirono; inseguiti, fu rag­giunto il Tenente al piano del Pozzillo per la via di Ravanusa e fu freddato. In quella occasione l’ing. Accardi, che si trovava lungo il Corso, trascinato nel Cortile Golisano, venne pugnalato da mano ignota e ferito. Il pallore, lo sgomento si leggeva in faccia di tutti, vedendo la carneficina il sangue che scorreva, raccolti i cadaveri, le famiglie ne piansero amaramente i figli, i mariti, i parenti, I morti furono 8 e dei feriti non si seppe il numero. La prima versione data dei giornali fu che:la Rivoluzione era scoppiata a Riesi: laonde un Reggimento di fanteria col generale, la notte seguente entrò a Riesi in assetto di guerra, con baionetta in canna e i lanternini accesi. Entrati allo scuro, nel silenzio, in punta di piedi, mentre gli abitanti dormivano, non sapendo dove andare, ne cosa fare; non conoscendo nessuno, ne presentandosi anima viva, il generale adagio adagio fece aprire le chiese per far riposare i soldati che avevano fatto 48 ore di marcia forzata. Giunti alla Sanguisuga temevano ad entrare, credendo il finimondo, che la rivoluzione continuasse. informatosi i soldati che il paese era sotto l’incubo del terrore; che i cittadini spaventati, piangenti. temevano di riaprire le porte sapendo che c’erano i soldati, più tardi, generale e soldati rimasero sorpresi. Fattosi giorno, apertesi le prime botteghe, i soldati, usciti fuori per le vie per comprare da mangiare, nel volto dei cittadini leggevano i segni dello spavento, per timore di essere di nuovo massacrati; ma i soldati li rassicuravano, li confortavano allora furono fatti segno a delle gentilezze offrendo loro il caffè. Rifocillati che furono, la stessa mattina il Reggimento ripartì per la Sede di Palermo. Da quel giorno fatale della Mitragliatrice ovvero da quell’epoca, il popolo riesino rimase scosso: sembra un brutto sogno, eppure è stata una triste realtà che ci fa ripetere col proverbio Chi è stato scottato dall’acqua calda, teme dell’acqua fredda.
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Cap. XLVIII
il fascismo
Gli anni 1919, 20, 21, e quasi tutto il 1922 fino al 28 Ottobre del dopo-guerra, furono anni di disordini sociali, di terrore, di timori a causa del bolscevismo imperante. Si temeva da un momento all’altro la Rivoluzione; il bolscevismo diceva un dotto, si sentiva nell’aria; gli animi di tutti, in conseguenza di ciò, erano sospesi. Le campagne furono abbandonate a sè stesse; i proprietari non potevano dare un passo; furti ed omicidi, ruberie d’ogni genere erano all’ordine del giorno; ladri e ladruncoli nelle campagne razziavano dappertutto.
(qui manca un piccola parte, del testo originale)
aveva preso il suo corso; ne paesi, approfittando dello scuro, si commettevano brutti atti: basta dire che ad un barbiere gli levarono 25 soldi e lo scialle, alla discesa del Carcere vecchio; ad una coppia di giovani sposi, dopo l’Avemaria, mentre tenevano il marito, alla sposa rubarono lo scialle e l’oro; in pieno giorno, per la via detta miniera Tallarita, furono assaltati gli zolfatai che avevano ricevuto la paga.
Ma ciò che maggiormente faceva impressione erano gli omicidi, i delitti terrificanti che succedevano nelle campagne e nei paesi; la vita umana non era appunto calcolata.
La cronaca di Riesi di quei tempi registra Purtroppo fra i tanti delitti di sangue i seguenti:
1) Una notte all’Ammiata, feudo nel territorio di Butera, all’epoca della raccolta del grano, mentre i mezzadri, trovandosi nell’aia dormendo, intesero che i ladri rubavano il frumento, portandolo nelle bisacciesulle bestie come se fosse di loro proprietà.
Svegliatisi i coloni, poiché gridavano, ne furono freddati due. I Carabinieri di pattuglia, messesi in colluttazione coi briganti, ne ferirono uno mortalmente;
2) Ad un Campiere gli levarono tutto quello che aveva e l’uccisero per la via di Gallitano ;
3) Un povero contadino che si recava al vicino Canale ad abbeverare il suo unico somaro, con il quale si guadagnava il pane per la famiglia, suonata l’Avemaria, gli levarono l’animale e lui fu disteso a terra;
4) Alla Scalazza, in pieno giorno, un piccolo proprietario, mentre spietrava il suo campicello, lo legarono, gli spararono, trasportandosi la mula.
Tutta l’Italia era così!...
A porre fine ai tanti malanni, a tanto sfacelo, venne un uomo fatto apposta per salvare la nostra bella Italia. La marcia su Roma del 8 Ottobre 1922, fatta da Benito Mussolini, fece terminare tutto ad un colpo il malessere, rimettendo l’ordine dappertutto. Duce del Fascismo, l’ex caporale dei Bersaglieri, con un pugno di giovani ardimentosi, vestendo la camicia nera, si:oppose al parlamento italiano che era in vera anarchia coi numerosi partiti sovversivi. Afferrato il potere in nome di S. M. il Re Vittorio Emanuele III. col quale avevano fatto la guerra, l’On. Mussolini, mise prima di tutto i punti sugli i ai Deputati che trattò da “pecore rognose” ; e poi parlando da Roma a tutta l’Italia, disse: “Ora basta coi cattivi italiani”. Questo genio ignorato, figlio d’un fabbro ferraio e di una Maestra elementare, amico del popolo, nato a Predappio, nell’Emilia, col suo colpo di Stato, col suo pugno di ferro, istituì, fece sorgere il Fascismo in tutti i paesi del Regno, coi Fasci di Combattimento formati dai reduci della guerra, dai buoni italiani.
Dapprima sì impose con la forza, costringendo i riottosi a stare al loro posto; cosi a mano, a mano l’ordine cominciò .a ristabilirsi a misura che si affermava il Fascismo.
Un’era nuova si apri nei paesi, cessando lo scompiglio e la delinquenza. La Giustizia punendo i ladri rigorosamente, i furti cessarono; la P. S., dando la caccia spietatamente agli omicidi, ai malfattori, liberò le campagne e i paesi.
La mafia ebbe un serio colpo alla testa. Venuto in Sicilia .S. E. Mussolini, disse queste precise parole a Messina: “Voi, le vostre popolazioni, avete bisogno di essere purgate dalla mala vita” . Egli giungendo fino a noi alle miniere Trabia Tallarita, come dovunque fu acclamato.
Esponente del Fascio di Riesi da noi fu il Dott. cav. Gabriele Lamonica, reduce da Capitano Medico dalla guerra. Con zelo, coraggio e fede fascista fondò il Fascio di Combattimento; coadiuvato dalla Forza Pubblica; ogni giorno per le vie si andava gridando: “abbasso la delinquenza!, Viva il Fascismo!”. In principio i fascisti furono pochi, ma dipoi visto i risultati benefici che diede la tranquillità al popolo, molti si unirono al Fascio, Creato dal Dott. Laconica che fu il Segretario Politico
Anche i proprietari vestirono la camicia nera, di guisa che la massa passò al Fascismo. Le dimostrazioni erano ostili ai potere. Ogni giorno la stampa annunziava tutto quello che faceva il nuovo Governo dell’Ori. Mussolini, il quale sciolta la Camera dei Deputati volle rivestirla di nuovi elementi del suo colore, cioè fascisti.
Dato l’assesto al la Camera e ai paesi, S. E. il Capo del nuovo Governo pensò di sciogliere i Consigli Comunali d’Italia per fare entrate i Consiglieri fascisti poco alla volta. Riflettendosi, qui a Rìesi, incominciò la lotta politica contro la democrazia al potere.
I democratici d’altra parte si credevano forti e cercavano di resistere all’urto, ma il Dott. Lamonica s’imponeva col suo partito del Fascismo che guadagnava terreno giorno per giorno, i delinquenti arrestati spazzarono il terreno per le nuove idee le quali seppero di ostrica a coloro che non le compresero.

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