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lunedì 13 novembre 2017

L'ingegnere MICHELE CURCURUTO è l'autore impareggiabile della seguente carrellata sulla miniera di Gibilillini e sulle vicende storiche che la contraddistinsero



Nel già citato volume di Luigi Butera sulla storia di Riesi, ho trovato un passo che accenna alla presenza della mafia nelle zolfare sicilane nei primi decenni del Novecento. In effetti mi sono stati raccontati diversi episodi su questo tema, da alcuni figli dei direttori, che pur essendo a quei tempi molto giovani, avevano avuto sentore di visite notturne in miniera di persone poco raccomandabili, alle quali i loro genitori erano stati costretti a dare ospitalità, cibo e soldi. Questi fatti avvennero certamente nelle miniere Grottacalda e Trabia, ma senz’altro si saranno verificati in tante altre zolfare siciliane. A Gessolungo, infatti, quando arrivava don Calogero Vizzini (che fu gestore di quella miniera dal 1919 fino alla sua morte nel 1954), i suoi uomini di fiducia (tutti favaresi!) avvertivano immediatamente le loro mogli, le quali, anche se era notte inoltrata, si alzavano dal letto per preparagli subito un’ottima cena. Ancora di recente una di queste vecchie signore raccontava con tanto orgoglio questo particolare! Nelle miniere del nisseno spadroneggiavano negli anni ’30 due note famiglie di mafiosi, o meglio camorristi, i Todaro e i Bennardo. In quel periodo fascista era usuale a Caltanissetta che gli zolfatai più “malandrini” si riunissero, nei giorni festivi, nei pressi della statua di Umberto I°, al Collegio, dove avvenivavo spesso delle risse fra opposte fazioni, con coltellate mortali, di cui spesso non si riusciva a trovare l’autore, in quanto immediatamente c’erano dei carusi in mezzo alla folla che facevano sparire il coltello, sgattaiolando nel dedalo di stradine laterali al corso Umberto. Gli zolfatai malandrini erano soliti portare nella capigliatura un “ciuffo storto” e un copricapo con un “giummu di latu” come segno evidente del loro carattere mafioso, e camminavano inoltre tenendo sempre una foglia tra le labbra. Don Calogero Vizzini era solito portare uno stuzzicadenti in bocca, con il labbro inferiore volutamente sempre pèndulo, a rimarcare un suo atteggiamento apparentemente modesto. Don Calogero Vizzini «Tarchiato, le gambe esili, la pancia prominente, gli occhi semichiusi, quasi dormienti, lo sguardo inespressivo dietro gli occhiali leggermente affumicati, la bocca eternamente semiaperta, il labbro inferiore pendulo sul quale si adagiava la lingua, don Calò amava prendersi il sole della domenica, riverito da tutti, nella piazza del paese. Quando qualcuno, attraversando la piazza, destava il suo interesse o gli risvegliava antichi ricordi sopiti, egli lo fissava intensamente e lo inseguiva insistentemente con lo sguardo mentre quello si allontanava. Gli altri, quelli che gli MICHELE CURCURUTO 89 facevano corona, capivano e, per permettergli di meglio osservare, aprivano l’ampio cerchio formato dalle loro persone e si disponevano a forma di “V” in modo da lasciargli libera la visuale. Per qualche istante, allora, sulla piazza, si poteva osservare questa scena: don Calò al vertice di due ali di persone che si dipartivano dai suoi fianchi stava fissando qualcuno o qualcosa che aveva destato il suo interesse. Nessuno, tra quanti gli stavano vicino, fiatava. Se don Calò si girava intorno a se stesso per meglio osservare, anche le persone che gli facevano da ali ruotavano, quasi automaticamente, nel medesimo verso dello “zio” in modo che egli potesse avere la visuale sempre libera. La scena durava qualche minuto. La gente, in piazza, osservava, rispettosa, senza disturbare. Quando, poi, “lo zio”, con un gesto lento, si portava la mano verso la faccia quasi a fendere l’aria come se volesse cacciare un fastidioso immaginario moscerino, allora tutti capivano che don Calò aveva visto quello che c’era da vedere; le “ali” si disfacevano, il cerchio, attorno al capomafia, si ricomponeva e tutto tornava come prima. Ora, anche la piazza poteva riprendere il suo abituale trantran del passeggio: avanti e indietro, avanti e indietro». (Luigi Lumia - “Villalba, Storia e Memoria”, vol. II - Edizioni Lussografica, 1990). I surfarari malandrini La tradizione dei surfarari malandrini, ancora presente negli anni del fascismo, di portare un ciuffo ribelle di capelli sotto il berretto, così come mi è stato raccontato da due vecchi minatori, è confermata da un passo di Francesco Pulci, nel suo famoso saggio etno-antropologico “Vita delle miniere in Sicilia” (Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1899): In tempi che sono da un pezzo tramontati qualcuno di questi soggetti sopra accennati facevasi notar per una specialità di vestire e di portamento che indicava l’uomo della mafia.... ...Copriva il capo di un lungo berretto di seta nera a maglia che cadeva sulla spalla sinistra; questo venne in seguito sostituito dal berretto cilindrico di velluto nero (scazzittuni) piegato sul sinistro orecchio da cui pendeva un grosso e lungo fiocco di seta, che egli si piaceva far dondolare camminando. Avea molta cura di tenere tosati i capelli ad eccezione del ciuffo che gli scappava dal berretto cadendo sulla tempia destra. ...I carusi che eran sotto un tal picconiere gli stavano con molta soggezione; trovandosi in paese ne obbedivano i cenni, procuravano d’imitarne il vestire, il portamento, le maniere tutte. Poichè rispettosissimo egli era verso gli altolocati cui baciava devotamente la mano usando le frasi del gergo: “Voscenza è lu me’ patruni; la me’ facci sutta li pedi di Voscenza. Di mia, si voli, ni pò fari racina” ecc., mentre poi esercitava il suo impero verso i deboli imponendo che gli procurassero il ben vivere in tutti i modi, a lui che amava il dolce far nulla. Quando però subodorava che la Polizia gli veniva alle calcagna per pigliarlo come I SIGNORI DELLE MINIERE 90 vagabondo, si presentava al padrone, al gabelloto e più spesso al capomaestro di miniera per avere del lavoro...». Durante gli anni del fascismo, a Caltanissetta c’era un noto commissario di pubblica sicurezza, di nome Petrantoni, che in seguito fu questore a Milano, il quale aveva l’abitudine di tagliare di suo pugno, ai surfarari malandrini, quando venivano presi e condotti in Questura, il “ciuffo storto”, azione che rappresentava il più grave oltraggio al loro comportamento di uomini violenti. Si ricorda che il commissario Petrantoni era cognato di “padre” Palermo, cappellano militare della milizia fascista (e come tale teneva i contatti tra la Curia e la Federazione fascista nissena), il quale era solito farsi fotografare circondato dagli squadristi col pugnale sguainato, durante le adunate di “camicie nere” che si svolgevano alle miniere dello Iuncio, in occasione di esercitazioni paramilitari. Ma un ulteriore episodio, molto caratteristico, risalente agli anni ’30, di “ciuffi storti” tagliati ai surfarari malandrini, mi è stato raccontato da un vecchio minatore. C’era a Caltanissetta, nella via Vespri Siciliani, in un piccolo cortiletto che si affacciava sulla strada che notoriamente conduceva alle miniere dello Iuncio, quasi di fronte alla vecchia caserma dei Vigili del Fuoco, una “putia” di generi alimentari, nella quale si rifornivano, la mattina all’alba, i surfarari che si recavano a piedi a lavorare in miniera, e che com’era d’uso, pagavano a fine settimana, allorquando prendevano la paga. Questa bottega era gestita da una donna molto energica, la Todaro, la quale, allorquando gli zolfatai malandrini ritardavano volutamente a pagare quanto a lei dovuto, non aveva paura di afferrare una forbice e andare in mezzo alla strada a tagliare il ciuffo di capelli al minatore mafioso! Racconta Butera che il famoso mafioso riesino, Francesco Carlino, intorno al 1921, dopo una serie di fughe rocambolesche dalle prigioni, apparve improvvisamente a Riesi. «Durante la sua improvvisa riapparizione a Riesi, fu avvicinato da alcuni parenti ed amici fidati i quali preoccupati della sorte che poteva toccare al loro congiunto collaborarono con lui per procurargli del denaro per un tentativo di espatrio. Eccolo da solo od accompagnato in special modo dal suo fedelissimo zio Fortunato, presentarsi, a sera inoltrata, a dei proprietari che credeva potessero venire incontro ai suoi desideri. Tutti, o per un senso umanitario o per timore, diedero del denaro. La notizia della sua presenza in paese si divulgò, venne informata la caserma dei carabinieri che chiese dei rinforzi. Diverse squadre di agenti furono messe in movimento per la cattura del bandito. Ne seguirono pedinamenti, appostamenti, perquisizioni nei luoghi ove si pensava potesse rifugiarsi, ma del Carlino nessuna traccia. Per parecchio tempo fu tenuto nascosto, nella sua casa, da un capo officina meccanico della miniera Trabia, che come mafioso ebbe l’ardire di presentarlo al direttore di allora, Umberto Cattania, membro del Consiglio MICHELE CURCURUTO 91 Nazionale delle Corporazioni. Questi non mancò di accoglierlo benevolmente, gli diede una discreta somma di denaro e il posto di lavoro in miniera per due suoi fratelli. Durante il fascismo si fece una intensa lotta alla mafia. A Caltanissetta furono celebrati numerosi processi presso il Tribunale, a quei tempi ubicato nel seicentesco palazzo Moncada, nel centro storico della città. I mafiosi, tutti fra loro collegati con catene tintinnanti, scendevano a piedi dal Carcere di Malaspina fino al Tribunale, sotto lo sguardo incuriosito dei cittadini nisseni. Il padre del tenore Pastorello fu uno dei primi ad avere l’appalto del trasporto dei carcerati con un furgone cellulare. Un mancato omicidio nel mondo della mafia delle solfare avvenuto nello storico “Gran Caffe’ Romano” di Caltanissetta ‘‘Era il 28 giugno del 1919’’ Articolo di Michele Curcuruto pubblicato nella rivista ‘‘Incontri’’ del Rotary Club di Caltanissetta nel maggio 2005. Quella sera d’estate del 1919 faceva caldo a Caltanissetta. Era il 28 giugno, e già all’imbrunire i nisseni, nella gran massa zolfatai, si erano riversati nelle strade del centro storico, Strada Grande, Collegio, Badia. Dopo un frugale pasto al ritorno dal lavoro nelle zolfare vicine alla città, avevano lasciato le loro povere abitazioni, rintanate negli antichi quartieri arabi, prive di luce, acqua, fogne, dove sarebbero rientrati a tarda sera, per sfuggire il più possibile all’afa notturna. Soltanto le donne erano rimaste sedute davanti la porta delle case terrene, a prendere un pò d’aria, in attesa che rincasassero i loro uomini avvinazzati, dopo il giro delle numerose bettole sparse nelle viuzze adiacenti alle strade principali. In piazza Garibaldi il Casino dei Nobili si era già riempito della bella borghesia nissena, che abitava pur essa nelle stesse misere stradine attorno al centro della città, anche se in palazzotti di bella fattura in ‘‘pietra sogliata’’. Il marciapiedi antistante il Circolo era stato completamente occupato dalle sedie, dove avvocati, medici, cavalieri e galantuomini stavano a conversare ed a fumare beatamente. Di fronte il palazzo municipale, il Royal Bar Mastrosimone (alloggiato nei locali oggi sede del Gran Caffé Romano) aveva anch’esso invaso con i suoi tavolini una ampia parte del corso Umberto, ed i camerieri avevano un gran da fare nel servire caffé, orzate, gazzose, granite e schiumoni alla numerosa clientela, la quale affollava oltre che l’esterno anche le sale interne. Si erano fatte all’incirca le ore 10 della sera, e tra gli avventori presenti nel bar si notavano diversi esercenti, capimastri, e zolfatai delle più I SIGNORI DELLE MINIERE 92 importanti miniere del nisseno, Trabonella, Gessolungo, Giumentaro, Saponaro. Assieme a loro c’era qualche noto direttore di miniera, e tra una granita di caffè ed un’orzata si combinavano affari più o meno leciti. Ma anche alcuni studenti di bella famiglia e militari del 36° Artiglieria da Campagna, di stanza a quel tempo nella nostra città, se ne stavano a chiacchierare allegramente seduti ai tavolini. Tra gli zolfatai moltissimi erano originari di Favara, paese minerario dell’Agrigentino, tristemente noti per il carattere violento e l’abitudine di portare sempre in tasca una rivoltella o un coltello dalla lunga lama tagliente. A Favara anche le donne erano solite portare armi, nascoste sotto le lunghe vesti, eternamente di colore nero. Erano le ore 22,15, allorquando echeggiarono nel corso Umberto vari colpi di arma da fuoco provenienti dalle sale interne del Royal Bar. Tra il fuggi fuggi generale, tavolini rovesciati a terra assieme a schiumoni e gazzose, accorsero subito alcuni funzionari di Polizia, mescolati tra la gente che passeggiava in piazza Garibaldi. Davanti la porta del Royal Bar, impugnando una rivoltella, pronto ad impedire l’ingresso a chiunque, si riconosceva un tale Failla Calogero. I poliziotti, disarmato l’energumeno dopo una breve collutazione, entrati all’interno del bar trovarono giacente a terra, con una profonda ferita da arma da fuoco alla spalla sinistra, un noto esercente di miniere, il commendator Antonio D’Oro, che fino a qualche attimo prima era seduto in un tavolino a discutere di affari assieme al cavalier Angelo Lo Pinto, a Pasquale Cortese e all’ingegner Alfonso Cardella. Tali personaggi erano molto famosi nella città, perché dopo aver fatto una veloce carriera, da semplici carusi erano divenuti importanti imprenditori minerari, e da pochi anni avevano rilevato l’esercizio dell’importante miniera Trabonella. Tutta la gente presente in quel momento all’interno ed all’esterno del Royal Bar dichiarò subito alla Polizia che l’autore di quel mancato omicidio era stato Failla Antonio, fratello dell’energumeno trovato con una rivoltella in mano davanti la porta del bar. Costui era un militare e, vestito in divisa, sedeva in compagnia di altri quattro individui, in un tavolino a qualche metro di distanza da quello ove Antonio D’Oro se ne stava a chiacchierare assieme agli altri tre industriali zolfiferi. Lo stesso fu visto fuggire dal bar immediatamente dopo aver sparato al D’Oro. Fu accertato che altri tre colpi d’arma da fuoco furono sparati dalla rivoltella del cavalier Angelo Lo Pinto, in direzione del soffitto del bar, subito dopo il ferimento del D’Oro, al fine di chiedere soccorso. Questi i fatti avvenuti, apparentemente chiari ed inconfutabili, che determinarono l’arresto immediato dei due fratelli coinvolti nel mancato omicidio, Calogero ed Antonio Failla. Ma allorquando si vanno a leggere gli atti processuali, dopo circa 90 anni da quando avvenne il misfatto, spulciando i documenti ingialliti dal MICHELE CURCURUTO 93 tempo depositati presso l’Archivio di Stato di Caltanissetta, non ci si raccapezza più! Tutto ed il contrario di tutto emerge da quelle carte. Nessuno vide niente, nessuno era presente quella sera d’estate del 1919 a bere un’orzata al Royal Bar, tutti erano a casa a dormire, come testimoniarono le mogli, ...compresa la stessa vittima Antonio D’Oro! Chi fu il mandante di quel mancato omicidio? Tante furono le illazioni... tante le lettere anonime! Ma chi erano i personaggi di questa vicenda pirandelliana, o meglio ancora «alla Camilleri»? Ebbene, dietro quel tentato omicidio c’erano il mondo violento della zolfara, le lotte all’ultimo sangue per l’accaparramento dei cottimi migliori ed il predominio sulla gestione delle miniere di zolfo... che passavano anche sulla pelle di un familiare. I personaggi di questa vicenda erano infatti tutti originari da Favara, e tutti in stretto grado di parentela fra loro! Un mafioso chinava il capo ed un nuovo mafioso assurgeva agli onori del comando nell’«Infernu Veru» delle zolfare di Sicilia. Il commendator Antonio D’Oro era costretto a lasciare la gestione dela miniera Trabonella ed a trasferirsi per alcuni anni a Messina, a Roma, a Palermo, dove prese la gestione di un noto albergo nel centro storico. In quello stesso anno 1919 don Calogero Vizzini entrava prepotentemente nel mondo delle zolfare di Caltanissetta! In questo breve articolo per la Rivista del Rotary Club di Caltanissetta preferisco fermarmi qui. Il seguito di questa avvincente storia, con tanto di nomi e cognomi, così lontani nel tempo... ma così vicini alla bella borghesia di oggi della nostra città, lo leggerete, forse, un giorno in un mio prossimo romanzo! I SIGNORI DELLE MINIERE 94 Alla miniera Gibellini Don Genco Russo e le “giammelle” delle suore Orsoline Un caratteristico aneddoto, riferentesi ad un episodio realmente accaduto alla miniera Gibellini negli anni ’50, mi fu raccontato alcuni anni fa dal perito minerario Alessandro Tuzzolino. Questa importante ed antica zolfara, sita nel territorio fra Montedoro e Racalmuto, per tanti anni fu gestita da don Calogero Vizzini e dal commendatore Pietro …... Ambedue tali personaggi in quegli stessi anni gestivano anche la miniera Gessolungo. Ebbene, a Gibellini spesso veniva posto in vendita il “ginese”, ovverossia i rosticci di zolfo provenienti dalla fusione della “ganga” nei calcheroni, utilizzato come ottimo materiale arido di sottofondo per le costruzioni stradali. Direttore della miniera in quegli anni era il perito minerario Francesco……., cognato del comm……., il quale aveva avuto ordine da questi di far caricare il ginese nei camion soltanto dietro pagamento alla consegna. Un bel giorno si presentarono in miniera cinque camion, provenienti da Mussomeli, per caricare il ginese. Il guardiano fece immediatamente presente ai camionisti che bisognava pagare a vista la merce, al che questi risposero che erano stati mandati da don Giuseppe Genco Russo, “patriarca” di Mussomeli, e che pertanto era meglio per tutti non fare difficoltà. Il direttore, persona onesta e ligia al dovere, quando il guardiano gli venne a riferire la cosa, si impuntò esclamando che a Gibellini comandava solo e soltanto u’ zì Ciccio, e cioè lui! I camion se ne tornarono pertanto vuoti a Mussomeli, e subito venne informato dell’affronto Genco Russo. Questi, senza scomporsi affatto, telefonò subito al comm……., il quale da uomo vissuto, immediatamente ordinò al cognato di far caricare gratuitamente agli uomini inviati dal “boss” di Mussomeli, tutto il ginese di cui avevano bisogno. E così, l’indomani, dieci camion (e non più cinque, come il giorno precedente!) si presentarono in miniera per caricare il ginese, e u’ zì Ciccio questa volta fu costretto ad accoglierli con tanti ossequi. Alla fine delle operazioni di carico, uno dei camionisti, con tanto di “coppola storta”, si presentò al direttore con un pacchetto di biscotti ed esclamò: questo glielo manda don Genco Russo, sono “giammelle” (ciambelle) delle monache del convento delle Orsoline di Mussomeli... “si facissi la vucca duci”! E fu così che ancora tanti anni dopo, a Gibellini tutti ricordavano le “giammelle delle Orsoline”! MICHELE CURCURUTO 95 La ferrovia per la miniera Trabia I fratelli De Vecchi di Favara Ina Bonaccorsi, figlia del direttore della miniera Trabia-Tallarita, nei suoi ricordi fa menzione di un ingegnere dell’impresa che eseguiva i lavori di costruzione della ferrovia che doveva collegare Caltanissetta e Canicattì con Riesi e Sommatino. Con quest’ingegnere romano e la bella moglie, che abitavano nei locali della stazione ferroviaria già realizzata nei pressi della miniera Trabia, la famiglia del direttore Bonaccorsi aveva stretto rapporti di amicizia. Nel volume di Salvatore Ferro sulla storia di Riesi, pubblicato nel 1934, viene fatta una particolareggiata descrizione di quest’opera ferroviaria, che ritengo interessante riportare in questo saggio. «Mentre scriviamo i lavori della ferrovia sono a buon punto; già la bella stazione è terminata e la linea è quasi ultimata. Questa sospirata linea ferroviaria interna della Sicilia, partendo dalla stazione centrale di Canicattì, dovrà passare per le stazioni e paesi di Delia, Sommatino, Trabia-miniere, Riesi, Mazzarino, San Michele di Ganzeria, San Cono e Caltagirone, proseguendo poi per Catania. Il tronco che dalla Stazione Trabia-miniere viene a Riesi è meraviglioso. Scendendo il treno dalla montagna della miniera Grande di Sommatino, che costeggia fra le gallerie, arriva al vallone detto della Cottonara; passato il ponte fa una curva e dopo 550 metri giunge all’altro colossale ponte Imera sul Salso, accanto a quello interprovinciale. È un’opra d’arte moderna! Il ponte a 10 luci, di 15 metri ciascuna, è lungo m.190, largo m.5, alto m.25, tutto in pietra da taglio. Passato il quale la macchina si ferma alla stazione delle due importanti miniere che sembrano, con le magnifiche casine che vi sono, un ameno villaggio. La locomotiva, messasi in moto nella valle del Salso va verso due viadotti: il primo, lungo m.184 è a 10 luci di cui 8 centrali di m.15 e le due estreme di m.10; il secondo lungo m.86 è a 4 luci di m.15 ciascuna. Ed eccoci ora alla grande, maestosa galleria o traforo della Cammarera, lunga m.1091, con l’altezza di m.30 dal fondo del vallone. Uscendo la macchina col suo fischio, nel guardare il monte Stornello, il treno traversa la contrada della Ficuzza finché, tra ponti e ponticelli, arriva all’ultimo viadotto del Bannuto, lungo m.87, a 5 luci di m.10 ognuna. Con una breve discesa nella contrada Giarratana, la strada ferrata ci porta al simpatico ponte cavalcavia di San Giuseppuzzo e, passato il bel casello, entra nella Stazione del Lago, vedendo il grazioso villino Antonietta del comm. Golisano e la casina del signor R. Jannì. Riesi, finalmente! Sono lavori esatti, opere d’arte, che fanno onore alla ditta dei signori ingegner e colonnello De Vecchi di Favara, alla cui squisita cortesia dobbiamo le informazioni di cui sopra, assunte nei loro uffici. In atto il colonnello cav. Giuseppe, è commissario prefettizio. I SIGNORI DELLE MINIERE 96 La Stazione di Riesi, che sarà di grande utilità per il commercio, è al centro della costruenda linea ferroviaria. Quando si sentirà il fischio della locomotiva, annunziando: “Riesi!” il paese godrà dei benefici della civiltà. Colui che per la prima volta verrà in treno a Riesi, se di primavera, affacciandosi allo sportello, tra l’olezzo dei fiori e le bellezze naturali, resterà meravigliato, incantato a tanto sorriso di Dio e della natura. Il viaggiatore, dopo avere ammirato la lavorazione dello zolfo nelle miniere presso il fiume Imera, ne sentirà il puzzo, e spingendo lo sguardo fino al ponte interprovinciale, ne riporterà una bella impressione e siamo certi che racconterà di aver visto cose meravigliose. Chi l’avrebbe detto che un giorno queste terre sarebbero state allietate dalla ferrovia? Ah se i governi passati fossero stati più benefici verso di noi, quanti guai ci avrebbero risparmiato! Ma, grazie a Dio, le future generazioni saranno fortunate, sentendo il fischio e vedendo arrivare la locomotiva. Il traffico della ferrovia farà allargare di molto il paese verso quella parte, facendo sperare che sorgeranno bei palazzi, belle case, botteghe e alberghi...». Ina Bonaccorsi conservò con amore le foto della sua gioventù alla miniera Trabia, e fra queste, delle affascinanti immagini della visita alla costruenda linea ferroviaria per Riesi, assieme con le mogli degli ingegneri della miniera e dell’impresa De Vecchi. Altre belle foto sulla costruzione della ferrovia mi sono state messe a disposizione dalla signora Evelina Blandino, il cui nonno materno era il per. min. Michele Vullo, originario di Favara, cugino dei fratelli De Vecchi. Fra le carte abbandonate della miniera Ciavolotta, in territorio di Favara, ho trovato diversi documenti a firma dell’ingegner Domenico De Vecchi, risalenti agli anni Venti, dai quali si evidenziano gli interessi imprenditoriali di questa famiglia anche nel mondo delle zolfare. Com’è noto la ferrovia non fu mai inaugurata, perché l’Italia entrò in guerra, ed avendo necessità di ferro per fare cannoni, i binari della ferrovia non vennero più collocati... e tutto quel grandioso lavoro andò in rovina. Fino a pochi anni fà si sognava di riaprire un tratto di quella ferrovia, che congiungeva Caltanissetta con Riesi, Sommatino e la miniera Trabia, per farne un percorso turistico! Oggi è finito tutto. I terreni occupati dalla linea ferroviaria, i caselli ferroviari e le stazioni, tutto è stato messo in vendita all’asta dall’Amministrazione della Provincia di Caltanissetta, a privati che li hanno trasformati in abitazioni per villeggiatura estiva! MICHELE CURCURUTO 97 L’antico servizio di messaggeria postale per la miniera Trabia Nei ricordi di Ina Bonaccorsi, di Maria Giammusso e di Giuseppe Pagano si fa spesso riferimento ai difficili collegamenti stradali della miniera Trabia con i vicini paesi di Riesi, Sommatino, Canicattì, Ravanusa ed anche con Caltanissetta. Con il capoluogo non esisteva ancora negli anni Venti l’attuale strada provinciale, cosicchè per raggiungere Caltanissetta occorreva seguire la vecchia strada statale per Riesi - Canicattì - Serradifalco - S.Cataldo. Carretti, carrozzini, muli, asini, convivevano felicemente ancora a quei tempi con le poche automobili circolanti, e tutti insieme questi mezzi di trasporto affollavano strade piene di fosse, solcate dalle ruote in ferro dei carretti, ricoperte da spesso strato di polvere, da cui le signorine in viaggio si proteggevano tramite soprabiti leggeri, chiamati “spolverini”. Racconta Salvatore Ferro nella sua “Storia di Riesi” che fino a tutto l’Ottocento, mancando un ponte che attraversasse il Salso, quando c’era la piena del fiume gli zolfatai non potevano raggiungere la miniera o, al contrario, erano costretti a rimanere nella stessa per diversi giorni. Nel 1886 accadde che alcuni zolfatai riesini, tornando dal lavoro dalla miniera Gallitano, si trovarono bloccati in mezzo al fiume, su uno scoglio, senza poter più andare né avanti né indietro. Alle loro grida di aiuto, i carusi che erano riusciti poco prima a passare, corsero a dare la notizia a Riesi. Molte persone giunsero sul luogo sia dal paese che dalle due miniere vicine. Era il due febbraio, faceva molto freddo e quei poveri malcapitati trascorsero la notte in mezzo al fiume. L’indomani fu possibile far loro avere del cibo con una corda. Nel pomeriggio l’acqua cominciò a diminuire nel fiume e così poterono passare. Com’era difficile andare a Caltanissetta a quei tempi! La posta non si aveva che ogni due o tre giorni; essa arrivava a basto di mulo, parte da Mazzarino, parte da Ravanusa. E già era stato abolito il “procaccia” che portava la posta a piedi, partendosi da Caltanissetta, attraverso i paesi di Pietraperzia, Barrafranca, Riesi, Butera, Terranova e viceversa! Più tardi si realizzò un servizio postale tramite una vecchia carrozza e sembrò una grande novità. Ma anche questo servizio lasciava molto a desiderare perché, o si sfasciava la carrozza, o i cavalli non potevano andare avanti per la via Sommatino-Delia onde raggiungere Canicattì, a causa della mancanza del ponte sul Salso. Racconta invece Luigi Butera sugli antichi mezzi di trasporto nel territorio di Riesi: «Esiste una contrada chiamata “passo di lettiga” perché in tempi remoti permetteva il transito delle lettighe, che erano i mezzi di trasporto di cui si servivano i signori. Non poche volte i viaggiatori, in quel passo, venivano fermati da malviventi posti in agguato e quindi privati del denaro e degli oggetti preziosi. I SIGNORI DELLE MINIERE 98 Alle ore due del mattino, dalla piazzetta municipale e precisamente davanti all’ufficio postale, allo schioccare della frusta, agitata fortemente nell’aria dal signor Nunzio Russo di Sommatino, partiva una vecchia e sgangherata diligenza. A tirarla stava una coppia di ischeletriti e vecchi cavalli dalle visibili ferite causate dalla bardatura di cuoio. Allora pochissimi erano i viaggiatori. L’interno della carrozza poteva contenere otto persone e un’altra, se voleva, poteva prendere posto all’aperto sulla cassetta accanto al cocchiere. Giunti alla salita in contrada Mintina, per alleggerire il peso ai macilenti cavalli, i passeggeri erano costretti a scendere e fare a piedi quel tratto di strada che li portava verso la zona pianeggiante alle porte di Sommatino. Quivi avveniva il cambio dei cavalli. Si proseguiva per Canicattì ove i passeggeri scendevano per prendere il treno e recarsi verso altre destinazioni. La diligenza sostava fino alle ore due pomeridiane, ora in cui arrivava il treno, prendeva i passeggeri, rifaceva lo stesso percorso e con gli stessi inconvenienti arrivava a Riesi alle ore 22. Quando le acque del fiume Salso permettavano l’attraversamento si ricorreva ai “vardunari”, persone addette a portare in groppa al proprio mulo il passeggero. Si saliva la collinetta “San Giuseppuzzu”, si attraversava la grotta di Baglio, spesso punto d’incontro con scippatori, e dopo cinque ore di buona andatura si arrivava a Caltanissetta. Un’altra breve via di comunicazione, quando il fiume era in magra, era costituita dalla strada mulattiera che attraversava il Salso, in contrada Palladio, per arrivare dopo due ore alla stazione ferroviaria di Campobello-Ravanusa». Le famiglie Giorgio e Chinnici pionieri degli autotrasporti per la miniera Trabia Il signor Serafino Giorgio, da me sollecitato, ha voluto lasciarmi le testimonianze della sua famiglia, che dalla fine dell’Ottocento gestì i trasporti dai paesi di Sommatino e Riesi per Canicattì e Caltanissetta, compresa la miniera Trabia-Tallarita. Le notizie fornitemi dal signor Giorgio sono in parte tratte dal capitolo dedicato a Poste e Trasporti pubblici a Sommatino nel saggio di Filippo Falcone “Calogero Chinnici, un democratico siciliano” (Edizioni Lussografica,1996). «A partire dal 1880 circa, ovverossia da quando furono costruite le prime linee ferroviarie nella Sicilia centro-meridionale, i trasporti di maggiore importanza venivano effettuati tramite ferrovia, e lo scalo di Canicattì era punto di riferimento per i paesi circostanti. Anche la posta veniva prelevata allo scalo ferroviario di Canicattì e veniva distribuita con servizio postale a cavallo che eseguiva il seguente itinerario: Delia, Sommatino, miniera Trabia-Tallarita, ed infine Riesi. MICHELE CURCURUTO 99 Ai primi del Novecento vi erano diverse famiglie che si dedicavano con carri e calessi al trasporto delle persone; di esse possiamo ricordare i Galiano di Delia e i Cigna di Sommatino. Ma il servizio più affidabile era effettuato dai fratelli Giorgio di Delia, che possedevano due carrozze chiamate “postali” appunto perché svolgevano anche il servizio di consegna della posta. La carrozza era di otto posti riservati ai passeggeri, oltre il cocchiere ed il “secondo”. Il traino avveniva tramite quattro cavalli. Il percorso dallo scalo di Canicatti, attraverso i paesi sopradetti, non poteva essere effettuato in un unico viaggio, perché le strade a quei tempi erano solcate dalle ruote in ferro dei carri e delle carrozze. Il fondo era poi tutto dissestato, pertanto i cavalli affaticati venivano sostituiti a Sommatino con altri riposati, e ciò anche perché il secondo tratto da fare era ancora più impegnativo e faticoso, in quanto si doveva affrontare prima la discesa per la miniera Trabia, dove esisteva sia l’ufficio postale che la caserma dei carabinieri, e successivamente la salita attraverso la contrada Palladio, per raggiungere Riesi. Naturalmente lo stesso giorno partiva da Riesi un’altra corsa per Canicattì, ripetendo il percorso in senso inverso. Per avere un’idea del tempo che impiegava tale servizio postale a compiere tutto il percorso, diciamo che nel 1902 la vettura che partiva da Riesi, per raggiungere Sommatino, distante 20 Km, impiegava quattro ore e trenta minuti. Sempre in quell’anno, non essendoci sicurezza lungo le strade, il Comune di Sommatino avanzava richiesta al Prefetto di Caltanissetta di istituire una scorta armata alla carrozza postale lungo il tragitto da Canicatti a Sommatino e Riesi... come ai tempi del Far West, motivando ciò con il fatto “...che lo stradale è battuto anche dagli zolfatai dei paesi vicini...”. La ditta Giorgio iniziò a svolgere il servizio postale fin dal 1886 senza autorizzazione scritta. Nell’anno 1900 il Comune di Sommatino affidò ufficialmente il trasporto della posta ai fratelli Giorgio, tramite carrozze trainate da quattro cavalli, di loro proprietà, Si conserva ancora un atto stipulato tra il Comune di Sommatino e la ditta Giorgio, protocollo N° 1190 del 31 luglio 1908. Nell’aprile 1910 il Consiglio Comunale di Sommatino bandiva l’appalto del servizio di messaggeria postale Canicattì - Sommatino e viceversa. L’appalto a trattativa privata veniva aggiudicato per lire 600 alla ditta Giorgio, per una durata non maggiore di anni due. Nel maggio dello stesso anno finalmente si inaugurava il primo servizio automobilistico sulla tratta Canicattì - Delia - Sommatino - Riesi. In quella occasione ebbe luogo un ricevimento entusiastico con l’intervento di tutte le autorità e sodalizi municipali; la cerimonia avvenne alla presenza dell’onorevole Pasqualino Vassallo, dell’onorevole conte Ignazio Testasecca, del direttore provinciale delle Poste, cav. Martorelli, e di altre autorità. I SIGNORI DELLE MINIERE 100 L’automobile, una Ford Torpedo, nuovissimo modello, che serviva anche da mezzo postale, prese servizio il primo giugno successivo, con una corsa al giorno. Il sussidio chilometrico del Ministero dei Lavori Pubblici era di lire 2000 annui per Sommatino, di lire 1000 per Delia, e di lire 4000 per Riesi. La vettura, elegantissima, con l’interno tutto in pelle, aveva 12 posti, dei quali quattro venivano assegnati a Sommatino. È da ricordare che la famiglia Giorgio, originaria di Delia, per un più razionale funzionamento dei servizi di trasporti, si era trasferita a Sommatino già nel 1898, dove nel corso Roma possedeva una rimessa con sovrastante abitazione. Negli anni successivi la ditta si ampliava con altre linee per Caltanissetta, Enna, Ravanusa, Campobello. Come officina si appoggiava a Canicattì al Signor Accardi Giuseppe (padre del Sig. Vincenzo Accardi, il quale ha gestito la concessionaria FIAT per diversi anni), mentre l’officina della ditta Giorgio si trasferiva da Sommatino a Caltanissetta, nella Via Sallemi, nei pressi della antica fontana, oggi non più esistente. Durante il periodo pre-bellico del ’40 purtroppo le cose andarono male, perché la gente non viaggiava più. Erano divenuti introvabili inoltre il carburante, i pneumatici ed i ricambi per i mezzi meccanici. Già dal 1938 era iniziato per gli italiani il triste periodo dell’autarchia. A causa della penuria delle materie prime (ferro, carbone, carburante, legname) e della carenza di manodopera, richiamata alle armi, le miniere di zolfo rallentarono notevolmente la produzione. Nacque così anche per la ditta Giorgio la necessità di sostituire l’alimentazione dei motori dei mezzi di trasporto da gasolio o benzina a gas. Questo veniva prodotto con la combustione della legna. Si rese necessario eseguire delle modifiche nella zona posteriore della carrozzeria degli autobus, al fine di installare delle voluminose caldaie alimentate a legna, la cui combustione faceva depositare, sul fondo, una sostanza catramosa nerastra. Con l’evaporazione del catrame si originava un gas, il quale aspirato dal motore, attraverso una tubazione che correva sotto il pianale dell’autobus, consentiva il suo funzionamento. Evidenti erano i pericoli d’incendio di un tale marchingegno! Ed infatti in quello stesso anno 1938 un autobus della ditta Giorgio, un “Lancia Pentaiota”, così trasformato a gas, prese fuoco mentre era in marcia, nei pressi del castello di Delia, con grande panico dei passeggeri che riuscirono a salvarsi fuggendo a precipizio dall’automezzo. Inoltre, l’aspirazione del gas da parte del motore era condizionata dalle variazioni dell’orizzontalità dell’autobus, causate dall’andamento planoaltimetrico dello stradale. Si verificava spesso, in corrispondenza dell’inizio di una salita, un vuoto nell’alimentazione del gas, che provocava lo spegnimento del motore. MICHELE CURCURUTO 101 Per conseguenza i passeggeri, ancora una volta come ai tempi delle carrozze a cavalli, erano costretti a scendere dall’autobus e spingerlo fino a superare la salita, quando ciò era possibile! La carenza dei pezzi di ricambio, portò alla necessità di abolire le linee meno redditizie perché meno frequentate, e di smontare nella rimessa gli autobus fermi così da utilizzarli per i pezzi necessari a quelli in servizio. La ditta Giorgio fu acquisita nel 1943, subito dopo l’invasione degli alleati, dal signor Paolo Chinnici, a quel tempo podestà di Sommatino. Questi fu autorizzato dall’amministrazione provvisoria degli americani (al cui comando del presidio di Caltanissetta era il maggiore Smith) ad utilizzare i numerosi mezzi militari abbandonati nelle campagne per il prelievo dei pezzi di ricambio mancanti , così da ripristinare i trasporti pubblici . Paolo Chinnici costituì un equipe di meccanici esperti, tutti con una grande esperienza acquisita in tanti anni di lavoro nelle officine della miniera Trabia. Di essi ricordiamo Vilase Pirrello, Lillo Ottaviano, i fratelli Lillo e Ciccio Grisaffi, Alessandro Giorgio ed il figlio di Paolo, Arcangelo Chinnici, tutti di Sommatino, oltre ad un notevole gruppo di manovali. I lavori di ripristino degli autobus vennero eseguiti nei locali della ex stazione ferroviaria di Sommatino, dove abitava Paolo Chinnici. Questi in breve tempo costituì con il dott. Cammarata ed altre persone una società di trasporti a cui fu dato il nome “ALA-VIT”. L’azienda, dopo diversi decenni di attività, ebbe anch’essa delle traversie finanziarie, ed alcuni anni fà venne assorbita dalla società SAIS di Enna. ...E questa è l’amara fine della gloriosa ed antica ditta di trasporti dei fratelli Giorgio e del comm. Paolo Chinnici!». * * * * * Ed a conclusione del capitolo dedicato alla storia dei trasporti stradali per la miniera Trabia, vi invito a leggere fra i contributi di questo saggio, un bel racconto inedito, pieno di fascino, scritto da Angela Amico (1999), che narra di una notte di paura del “pirriaturi” Arcangelo Pirrello agli inizi del secolo, lungo la strada che portava dalla zolfara alla stazione di Canicattì. È un episodio vero della vita di quel minatore, originario di Sommatino, nonno dell’amico geologo Arcangelo Pirrello, del quale fu protagonista nel tentativo di salvare uno zolfataro rimasto schiacciato in una delle tante disgrazie di quella miniera. Ma Arcangelo Pirrello perì anche lui, nel 1923, sepolto sotto il crollo di una galleria nelle viscere di Trabia! 

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