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sabato 6 gennaio 2018

Possiamo essere sicuri che da settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con i contributi dell’AIMA.
Ma era la scena politica che si andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.


Approdiamo a momenti storici racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante. Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi, forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano. Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO  fu Ignazio,’ [7] il 18 gennaio del 1875 un racalmutese, che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella appunto osannata da SCIASCIA. Negli ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria. Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi lo aveva  apertamente sottoscritto e rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del consigliere Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza far nulla', Paolo Baeri .  etc. Ma il libello, che viene recapitato il 25 maggio del 1896  a Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'.  In una reiterata lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso stile delle denunce di MALGRADOTUTTO  la successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un sistema indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani. Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore di 'una spesa barocca'   per distruggere la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi può essere più desolante situazione?»


Riconosco di avere sempre sospettato che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -,  abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi riesce incomprensibile il passo della sua  introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno, ... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada, edificandovi una casetta: ora è un secolo. »  Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.


Certo, povero lui!, molto ancora dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo 1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto 1621 (indizione anticipata, in  uso negli atti ecclesiastici dell'agrigentino).  Se «il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni astrologici che avevano presieduto alla nascita   ... del  mostro» V. pag. 182 della Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».


Fra Diego La Matina, poi, non potè essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180): questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno 1621 (IV IND.)  Sciascia non riuscì a leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma «iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il racalmutese che  tenne a battesimo il futuro frate agostiniano. 


Noi gli imputiamo anche l'avere ignorato che la madre di Diego la Matina era una  RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi con  Vincenzo la Matina il 7 ottobre 1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651 andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova, si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni  e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i conforti religiosi da P. Bonaventura da  'Cannigatti'.


Nell'anno 1620 - precedente a quello di nascita di Fra Diego - era invece nato Don  Federico La Matina figlio di  Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina  fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a pag. 197 op. cit. - va  riabilitata.


Sciascia ebbe ad equivocare maldestramente tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di Marc'Antonio Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto di battesimo del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra i registri  della Matrice di Racalmuto. Giuseppe TROISI, all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia  intento a comporre una versione  corredata da fotografie della MORTE DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA,  ne trasse persino una interessante fotografia. E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un articolo  pubblicato da MALGRADOTUTTO, su MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.  Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN, verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.


Se Sciascia lo avesse appena scorso, lo avrebbe senza dubbio fustigato.


A questo punto, il mio acre censore Nicolò Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole? Pedanterie?  Grette minchionerie?


Senza dubbio. Ma è appunto per questo che mi sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio in casa di MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo giornaletto locale mi ha impudentemente censurato.


Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se è uno dei due Petrotto Nicolò (figlio di  Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto'  nelle contestate colonie dei 'balilla' racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.


Non sono di antico lignaggio racalmutese i PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza' della Terra del Sale.  Questa famiglia  appare nei registri della Matrice solo sul finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo un ceppo affine che si fa chiamare GULPI PITROTTO .  Di un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo traccia negli atti di morte del l'11/10/1648 ed il primo di maggio del 1656 viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi Pitrotto figlia di Francesco e Giovanna Gulpi Pitrotto.  Un Gulpi Pitrotto lo troviamo addirittura quale teste nel matrimonio tra Chiazza Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il 9/5/1618.


Incomprensibilmente, a partire dal novembre del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di Giovanna di anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il cognome nel solo PITROTTO e da allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e - sia chiaro - onorevolmente nella Terra di Racalmuto.


 


Solo che chi scrive, alla stregua degli Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare presenze racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che risalgono, a seconda delle letture, al 1554 o al 1564.  Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per linea materna anche un PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue locale parlando le cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto» nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.


Questa "querelle" tra me ed il PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non può apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo agli scontro della fine dell’Ottocento.


«Si informa  - scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873 l'Ufficiale di P.S. in missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi di maggio  p.p.   i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e Stanislao D'Amico da Girgenti,  nelle ore del mattino vennero in questa, ove si  riunirono a certo Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual socio appaltatore dei Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso giorno, insieme al detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai nominati Ferrara Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato  in Grotte, civile, ed INGRAO  Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia  Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro , ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli stessi furono imputati e sottoposti a mandati di cattura  per la rivolta politica avvenuta in Grotte, nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono una condotta tanto riservata da non farsi colpire  dai rigori della legge e da qualunque possibile  vigilanza.»


 


E a Racalmuto? «In Racalmuto questo partito [repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è beffeggiato».


 


«Maestà, siamo alle Grotte» - citiamo da Rerversibilità di Sciascia - «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti - disse all'ufficiale di scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini che hanno sofferto il carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi prosperano la letteratura e le sardoniche rime in vernacolo.


 


Nelle sale del circolo tutte quelle “mene” ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle solatie ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e della tarda sera.  Una rissa mia, paesana, acidula con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare per dare il ritmo, se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei galantuomini nostrani.


 


*   *   *


 


Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente non colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo per capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della “riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi - nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano “scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo proviamo ancora, con una qualche ingordigia.


Racalmuto si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma  Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore.  Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai:  Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.


 


Il quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63  esercenti di miniere di zolfo (per converso solo  4 esercenti di miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e  quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma  molti sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella,   etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni  Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento. 


 


Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani  [8] accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.


«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali  o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»


 


Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese [9] fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto di quella seconda metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo  scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro  ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.


«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]


«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda.  [...]


«Qua e là, tra le distese grigie del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il minerale grezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!


«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»


 


Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola: [10] «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavoro sui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»


L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([11])


Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Saranno i primi a passare al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso nuovo regime. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilateralmente decisa dagli esercenti. [12] Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([13])


Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesta sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali?: Risponde: Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» [14]

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