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giovedì 4 gennaio 2018

Una frase presa in prestito dal romanzo

di Ernest Hemingway «Per chi suona la

campana», ma che lui ormai sentiva come

sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle

sorelle e ai compagni del partito e del

sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabelloti

mafiosi lo minacciavano o gli facevano

arrivare l.invito a farsi i fatti propri.

In quei primi anni del secondo dopoguerra,

Miraglia era dirigente del Partito

comunista e segretario della Camera del

lavoro di Sciacca. Si era messo in testa di

far applicare anche nel suo paese i decreti

Gullo sulla concessione alle cooperative

contadine delle terre incolte o malcoltivate.

E il 5 novembre 1945 aveva costituito

la «Madre Terra», una cooperativa di

centinaia di braccianti e contadini poveri,

alla quale fece assegnare diversi ettari

di buona terra. Un gravissimo affronto

alla "sacra" proprietà privata, che, giorno

dopo giorno, faceva imbestialire i latifondisti

e i gabelloti mafiosi, che decisero

di fargliela pagare.

Il 4 gennaio 1947, verso le nove e mezza

di sera, Accursio Miraglia era appena

uscito dai locali della sezione comunista

per tornare a casa. A "scortarlo" c.erano

quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino

La Monica, Tommaso Aquilino e

Silvestro Interrante. Percorsero un tratto

di strada insieme, poi Interrante e Caracappa

si staccarono dal gruppo per far

rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due,

invece, accompagnarono il dirigente contadino

fino a 30-40 metri da casa sua, lo

salutarono e ritornarono indietro. Ma

passarono solo pochi secondi e il silenzio

fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono

subito che i colpi erano diretti

contro Miraglia. La Monica «ritornò indietro

e vide un giovane, piuttosto esile,

di media statura, con cappotto e berretto,

che impugnava un.arma da fuoco lunga,

dalla quale fece partire un.altra raffica

di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla

strada, sotto una lampada accesa dell

.illuminazione pubblica, e, dopo aver

sparato, si allontanò di corsa verso l.uscita

del paese. La stessa scena fu vista da

Aquilino», scrive Umberto Ursetta, nel

volume «Nelle foibe della mafia. Accursio

Miraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti»,

che uscirà a giorni come supplemento de

"L.Unità". Probabilmente, insieme a questi

due uomini ce n.era un altro, che si allontan

ò di corsa dopo gli spari.

Miraglia morì riverso sulla porta della

propria abitazione, tra le braccia della

giovane moglie russa, Tatiana Klimenko.

Di corsa, erano arrivati La Monica e Aquilino.

Poco dopo, arrivarono anche quattro

carabinieri, attirati dagli spari. A 51 anni,

Accursio Miraglia morì "in piedi", perché

non si era voluto piegare alla mafia e agli

agrari, perché non volle tradire i suoi

contadini. E questo lo capirono bene a

Sciacca, dove il dirigente sindacale era

benvoluto ed amato dagli onesti. Non

era il primo omicidio di mafia. Prima di

lui, erano già caduti tanti altri capilega. Il

delitto Miraglia, però, fece tanto scalpore

in Sicilia e nell.intero Paese. A Sciacca

arrivarono tutti i dirigenti sindacali e politici

della sinistra, a cominciare dal segretario

regionale del Pci Girolamo Li

Causi e dal sottosegretario alla giustizia

Giuseppe Montalbano. Il funerale non

poté tenersi prima di sei giorni, perché

erano tanti i cittadini che volevano tributargli

l.ultimo saluto. La bara col corpo

di Miraglia rimase scoperta tre giorni all

.ospedale civico e tre giorni nel salone

della Camera del lavoro. Infine, l.11 gennaio

si svolsero i funerali, a cui partecip

ò l.intera popolazione. I preti non vollero

che Miraglia fosse portato in chiesa,

perché era un morto ammazzato e per

giunta comunista. Ma le esequie civili

furono lo stesso solenni ed imponenti. In

Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per

dieci minuti. In Italia, per cinque. In tutte

le fabbriche suonarono le sirene. Dalla

Camera del lavoro al cimitero, la bara

fu portata a spalla dai contadini. Era una

giornata d.inverno, fredda ed uggiosa,

ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre

arrivò davanti al portone d.ingresso

del cimitero, cadde qualche goccia di

pioggia, che bagnò la bara. «Un ti vosiru

benidiciri l.omini, ma ti binidiciu Diu»,

esclamò un anziano contadino.
Dietro l.assassinio la longa manus della Cia?
(d.p.) Non c.é dubbio che l.assassinio di Accursio Miraglia, avvenuto quando

ancora l.Italia era governata da una coalizione di unità nazionale, che

comprendeva tutti i partiti antifascisti, fu voluto dalla mafia e dagli agrari.

Come non ci sono dubbi che questi godevano della protezione di "pezzi" della

politica e delle istituzioni statali. Il figlio Nicola, però, sulla base delle ricerche

storiche di Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, è convinto che possa

esserci stata anche la complicità della CIA americana, come per Portella delle

Ginestre: «Probabilmente . dice . un vero processo giudiziario sarà impossibile

riaprirlo, ma ad un processo storico non voglio rinunciare». E proprio a questa

ipotesi sta lavorando con la fondazione intestata al padre.

In alto due vedute di Sciacca e, al centro, Nico Miraglia, il figlio del

sindacalista ucciso il 4 gennaio del 1947. Nico, con la Fondazione

intestata al padre, spera in una revisione storica del processo

Al centro una foto di Accursio Miraglia, con su scritta la frase di

Hemingway che lui ripeteva a chi si preoccupava della sua

incolumità: «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio»
Il sindacalista
paladino dei contadini

di Sciacca fu ucciso il

4 gennaio del 1947
A quanti temevano
per lui diceva: «Meglio

morire in piedi che

vivere in ginocchio»
(d.p.) «Mio padre era ricco, ma

lasciò la sua famiglia povera .

dice oggi Nico Miraglia, figlio

del dirigente sindacale

assassinato . per lui i soldi

avevano un valore, perché gli

consentivano di fare opere di

bene. Mia madre mi

raccontava che

all.orfanotrofio dei marinai,

gestito da padre Arena,

donava mille lire per ogni

orfano ricoverato, mentre al

convento del .Boccone del

povero. ogni giorno faceva

avere il pesce ed altri generi di

prima necessità». Ma, grazie al

.grande cuore. di Sciacca, la

vedova e i suoi 3 figli (oltre a

Nico, Maria Rosa e Nemesi)

tirarono avanti. «A mia madre,

che non capiva niente di

gestione dell.industria del

pesce e che non parlava bene

l.italiano, per un anno intero .

racconta ancora Nico . i

pescatori vendettero a prezzo

equo il migliore pesce. E i

dipendenti lavorarono con

molta abnegazione per

rilanciarne l.attività».

Come mai Accursio Miraglia

sposò una donna russa? «Mia

madre . spiega Nico . era

figlia del cugino dello Zar di

Russia, costretta ad andare in

esilio dopo la rivoluzione

d.Ottobre, all.età di 12 anni.

Per alcuni anni lavorò in una

compagnia di rivista. Negli

anni .30 capitò a al teatro

Massimo di Palermo, dove fu

contattata da mio padre per

degli spettacoli a Sciacca. Poi

scattò l.amore e mamma

Tatiana rimase per sempre con

papà Accursio». Una bella

storia tra la nobile russa e il

comunista anarchico. Si,

perché in gioventù Accursio

Miraglia era stato un

anarchico. Questa passione

politica scattò a Milano, dove

era stato mandato a dirigere il

servizio cambi del Credito

Italiano. Fece parte del gruppo

anarchico di Porta Ticinese.

Dopo qualche mese, però, la

banca lo licenziò per

«incompatibilità politica» e il

ragioniere Miraglia tornò a

Sciacca. Dopo la liberazione,

fondò con altri la sezione

comunista e la Camera del

lavoro, di cui divenne

segretario. Si mise alla testa

del movimento contadino,

costituendo la cooperativa

«Madre Terra», organizzando

nel settembre del .46 la

famosa «cavalcata», una

imponente sfilata di contadini

a cavallo chiusa da un comizio.
Il figlio Nico

Documenti C





M
Y
N

Palermo .31

DOMENICA 24 APRILE 2005 LA SICILIA




GIROLAMO LI CAUSI
Lo scandalo del processo: tutti assolti

LA STORIA. Tra «aggiustamenti», colpi di scena e ritrattazioni alla fine nessuno risultò colpevole



Oltre ad essere un dirigente politico e sindacale

della sinistra, Accursio Miraglia era anche direttore

dell.Ospedale civico di Sciacca, proprietario

di una piccola industria del pesce, amministratore

di una fornace per la produzione di laterizi e

direttore del teatro "Rossi". Un personaggio pubblico

di rilievo, dunque, la cui tragica fine non poteva

passare sotto silenzio. A condurre le indagini

sul delitto fu la polizia, che fermò un certo Calogero

Curreri, indicato da La Monica e Caracappa

(i due militanti comunisti che la sera del 4

gennaio 1947 avevano accompagnato Miraglia)

come facente parte del commando omicida. Altri

testimoni (tra cui la moglie di Miraglia e le sorelle

Brigida ed Eloisa) indicarono nel proprietario

terriero, cavaliere Rossi, e nel suo gabelloto Carmelo

Di Stefano, alcuni dei possibili mandanti

dell.assassinio. In appena nove giorni di indagini,

gli inquirenti, quindi, si convinsero delle responsabilit

à di Rossi, Di Stefano e Curreri, che furono

formalmente accusati dell.omicidio, individuandone

la causale «nel contrasto, anzi nell.odio,

che il Rossi ed i suoi familiari nutrivano verso il

Miraglia» per essersi battuto a favore dei contadini.

Rossi e Curreri vennero arrestati e condotti

nel carcere di Sciacca, mentre non si poté arrestare

il Di Stefano perché ricoverato nell.ospedale

di Sciacca. Qualche giorno dopo, fu l.ispettore

di pubblica sicurezza Messana a far tradurre il cavalier

Rossi dal carcere saccense a quello di Palermo.

Durante il viaggio, però, il detenuto accus

ò un improvviso malore e fu fatto sostare nel famigerato

ospedale di Corleone, diretto dal capomafia

del luogo Michele Navarra. Qui, il dott.

Dell.Aria gli rilasciò un certificato, dove dichiarava

che il Rossi «era affetto da enterorraggia in

atto». Una patologia sospetta, ma "provvidenziale",

che ne consigliò il ricovero nella clinica

Orestano di Palermo, evitandogli così l.onta del

carcere. Ma i colpi di scena non finiscono qui.

Giorni dopo, la polizia trasmise alla Procura della

Repubblica di Palermo le "carte" dell.inchiesta,

che in pochi giorni ordinò la scarcerazione degli

imputati per mancanza di elementi concreti di

colpevolezza. «In effetti, gli indizi raccolti a loro

carico appaiono molto fragili e di difficile tenuta

in sede processuale», osserva Umberto Ursetta.

Aggiunge, però, che fu forte il sospetto che l.ispettore

Messana ebbe troppa fretta di chiudere

l.indagine, presentando «denuncia contro alcuni

individui sospetti, non sostenuta da alcuna prova,

allo scopo di farli subito scarcerare e lasciare

quindi il delitto impunito». La decisione della

Procura di Palermo suscitò molte proteste. L.on.

Li Causi e l.on. Montalbano presentarono un.interrogazione

parlamentare, chiedendo che le indagini

fossero rifatte in maniera approfondita. E

qui un nuovo colpo di scena. La polizia e i carabinieri

arrestarono nuovamente Calogero Curreri,

ma stavolta insieme a Pellegrino Marciante e

Bartolo Oliva. I primi due, interrogati dagli inquirenti,

confessarono il delitto ed indicarono

quali mandanti il cavalier Rossi, il cavalier Pasciuta,

il cavaliere Vella e il gabelloto Carmelo Di

Stefano. Caso risolto, dunque? Nemmeno per sogno.

Davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e

Marciante ritrattarono le loro confessioni, accusando

le forze dell.ordine di averle estorte con

violenze inenarrabili. Il giudice, quindi, prosciolse

tutti per non aver commesso il fatto, denunciando

per torture e sevizie il commissario Giuseppe

Zingone, il maresciallo dei CC Gioacchino

Gagliano e il brigadiere Salvatore Citrano, il maresciallo

di P.S. Angelo Causarano e gli agenti di

P.S. Vincenzo La Greca e Ernesto Moretto. Incredibilmente,

però, anche il procedimento penale

contro i "torturatori", avviato dalla Procura di

Agrigento, si concluse col loro pieno proscioglimento.

Ma, se non ci furono violenze, gli imputati

dell.assassinio non avrebbero dovuto essere assolti.

E, nel dubbio, s.imponeva almeno la riapertura

delle indagini. Invece niente. Solo un

colpevole silenzio, che dura fino ad oggi.
D.P.

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