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sabato 2 giugno 2018

Non penso che vi sia una prima una seconda una ennesima Repubblica. Sono certo che esiste una sola Repubblica,, quella iniziata il 18 aprile del 1948 che naturalmente si evolve perché cresce, perché mette sempre più a profitto la sua millenaria cultura, il suo essere cattolica senza intristire nel bigottismo delle penitenti. il suo cercare una libertà a dimensione dell'uomo moderno, del nuovo millennio. Non mi rompete il salsicciotto con questi vostri scellerati piagnistei, con questo vostro traslare sugli altri la monotonia del nostro appassire, morire. Voi appassite, voi morite non certo questa splendida Italia, questo sole che ti riscalda la pelle. che ti spinge agli abbracci più gaudiosi, ai sogni più libertari. Date il 'vitalizio' a tutti gli italiani; è possibile, è doveroso. Non siate gretti, meschinelli. accidiosi; astenetevi dall'amputare diritti quesiti: già oggi togliete i vitalizi ai vostri servitori del parlamento italiano. Subito dopo li tolgono a voi. Provare per credere.
Mi hanno aggredito certe superiori menti giudicanti un tempo paludate con pretenziose toghe perché ai loro miserevoli piagnistei autolesionisti ho contrapposto l'ostatività che di dipartiva dalle misurazioni statistiche. La loro era l'appagante documentazione, la mia solo una insignificante ridda numerica. Certo pensano solo al pollo di Trilussa. E di rincalzo io: sutor ne ultra crepidam! Aprite cielo: il Re Nudo si è corrucciato: tutti dovevamo inchinarci al suo imposto vestiario.

Mi va di fare qui una esercitazione statistica che mi sono negato di fare in quella risibile corte ossequiente.

Sono nato a Racalmuto che tutti dicono patria dell'anarchico non violento Leonardo Sciascia. Ma vivo da semisecolare data a Roma.

Mi vanto di avere dileggiato sia la grande banca sia la supponente toga dell'ambrosiana latitudine di terra e di fiume.

Racalmuto non mi è ignota. Sottoposta alle mie misurazioni statistiche mi trovo a dovermi spaventare rispetto ad una locale spesa annuale di 98 milioni di euro.

Le entrate ufficiali stagnano sui 40 milioni di euro. All'ISTAT registrano una entrata legale non esondabile dal bacino di una settenaria milionata di euro.

Da qui, ovvio, quasi l'intera popolazione non ce la fa ad arrivare a fine mese.

Il fatto: macchine nuove anche da ventimila euro, vettovaglie supersofisticate, vestiario à la page, mutandine sexy delle baby donnine ultra costose, pranzi luculliani ad ogni prima comunione delle fanciulline vestite da reginette e dei fanciulletti ridicolizzati con cravattini improbabili, insomma un tenore di vita da 98 milioni di euro annui.

Tra i 98 che si spendono e i sette milioni che si dichiarano con F24 un abisso. basterebbe al tremendo Centro Elettronico della romana Guardia di Finanza, segretissimo ma che io ho potuto visitare quando maggiordomo al Secit di Reviglio, battere i maligni tasti e tutti i racalmutesi finirebbero in certi grossi guai con l'Agenzia delle Entrate prima e con l'Equitalia dopo, quando non in manette alla Formica.

Questa statistica è davvero il nulla dell'ex magistrato che mi ha insolentito? O è più che documentazione accusatoria?

Calogero Taverna



Il Seicento Racalmutese




Il Seicento inizia con l’uccisione a Palermo, nella via Favara - e non in contrada Ferraro di Racalmuto, come affermano storici locali - del poco virtuoso Giovanni IV Del Carretto. Ecco come un diarista di Palermo raccontò il raccapricciante delitto:

A 5 di  maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango] di detto; e ci tirarono dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran maraviglia di tutti li agenti; e finìo.


« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento, dudici spatati, quattro testi, sei destinati [1], purché non sia lu principali ci avissi fatto  detto delitto, et anco la grazia di S. M.».

Il seguito della storia ci è pure noto, sempre per merito di quel diarista palermitano:


 «A 20 ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari [2]  soliti; e tinni [intendi che tenne forte a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.


«E fu perché il giorno che sindi andâ a li galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui era supra detti galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travauci certi faldetti che avia arrubati allo Casali.


«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti, ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.


«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia  alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».



Giovanni IV Del Carretto  lascia un figlioletto (l’unico legittimo) di appena nove anni. Quello che non riuscirà mai più a togliersi di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu) di Sciascia, Girolamo II Del Carretto viene raccolto fanciulletto a Palermo e portato nel suo castello di Racalmuto, affidato alle cure (chissà se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del Carretto.

Spettegoliamo anche noi con Sciascia (op. cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II Del Carretto] stava affacciato al balcone alto tra le due torri guardando le povere case ammucchiate ai piedi del castello quando il servo Antonio di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco”. Era un sicario, un servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che “la morte del servo non ritorna in vita il padrone”. Comunque la sera di quel 6 maggio 1622, i regalpetresi certo mangiarono con la salvietta, come i contadini dicono per esprimere solenne soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono, quando violenta morte rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito di ingiusta autorità.»

E nella Morte dell’Inquisitore (pag. 180): «Che un fondo di verità sia in questa tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo stesso del racconto popolare, che dice il servo di Vita averla fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e scoppellato...».

Ma ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore prosegue: «ma questa viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine, principale restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri il popolo avrebbe mosso il racconto delle corna del conte. Il priore non era certamente uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato da un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi introvabile, [ma ora trovata dal Nalbonen.d.r.], autore di una buona storia del paese) dice della vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto, e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed arbitrio...»

Qualche volta siamo stati persino caustici: « Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua  frequentazione e meticolosa attenzione.

Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana  - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno beffato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede,  ciò fece poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.

Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei,  una Ventimiglia.

(E tanto grazie alle recenti scoperte d’archivio del profNalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel  Cenobio di S. Lorenzo il   28 ottobre 1654).


Quando facevamo queste considerazioni, non era ancora nota la documentazione del Fondo Palagonia. Quella documentazione restituisce alla verità la faccenda del terraggio e delterraggiolo pretesi dai Del Carretto. Crediamo che queste non siano tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle così. Erano diritti feudali spettanti al baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che contadini abitassero nella terra del barone: dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o esattore delle imposte cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa misura di frumento per ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio) ed un’altra (di solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi fecero cause memorabili (e secolari) per sottrarsi e sottrarre dagli odiati terraggio e terraggiolo.  La spuntarono solo il 27 settembre 1787.

Invero il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a disposizione i suoi protettori i Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:


«Oltre alle numerose  tasse e donativi e imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette delterraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto solevano esigere non solo da coloro che seminavano terre nel loro stato, benché le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero terre non appartenenti alla contea, ma che avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi ne dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti, avevano intentata una lite contro quel signore feudale per ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di Regalpetra dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi da quei balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora in consiglio i borgesi di Regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le tasse necessarie alla prelevazione  di quella ingente somma. Le tasse furono imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto getta nella bilancia la spada di Brenno  ... e trasgredendo ogni accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il terraggio e il terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».

Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto durante la signoria di Girolamo II i borgesi di Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però, a noi fa pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra baronale a terra demaniale, reale.

«Per mettere insieme una tal somma, il Regio Tribunale autorizzò una straordinaria autoimposizione di tasse: ma appena le nuove e straordinarie tasse furono applicate, don Girolamo del Carretto dichiarò che le considerava ordinarie e non in funzione del riscatto. Iborgesi, naturalmente, ricorsero: ma la dolorosa questione fu in un certo modo risolta a loro favore solo nel 1784, durante il viceregno del Caracciolo.

«Il priore degli agostiniani e il loro servo di Vita fecero dunque vendetta per tutto un paese, quale che sia stato il pasticciaccio di cui, insieme al defunto e a donna Beatrice, furono protagonisti. (Curiosa è la dicitura di una pergamena posta, quasi certamente un anno dopo, nel sarcofago di granito in cui fu trasferita la salma del conte: dà l'età di donna Beatrice, ventiquattro anni, e tace su quella del conte. Vero è che non disponiamo dell'originale, ma di una copia del 1705; ma non abbiamo ragione di dubitare della fedeltà della trascrizione, dovuta al priore dei carmelitani Giuseppe Poma: e l'originale era stata stilata dal suo predecessore Giovanni Ricci, che forse si permise di tramandare allusivamente una piccola malignità.) [...]


«Dall'anno 1622, in cui fra Diego nacque, al 1658, in cui salì al rogo, i conti del Carretto passarono in rapida successione: Girolamo II, Giovanni V, Girolamo III, Girolamo IV. I del Carretto non avevano vita lunga. E se il secondo Girolamo era morto per mano di un sicario (come del resto anche il padre), il terzo moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza della Sicilia. E non è da credere che si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l'Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti; e, a congiura scoperta, il conte ebbe l'ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona di Spagna era però cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti. Giovanni IV, per esempio, aveva fatto ammazzare un certo Gaspare La Cannita che, appunto, temendo del conte, era venuto da Napoli a Palermo sulla parola del duca d'Alba, viceré, che gli dava guarentigia. E' facile immaginare l'ira del viceré contro il del Carretto: ma si infranse contro la protezione che il Sant'Uffizio accordò al conte, suo familiare. (Questo stesso Giovanni IV troviamo nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche se il Paramo [3]  gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in prigione.

«Della familiarità dei del Carretto col Sant'Uffizio abbiamo altri esempi. Ma qui ci basta notare che a Racalmuto, contro l'eretica pravità e a strumento dei potenti, l'Inquisizione non doveva essere inattiva.  [...]

«L'ordine degli agostiniani di sant'Adriano fu fondato nel 1579 da Andrea Guasto da Castrogiovanni: il quale, stabilita coi primi compagni la professione della regola nella chiesa catanese di Sant'Agostino, si trasferì in Centuripe, in luogo quasi allora deserto, e fabbricate anguste celle, pose i rudimenti di vita eremitica, e propagolla in progresso per la Sicilia: notizia che dobbiamo a Vito Amico [Dizionario topografico della Siciliaa cura di G. Di Marzo, Palermo 1859.], e non trova riscontro nelle enciclopedie cattoliche ed ecclesiastiche che abbiamo consultato. Lo stesso Vito Amico dice che il convento di Racalmuto fu dal pio monaco Evodio Poliziense promosso e dal conte Girolamo del Carretto dotato nel 1628. Evidente errore: ché nel 1628 il conte Girolamo era morto da sei anni. Più esatto è il PirroS. Iuliani Agustiniani Reformati de S. Adriano ab. an. 1614, rem promovente Hieronymo Comite, opera F. Fuodij Polistensis [R. Pirro, Sicilia Sacra, libro terzo, Palermo 1641].

«In quanto al pio monaco Evodio Poliziense o Fuodio Polistense, si tratta senza dubbio alcuno di quel priore cui dalla leggenda popolare è attribuito il mandato per l'assassinio del conte Girolamo. Infatti il Tinebra Martorana, che non si era preoccupato di consultare in proposito i testi del Pirro e dell'Amico, cade in equivoco quando dice che al priore di questo convento la tradizione serba il nome di frate Odio, riferendosi con ogni probabilità all'azione da lui commessa. Era semplicemente il nome, piuttosto peregrino, di Evodio o Fuodio che nel corso del tempo si era mutato in Odio.»


Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia, invero, gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:

*                     Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([4]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta in mano della madre e della vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo che risulta il terzo dei Del Carretto con siffatto nome. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([5]) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([6]) ed intentando contro di esso, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante scomunica.


La faccenda del terraggio e del terraggiolo è molto ingarbugliata ma non collima con la versione sciasciana. L’analisi della ponderosa documentazione del Fondo Palagonia potrà dare filo da torcere agli eventuali studiosi di diritto ed economia feudali, con specifico riferimento a Racalmuto: è materiale degno di una qualche tesi universitaria. A dimostrazione del nostro assunto, ci limitiamo a riportare in nota un documento del 1738 .[7] Ma l’intera controversia che dura dal 1580 al 1787 va seguita in tanti documenti del Fondo Palagonia. Una ricognizione piuttosto analitica, ma limitata alla contea del Gaetano è contenuta nelle carte segnate:  A.S.P. - fondo palagonia  - atti privati . n.° 631 - anni 1502-1706 - n.° 3 - p- 173-240, che sono ben 64 fitte pagine. Abbiamo stralciato, in nota, solo la parte che ci pare riassuma il veridico svolgimento dei fatti, che non ci pare confermino le tesi di Sciascia.




*   *   *


Andrea d’Argomento, arciprete di Racalmuto ed esaminatore sinodale ad Agrigento, è il dottore in utroque iure che nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale. [8]



Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.

La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.

Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di Racalmuto, e non solo quella religiosa. [9]



Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV Del Carretto - don Vincenzo Del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.

La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S. Margaritae  depictum in tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).

Don Vincenzo Del Carretto era stato colpito l’anno precedente dal lutto per la morte del padre (5 di  maggio 1608); aveva raccolto il fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e sarebbe toccato quindi a don Vincenzo essere Conte, ma escludeva i figli illegittimi, e don Vincenzo così era escluso, con suo scorno a la faccia di lu munnu).

Don Vincenzo è il tutore del conte minorenne: nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo II Del Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma che tra l’altro recita:

Sotto le quali convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno campato ed osservato per insino all’anno settima indindizione prox: pass: 1609, nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e consenso del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia Monarchia protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione di rato, devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio confirmato per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero detti deputati à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo scuti trentaquattromila infra quattro mesi, e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò rendite tuti e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con diversi patti e condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di detti terraggi e terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e per contra detto tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali ci relasciò e renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti trentaquattromila, promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di detta università di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare per detto contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio settima indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio

A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni feudatarie.

Investigando i processi d’investitura emerge che don Vincenzo Del Carretto esercita questa funzione tutoria sino al luglio del 1610. Ma da questa data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a Beatrice figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero del conte, come si evince da questo stralcio:

Reg.tus Panormi die 3 julij viii ind. 1610

Testes ricepti et examinati per ill.m Regni Siciliae Protonatorum ad instantiam d: Jo: de Viginti Milijs, Marchionis Hieracij, Principis Castriboni, balej et tutoris ill. d. Hieronimi del Carretto Comitis Racalmuti ad verificandam infrascriptam pro investituram capiendam ditti comitatus.


Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse il breve legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo diremo dinanzi a voi stelle pudiche.) Negli atti vescovili troviamo questa singolare “littera monitoria” ([10]):

«Die 3 septembris VII ind. 1622 - Rev. Arc: terrae Racalmuti. Semo stati significati da parti di donna Beatrice Del Carretto e Ventimiglia, contissa di detta Terra, nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto, tuturi et tutrici di li figli et heredi del quondam don Geronimo lo Carretto, olim conti di detta Terra qualmenti li sonno stati robbati, occupati et defraudati molte quantità di oro, argento, ramo, stagni et metalli, robbi bianchi, tila, lana, lina, sita, capi lavorati, come senza, et occupati, scritturi publici et privati, denegati debiti, et nome di debitori; rubato vino di li dispensi, animali grossi, stigli con arnesi, cosi di casa .... In suo grave danno, prejuditio, et ... In forma comuni etc

Sembra, dunque, che dopo la morte del conte avvenuta il due ( e non il  6) maggio 1622, una rivolta popolare sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello ed il popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che pure era mera espressione dei Del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo che avrebbe imbandito in modo più succulento la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei racalmutesi nell’estate del 1622.

Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a sorprendere il prete don Vincenzo del Carretto: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella chiesetta perlomeno sino 1902: il prof.Giuseppe Nalbone ha potuto stilare questo quadro sinottico:


1609
VINCENZO
DEL CARRETTO
FONDATORE DELLA CHIESA  DELL'ITRIA
1632
SANTO
D ' AGRO'
BENEFICIALE DELL ' ITRIA
1677
STEFANO
SAIJA
BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
1731
PIETRO
SIGNORINO
BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
1736
PIETRO
SIGNORINO
CAPPEL. ITRIA
1782
NICOLO'
AMELLA
BENEFIC.S MARIA DELL'ITRIA
1830
CALOGERO
PICONE
ER.SIGNORINO, CONF, UTR.CH. ITRIA
1902
GIOVANNI
PARISI FU VINCENZO
MARIA SS. DELL' ITRIA


Don Vincenzo Del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([11]) Secondo il profGiuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:


1613
PIETRO
CINQUEMANI
RETTORE  e  poi  nel 1614  ARCIPRETE


Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).



Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con la bolla che abbiamo dianzi illustrata; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese; inizia sotto di lui la controversia per sottrarre Racalmuto dall’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:

dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr., 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur  et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»

Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].”  Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda,  così ce la racconta il Pirri:

«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»

Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi  - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ...  Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.

Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea ([12]) - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere un atto notarile del tempo,  per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:

Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: doct. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti

E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali. ([13])



Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.

Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.


A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. GiuseppeCicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637)  dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vuole assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis. 

Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Tommaso Traina. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don GiuseppeTraina che nel 1939 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645 e nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato parte dei pretesi diritti mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo. Il convento dovette però sorgere e completare per la dotazione di altri benefattori che ignoriamo, e soprattutto per interessi di mora capitalizzati, dovuti dalle Tavole di Palermo.

Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.

Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragioneristico.

 Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò.  Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie  è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbramiento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra di coglierlo nei nostrani scrittori, passati e presenti. 

Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro, d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia ecclesiastica di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.

Il 30 agosto l’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:


1648
TRAIJNA Arc.
Thomaso
Matrice
gratis


ed il cappellano detentore dei libri annota:

Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis

Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.

Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.


*   *   *

Al Traina subentra nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia. Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro Sammaritano. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare.  Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nomeGiuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie e la mamma dell’infelice Giovanni V Del Carretto. Si annota in censimento:


LA CARRETTA XXa
ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA  C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA  BEATRICI CARRETTO C.TA


La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono gli atti di questa emblematica vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.

Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna  di don Lucio Sferrazza.  Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:

Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........  onze -/ 12.


La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì. Donna Maria Del Carretto e Branciforte è indebitata sino al collo: il 15 dicembre 1654 può dare solo un’onza e 18 tarì delle cento onze promesse. Annota il contabile:

15.12.1654:  dall'Ecc.ma sig.ra D. MARIA DEL CARRETTO e Branciforte Contessa di Racalmuto hò ricevuto onza una e tt.ri (tarì) dicidotto in conto delle onze cento have promesso d'elemosina et l'ho ricevuto per mano di Giuseppe di Chiazza e di Antonino Morreale di Lucio  d........-\                                                                                                                               1        18


La posa in opera delle colonne  - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.

Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:


1664
SAMMARITANO
Pompilio
ARCHIPRESBITER
66
huius matricis Ecclesie


Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.

Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.

E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice[14]Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.

Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’ amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi fedelissimi a Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di  applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu  di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica). Se un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).

Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’apertoa li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.[15]


Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accampagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito: “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).


L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. In altra sede abbiamo riportata la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono  le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.

Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof.Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne ottenne la nomina di mansionari.

Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo;  e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi rastremata la tassa del macinato per morte di un un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III Del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V Del Carretto, dalla mala gestione dei  suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie del pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sei sorelle, aveva dato in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo ([16]) l’intero patrimonio dei conti di Racalmuto.

Girolamo III Del Carretto, esasperato, si rivale sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana:

 contra ed adversus Reverendos Sacerdotes

             don Fabritium Signorino;

             don Sanctum de Acquista;

             don Joseph Casucci;

             don Joannem Battistam Baera;

             don Petrum Casucci;

             don Calogerum Cavallaro;

             don Franciscum de Agrò;

             et don Michaelem Angelum Rao,

indebitos possessores;  [17]


Girolamo III Del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.