domenica 29 gennaio 2023

 Il Garufi annotò - commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « ....  l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tut­tavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».  ([13]) Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ([14]). Il Rachal Chammoùt (  xammon) del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto.  E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant  domino illius agri extructum...” ( [15]) «A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento,  da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice.

Svanisce così la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte ([16]). Il Vespro ci mostra un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei sindaci fra le persone  più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ([17]). Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([18]). Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor»  ([19]) cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando costui non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([20]) Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. ([21]) Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
Fu a seguito dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ([22]) Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge  maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro Antonio,  Gerardo e Matteo del Carretto. ([23]).
La narrazione sinora soltanto abbozzata  tende  ad additare un punto per noi basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.
Francamente non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia  secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ([24])  Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack Smith ([25]) - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani. 
E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503,  così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse  per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro di lettura: è solo  sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed  i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di seguito.
Lo studio cui ci accingiamo  ha l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti e ricerche sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da tutti  - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero  del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?
 Francamente credo di no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias  e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua colpa.
I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da rendere talora irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero,  lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo.  In ogni caso l’uomo invita  al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Abbiamo potuto fotografare interessanti documenti dei primi anni del Settecento ove figura il timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.

*  *  *
L’intreccio del volume che presentiamo utlilizza fra l’altro una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sino ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo la magistrale opera di Fernando Braudel  su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.
E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torino o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.
Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile locale.
Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente  ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri dominicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta”  della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.


*  *  *

Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla Matrice di Racalmuto, no.  Solo una mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana  il 24 aprile 1879. ([26])

*  *  *

Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana  - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede,  ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo l’insinuazione di Sciascia fu fatto trucidare dal monaco – il conte era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea (e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei,  una Ventimiglia.
(E tanto grazie a recenti scoperte d’archivio. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel  Cenobio di S. Lorenzo il   28 ottobre 1654).

Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una leggenda di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa  SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:  Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo

Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.

*  *  *

Se poi consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia: Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).  
E dire che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto sacerdote  - atto transattivo che si conserva in Matrice -  per fugare tali infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al primo ventennio dell’Ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.

Nessun commento: