I NORMANNI A RACALMUTO
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristianesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta ancora contraddittorio e,
spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni
religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla
Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in
Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei
saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle
popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i
normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infedele hanno avuto
il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in tempi
molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i papi atteggiamenti di
distacco con punte di indifferenza, patteggiando e pretendendo benefici e
concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa
"legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero,
avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce
non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse -
dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a
quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([1])
L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i
normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità
di Ruggero II. Il Pontieri, nella
elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza,
esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia
Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i
mercanti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come
combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per
entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la
spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa,
attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano
più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith
dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei
combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma
la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati
saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa
dinastia». ([2])
* * *
Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di Racalmuto
saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia normanna e
non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli
indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella conquista
normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di
allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis
ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo
nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo ..
Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino
in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.» ([3])
* * *
Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso
un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il
demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise
di islamismo, sembrò sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi
decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di
Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era
appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni
da seminare ben coltivati.» ([4])
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei
rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che
dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che
puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA
APOSTOLICA desta nuove perplessità. ([5])
Del resto in Sicilia,
mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro
religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri
greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni. Si rese, però, subito conto che ciò non
bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico.
Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita,
in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in
secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture
ecclesiastiche. Le sole in grado di coordinare
le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita quotidiana della gente e di riconfermare e
rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo
di protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.» ([6])
Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni
l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua
fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma
non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un
apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni
modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia,
allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu - ripetiamo
- il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto
saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da
Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe
notizia di essere incluso nelle pertinenze della neo
diocesi di Agrigento, affidata al
vescovo francese Gerlando.
Nell'anno 1092, [7] dopo cinque anni dalla conquista del territorio di
Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo
Gerlando. I confini della diocesi
sarebbero stati definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino ([8]), può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le
sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine, e dalla foce di questo fiume là dove cade in
mare si estende questa diocesi
lungo il mare sino al fiume
Torto; e da qui, da
dove sorge, si estende verso Pira, sotto Petralia; quindi
sino al monte alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira;
poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di
Petralia e da questo punto i confini
della diocesi seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini della
diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i
confini con Mazara, e da qui raggiungono
Corleone, da dove inizia la
delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato
paziente nel seguire il zig zag dei
confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al di
qua del Salso, venne in quella bolla assegnato a GERLANDO,
un vescovo santo ma sempre un padrone,
un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto steriotipo di uomo
di nobile prosapia, bello, alto,
biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede
gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti
ci appaiono più circospetti. In base
alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della
Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra
lecito nutrire dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo
ebbe subito fama di santità, come può
arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove
si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua
facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto
per quel che ci riguarda - si parlava da
secoli arabo e solo arabo. Forse
residuava un uso del greco nei ceppi antichi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale
lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava
di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come
ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche
inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre -
24 dicembre 1092) - una falsificazione in
forma originale, secondo il Collura
- accenna a nobilati
francesi già presenti in Agrigento, a
concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti francesi da
beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi ed un
cavallo. Su tutto
vigila il vescovo Gerlando,
mandato da un Rogerius
che ci avrebbe redento da
'demonicis ... ritibus' da riti
demoniaci (che pure era la grande religione di Allah). Emerge il nome di un francese: Pietro de
Mortain (nell'originale, invero, Petrus
Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de
Giorgis ma scritto con una gamma greca
nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a colpirci, è il richiamo allo strumento
giuridico del privilegium
che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio
'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas',
probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche
interessati alle cose terrene,
tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica romana vi traspare, ed era passato appena un quinquennio
dalla conquista normanna sui
saraceni, che ora sono, come si è visto,
villani, schiavi ed oggetto di pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera
diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non
esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche
consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si
trovasse nel circondario di Montedoro (più propriamente a Gargilata come
recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare); il secondo andrebbe
identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere. Nelle precedenti pagine
abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro
in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto,
prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una
chiesetta a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant,
crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.
Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel
nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti
medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il
diradamento del fitto buio che oggi ci angustia.
Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con
la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima
erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli
arabi, che vengono denominati saraceni.
Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le
cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che
durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di
I. Peri). Contadini islamici, miseri e
schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili,
dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai
racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108
(non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della
colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio
di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni
venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto
diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel
1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano
cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è
Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può
esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito
esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il
proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era
stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’
Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la
causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
La genesi del feudo di Racalmuto
Ripuliti gli esordi feudali dai vari Malconvenant,
Abrignano, Barresi e Brancaleone Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca
che risulta primo proprietario del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era
costui un immigrato che per abilità propria o per successione poteva disporre
di tre centri nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci
riferiamo all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di
Napoli [9] e precisamte a quello che reca il n.° 209 il cui sunto recita in
latino:
Executoria concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE
mil., quorundam casalium in pertinentiis
Agrigenti, vid. Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia
olim fuerunt Frederici MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti
per obitum sine liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus
Fridericus incolebat. [10]
Era dunque un’esecutoria della concessione che veniva fatta
da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti
nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro
Racalmuto, chiamato - non si sa per errore di trascrizione o per più precisa
denominazione - RACHALCHAMUT. Quei tre casali erano appartenuti (olim) a
Federico Musca che Carlo d’Angiò considera un traditore. Quanto al passo
successivo che investe la storia di Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo,
è questa la data di nascita della storia racalmutese, almeno fino a quando non
si trovano altre fonti scritte o archeologiche. Per quel che abbiamo detto
prima, gli esordi racalmutesi medievali possono retrocedersi di una ventina
d’anni, ma non di più.
Un Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna
Saba Malaspina colui che l’Amari considera “diligentissimo cronista” [11] per
non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di Bartolomeo di
Neocastro, del Sanudo. [12]
La vicenda viene dal Peri [13] così sintetizzata ed
interpretata:
«Federico Mosca conte di Modica acquistava benemerenze in
guerra. Nel novembre del 1282 passò in Calabria e conseguì buoni successi con
una comitiva di 500 almogaveri (le truppe a piedi che nel corso della guerra
del Vespro prospettarono la validità dei reimpiego della fanteria, che sarebbe
salita a clamore europeo a non lunga distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»
E successivamente (pag. 46):
«Se la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa
che vigorosa, se la cavalcata di re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani
a Palermo, a Messina, a Catania, fu più prudente che difficile, il conflitto
poi si spostò prontamente fuori Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico
Mosca portava la guerra in Calabria.»
Annota, peraltro, l’Amari: [14]«Il Neocastro, cap. 56,
accenna anch’egli ad una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona.
Dice mandatine 500 presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro
il dì 11 novembre mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea,
che si era data a lui. ...»
Se Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di
quello del diploma angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo
l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri,
neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che (pag.
31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero
Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella», quello che avrebbe
edificato il nostro Castelluccio.
Ma a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il
citato diploma angioino? Non abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo quindi supporre
che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla falsariga del
racconto dell’Amari.[15] Le truppe angioine riconquistano il castello di
Licata, che era stato assediato dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel 1269
si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone
di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a poche città
che gli prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine
degli Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a combattere per Carlo con la
scusa che stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di
ventura e crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi
d’aprile del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava
solo di conquistare Lucera per fame, combatté di persona i Saraceni e si
accinse a riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò
due volte il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de
Beaumont, poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini
del solo D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart,
ed indi di quest’ultimo soltanto, fu
mandato per sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un
feroce capitano che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di
colmarlo di ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele
della stessa crudeltà, assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap.
XVIII).
L’Estendart condusse nell’isola millesettecento cavalieri
con grande numero di arcieri e vi furono associati oltre 800 cavalieri che
stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri. Ricominciò davvero la
guerra.
Quel condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di
Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da
Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli,
chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e
Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal
terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in
porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince
del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la
morte dell’Estendart e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di
certo dagli Angioini sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni,
de Beaumont, poiché ricaviamo che egli riscosse le taglie pagate da vari comuni
invece di mandare uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali
genovesi che Sciacca fu conquistata dagli Angioini.
Anche Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista
di Sciacca, che vi avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti
da varie parti, riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento,
Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò
ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo
di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200 cavalieri toscani che la
difendevano valorosamente. Il re fece costruire apposite galee per
quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre 1269. L’ordine era di
passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città. Essa fu presa per il
tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una porta. Guglielmo
d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza, né ragione
d’uomini alcuna.»
Cessata la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise
nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico
di perseguitare i traditori e confiscare loro i beni», annota l’Amari. [16]
In tale frangente, ebbe dunque a verificarsi lo
spossessamento del feudo di Racalmuto che dal “traditore” Federico Musca passò al fedele - estraneo e
francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont
che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri
fragelli s’aggiunse la fame. In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano
salì a cento tarì d’oro la salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a
quaranta tarì, che vuol dire nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al
doppio o al triplo del valore ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato
coinvolto in quella sciagura: le sue ubertose terre avranno fornito pane a
sufficienza. Ma il nuovo signore de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa
per le solite speculazioni granarie. Si pensi che anche la vicina Milena -
all’epoca chiamata Milocca - finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di
Bellomonte [17] di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone
di Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di
Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. [18] Non pensiamo che il
conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre,
site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo
amministratore. Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini di origine
araba, usciti da non molto tempo dalla condizione di “villani”, una sorta di
schiavitù a mezzo tra la servitù della gleba e la remissiva subordinazione
della fede cattolica, vigile nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per
il noto aforisma “omnis auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien da Dio. Ed il
lontano Negrello era pur sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava
ubbidirgli e basta, come al ribelle conte di Modica.
Racalmuto durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo
qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i
Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle
sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una
fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni
dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i
racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi
a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia
- sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio
possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in
chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni
del francese Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina. [19] Il
Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie
là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico
siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il
francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme
della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed a noi Racalmutesi del Duemila, il culto dei Vespri ci è
stato inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto
quadro raffigurato nel sipario del teatro comunale. [20] Leonardo Sciascia -
che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua cerebrale superfetazione
sul mito del Vespro. [21] Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del
Vespro], che per lui non era un mito ma la storia stessa nella sua specifica
oggettività, Amari difese sempre: ma certo rendendosi conto che più si
confaceva al carattere della riscossa nazionale che si andava preparando ed al
sentimento e al gusto del tempo, quell’altro della congiura dei pochi che
accende il furore di molti.» Da parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti
della storia servono più della storia stessa - ammesso possa darsi una storia
pura, oggettiva, scientifica.»[22] Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre
Sciascia che parla [23] - che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per
negare la congiura - di documenti, di circostanze concordanti e discordanti -
la più persuasiva resta per me quella che dà come siciliano che conosce i
siciliani: e cioè che nessuna cosa che è preparata, può avere successo in
Sicilia. In quanto non preparato, ma improvviso e rapido e violento come una
fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non
si avvertirono neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di
ribellarsi. Al padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico,
predatore - era subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano,
fiducioso nei suoi messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi
fu: in termini di libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato,
dopo il Vespro, il grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi
tornarono comodi il caos amministrativo e la rapida fuga dei loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre
del 1282, poterono lavorare i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire
alcunché con il padrone, immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10
settembre 1282, arriva da Palermo una missiva [24] indirizzata “Universitati
Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine dell’aragonese re Pietro
a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri: una richiesta da
sbalordire, visto che i locali non avranno capito neppure che cosa s’intendesse
con quel termine latino di “archeorum”. Ma era una richiesta che un senso
esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni ritornavano
in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angarie e sudditanze,
non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di
Federico II di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro
Altipiano un certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità
trattasi di marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappresaglie
della persecuzione religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti
tali per necessità mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che
quella specie di schiavitù è tramontata, ma la loro condizione sociale ed
economica è molto simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso
coincidono con la disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel
territorio a strapiombo sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva
fisionomia di abitato trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il
pagliaio a sopperire alle necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il
pagliaio - scrive il Peri non ad hoc ma pertinentemente [25] - non richiedeva
scavo in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano
in grossi pezzi sovrapposti “a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La
costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia.
Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le
bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle
intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole.
Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et
calces), anche nelle città erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di
ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata
secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa
dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e
l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente
offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche
dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e
al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con
rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle
generazioni.»
Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti
che i successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo
ebbe a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di
Pannella incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle Bottighelle dell’attuale corso Garibaldi, tra S. Pasquale
e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre quartieri: San
Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la
chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una
chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni
del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte
scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed
anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta del secolo scorso,
parlano di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di
diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale
di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il XIX ed il XX
secolo per la nota questione delle decime della mensa vescovile agrigentina. Fu
un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le ragioni dei grossi
agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche tassazioni
ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica, tutti alle
prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e quindi di
gravami ancora validi.
Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta
dal concordato del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche
propinata dal consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo
Mons. Paolo Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi.
La pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere.[26]
Noi siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria
di Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese.
Vi sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della
fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la
località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
Si riferisce evidentemente ad alcuni di codesti diplomi, il
Pirri nel fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde
nota lo stesso Collura ([27]). Ma come si può ben vedere, sia per le
precisazioni del Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, si
tratta di Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va
senz'altro escluso. ([28]) E’, poi,
certo che Racalmuto non appare mai in modo incontrovertibile nel carte
capitolari di Agrigento che vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è
chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro
paese o ad una sua indipendenza fiscale nei confronti della curia agrigentina.
Noi, come detto dianzi, propendiamo per la tesi della tarda fondazione del
paese di Racalmuto, qualche decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo
soffermati sopra.
Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri,
si sbriciola la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il
Capitolo II ed il III [29] che contengono notizie sulla "signoria dei
Malconvenant" e su "Santa Margherita Vergine" che
corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono destituiti di
fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza
dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da
Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di
Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle
sue notizie sui Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della
Not. Agrig. [30] Il Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi
corrispondenti del Capitolo agrigentino. Nasce così il falso storico di una
chiesa racalmutese intestata a S. Maria di gesù, risalente al XII secolo.
L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra
Martorana [31] ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie storiche su
Racalmuto e non sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle.
Malconvenant e chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria sono
usurpazioni storiche cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che,
ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso
narrando:[32] «frutto della rinascita
normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì l'investitura
di signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che dopo venti anni
dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il titolo di S.
Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola di fondi
agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca l'erezione
della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del Vescovo
di Agrigento, Guarino (+1108)» ([33]) Il
mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita
vi incappa or non sono più di una ventina di anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle
che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone
Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiolo della
rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana [34] che nella lotta tra
Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni filofrancesi «Giovanni
Barresi, signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi
vasti vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro,
volse le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del
1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva seguito la fortuna dei francesi,
e durante il loro dominio era stato in auge, ebbe la peggio allorché vennero
fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu spogliato dei suoi domini, che
passarono al reale patrimonio. Così la baronia di Racalmuto appartenne per
qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che
dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto,
appunto. Il colto storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere
ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita
Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto
costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia -
responsabili Vito Amico [35] ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile
[36] -
su un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello.
[37] Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto [38]: Matteo Barresi succede ad Abbo, che
aveva ricevuto da re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo
d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà
perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono
i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta
tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a
Racalmuto le vicende avventurose di quella famiglia.
Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci
pare di avere fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei
nostri convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei
Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere
se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.
Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina
questa successione:
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia perché questa
famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse caduta la
fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici. Ciò che è
indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re Ruggiero,
concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli Abrignano
[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli Abrignano però
non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto, fu per breve
tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E tanto è davvero un
modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come “indubitato”, diviene
subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe essere consentita - “non
sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a definire quella del Martorana
“una buona storia del paese”. [39] Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49)
non ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero
II concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad
Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il
Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.»
Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto
il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano
letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo
Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla
famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel
Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam
fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che
nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. [40]
Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant,
Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel
1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare
pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei
Barresi.» Un evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere
una precisazione e diviene invece una colpevole topica.
Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran
priorato” [41] : raccolse le dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro
ascendenze nobili. Essere nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi
fra quei frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633
asserisce - in buona fede o fraudolentemente, non sappiamo - che un suo
antenato era: «Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani,
e Regio Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità era talmente
evidente da non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il Minutolo non
se ne accorge ed incappa in una smentita a se stesso, quando trascrive l’albero
genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di
Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto
da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto
dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma
già un altro dei due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di
Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico antenato come
semplice nobile di Trapani («Enrico
Abrignano Nobile di Trapani»).
Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto:
forse una qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante”
Enrico Abrignano, attorno al 1391.
Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero
abbiano avuto il dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se
il padre Aprile, scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi
affermativa. Si disse che Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130
dal re Ruggero il Normanno vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a
Matteo; da Matteo a Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San
Martino Spucches resta sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie fornite
dal Villabianca. Si limita allora a questa secca elencazione: «Il Villabianca,
nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo Barresi (Sic.
Nob., vol. 4°, f. 200). Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico
II concesse, dopo il 1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio
di Giovanni (di Matteo di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio
Matteo: al quale successe Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi
visse sotto Re Giacomo di Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello
di Giacomo divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli
confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi cominciamo
da questo momento ad elencare i Baroni di Racalmuto con numero progressivo.»
[42] Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni,
ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che
avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a
quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo
III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio storico
distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia, Naso e
Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo
escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi
possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca,
cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il
passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra
al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella
ben nota crisi di fine secolo XIII – poté essersi pur verificata la perdita da
parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli
altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari, nella sua
guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre 1300
(1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto e
Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. [43] Ovviamente si trattò di
promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di
sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni
Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera
di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto
di confiscare il feudo ad un amico per prometterlo ad un altro amico.
Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la
concessione a Pietro Negrello di Belmonte
e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di
Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con
quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto -
come detto - giunge la prima stangata fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il
nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire
la pillola inviando al nostro periferico casale un resoconto delle sue recenti
imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene
importava nulla di sapere:
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. [44] Re
Pietro dopo aver enumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uomini tutti di Adrano
le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e
raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in
Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due
fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano a
prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i
cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lancieri, scudati si rechino, con armi
e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di
là del fiume Salso.»
«[......]
Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.
« [...] [45] Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento,
Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea,
Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya,
Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene
chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva:
dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva
parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al
baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti. Perché mai questa
resipiscenza? Evidentemente, la base imponibile che era stata calcolata a
caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi
tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una
tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20
fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra
che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro
l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456.
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282
si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto
aspettato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che
quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”.
Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra
fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto,
come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti
“corporalia iuramenta” della debita
fedeltà e dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” e si inviino davanti al
cospetto della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci
il paese pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri,
balestrieri, arcieri, uomini armati di
tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e «vengano presso di noi Re
Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi
entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno
disubbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.»
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia
accorato quei siciliani del 1282 dinanzi a quelle pretese del nuovo padrone.
Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello
sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure
quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa
sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari
che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla
non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse
e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria
apportava.» [46] E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che
davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che
ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come?
Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era
ma pericolo per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi
calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e
“prosecuti”?
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono
adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500.
Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si
era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il
farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano
di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella
lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del
7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni
feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come
non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a
Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una intenzione, non potuta in alcun
modo realizzarsi. Anche la notizia (secentesca) di una assegnazione feudale di
Racalmuto a Brancaleone Doria, è frutto di un plateale falso, ostando
irrefutabili ragioni cronologiche.
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che
costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la
vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno
agli anni trenta del XIV secolo.
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di
Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di
Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di
Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio.
Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro
I.[47] Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il
Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che furono gli Aragonesi nel governo di questo Regno,
appare in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo
MOSCA, quello stesso che fu Governatore
della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose
a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che
associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott.
Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice -
Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus
est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis,
et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovato, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di
Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli
conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de'
suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia
di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti
Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato
Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui
fratello (a) a.» [48]
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque,
libero, ma subito soggetto, agli
appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del
10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi dell’epoca dovettero adunarsi
per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco
i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei
patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti
storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de
Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta
dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone.
Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria
- quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal
Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del
Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Interlocutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul
riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva
dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il
suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di
Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti:
nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti»
recita un documento in quel torno di tempo.
[49] Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le
terre e i luoghi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro”
(vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed
i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite
giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare maestri giurati di sua
fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non
volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese,
dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata»[50]. Per di più, il 20
ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che
aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a
Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli
abitanti nel possesso dei loro beni. [51]
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione
straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a
Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai
sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi
tesorieri.»[52]. Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con
provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non
risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto. [53] Questi contadini
dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15
novembre 1282, s’ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti,
sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione
sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per discutere,
con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Salto, la
controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni,
circa alla promessa del sussidio.»[54] Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo
ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala
di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là
del Salso.»[55] Racalmuto risulta tassato per 15 once, [56] preceduto da:
Licata:
unc. 238;
Delia unc.
3;
Naro unc.
166;
Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;
Tusa unc. 2;
Misiliusiphus unc. 4;
Sciacca unc.
250;
Calatabellottum unc. 122;
Agrigentum
unc. 380.
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose:
Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una
cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella
sua storia del Vespro, ne fa quasi un diuturno resoconto. Ancor oggi è viva la
polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi
nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un
indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una
nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di
essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta
fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace
conquista di un rappresentante dell’ «avara povertà di Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò
scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31
marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così
irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è
tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per
l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il
terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San
Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili
(insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su alcuni rotoli di ceci del
vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure
significativa conoscenza.
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della
ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona;
non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola;
subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi
quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona
cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende
dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio
del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o
III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i due potenti
fratelli (Federico e Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi
delle scomuniche papali, in loco non se ne intuirono le ragioni; i racalmutesi
non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano
nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di
propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e
guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a
Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un
mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei
campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con
fertili nozze.
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a
due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà
rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri
per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le
registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato
sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro
«Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96
abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto
solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la
chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del
1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo
sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix.»
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso
corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di
Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il
Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia
non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività
dello scriba pontificio.
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due
sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e
non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della
chiesa di S. Maria, ed è chiamato a
corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il
“prete” Angelo di Montecaveoso, ed è
tassato per nove tarì in relazione
all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non
sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la
chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati
alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”
Angelo de Montecaveoso [57] ha tutta l’aria di essere un frate: parroco
di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che
dovevano essere di poco più di un terzo rispetto alle ricche prebende di chi
era titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà
molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni
Gemini, etc.).
La chiesa di Santa Maria era talmente ricca, dunque, da non
potersi ritenere soltanto un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa
dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico
agrigentino, e da qui poté nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta
documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma poté trattarsi anche
di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo
agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto
richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra. Da qui, quel convento benedettino cui accenna
Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».
II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che
trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna
concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo
Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag.
50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano
di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti.
Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora
c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande
edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la
terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del
donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un
testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 )
ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI
- 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et
Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de
suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo
libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S.
Benedetto in termini del tutto critici. Non sappiamo quanto di valido ci sia
nel pregevole lavoro di padre Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo
di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi
del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della
tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in
ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in
quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste
imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo
M. Morreale [58]. A Casalvecchio, già
alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento
bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse
su Racalmuto e cioè:
«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine
arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il
luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama
Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una
carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. » [59]
I dati che possiamo ricavare dalle tavole delle collette
pontificie del 1308-1310 non consentono fondate ipotesi su un grande sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desumere (Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa
rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte
papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì non erano poi pesi intollerabili, ma pur
sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva
dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si
sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
Unciae
Tarini
Granae
Summa
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le
decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
261
4
8
261,4,8
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le
decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
87
22
10
87,22,10
Differenze
173
11
18
173,11,18
Differenza in percentuale
197,58%
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il
doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per
un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310;
indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono il canonico
agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese,
il francescano Marco d’Assisi, [60] ebbe dal collettore Pasquale solo 20 onze
d’oro. Che fine abbia fatto il resto non sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo
note che attengono allo stato dell’intera diocesi di Agrigento: nulla che possa
in qualche modo illuminarci direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa
doveva però avere un certo ruolo. In ogni caso era saldamente incardinata nella
diocesi agrigentina, sotto l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio
1275-76; dopo, pare sia subentrata la sede vacante, affidata al sostituto
Gualterio. La vicenda dei vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di
Racalmuto. Nel 1271 (28 gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra
Guglielmo de Morina: fu una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento
feudale racalmutese: il Musca viene privato del nostro casale che passa, per
ordine dell’Angioino, al partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2
giugno), sale sulla cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino
al 24 giugno 1276. Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostituto Gualtiero. Dal
12 maggio 1280 al 23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di
Capaccio il 23 agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo
di Labro (10 dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha
sconvolgimenti rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano
il territorio in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene
trattenuto da Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede
dell’insediamento attivato dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto
Federico II (ma di ciò, più a lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i
cui riflessi sul vivere civile e sociale sono di tutta evidenza - si
irrobustisce: cessa l’evanescenza dei primordi; ora abbiamo una potenza agraria
attorno alla chiesa di S. Maria, oltremodo tassata dal papa (come si è visto);
figuriamoci dal presule agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto
facoltosa: il suo parroco (presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce
l’angheria pontificia di un balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo
l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o primizie. I racalmutesi vengono a
subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli
d’indole feudale non li conosciamo. L’imposizione diretta pretesa dai nuovi
regnanti è greve e di essa abbiamo solo gli echi di quella che fu la politica
fiscale del re Pietro, il primo assaggio dell’avara povertà di Catalogna.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO -
L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio
del secolo XIV. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del Trecento, l’attuale
fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio
era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci
forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un
piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco
riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni
modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un
avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da
costei sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante
titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento
secolo XIV. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita
dell’arrampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima -
secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato
in un libro secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine Siciliana. Forse
davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del
Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di
sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta,
a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico
II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito
Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri
ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su
Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui
datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che solo negli anni ’novanta del
trascorso millennio chi scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi
archivi di Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in
quell’investitura, scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente
trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli
nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare i
limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti: difficile
credere a quanto vi si afferma nei confronti di Giovanni, figlio del cadetto
Matteo del Carretto; traluce invece una realtà ove si scorge la rapacità di
codesti esattori delle imposte dei Martino, quei Martino che risultano più che
altro gli avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono
sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali
esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra
storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari
storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri
compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il
costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per raccogliere presso gli
archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella
documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi
d’investitura - venne riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta
canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono -
ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima
di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi
fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle
propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati
omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli
vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani.
Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità
inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora
esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente
policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio, consueto per
l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso la fine del Cinquecento - dopo
un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia
di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di
Racalmuto; mancano però l’obiettivo cui particolarmente tenevano: quello di
riconoscere il titolo di marchese che in esordio della loro signoria su
Racalmuto avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto
sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed
un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo
pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del
castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona -
veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello
Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potentati dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III poté detenere il regno di Sicilia per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungo periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith smitizza: «in realtà, - scrive lo storico inglese [61]-
interessi egoistici prevalsero in questa
guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattuali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, che se ne ebbero solo distruzioni: anzi, sviluppo
demografico, lavori pubblici per fortificazioni, profitti da
commercializzazioni del grano, necessario al vettovagliamento delle parti in
guerra, sembrano i connotati affioranti da questo travaglio della storia
locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”:
gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un
cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra
ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo
di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare
nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri
difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non
convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di
là a venire.
Il dotto Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si
limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro
fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a
cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il
villaggio di Canicattini.» [62]
Dal passo si evince che lo storico di Sciacca comunque non
aveva dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico
Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non è poi del tutto chiaro,
potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il capostipite della famiglia, nel
qual caso la datazione della fondazione del Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto
la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per
abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili infeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in
coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto
erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio:
c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. [63] Per il
San Martino, dunque, «IL FEUDO DI
GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi con
l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di
Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia
Chiaramonte, dove Manfredo vi costruì la fortezza; in ultimo lo possedette
Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a giugno 1392
sotto il suo palazzo, detto lo STERI, ebbe tagliata la testa.» Una qualche
astuzia stilistica cela la confusione in cui si dibatte il peraltro avveduto
araldista. Con franchezza, dobbiamo ammettere che nulla di certo sappiamo sulle
origini del Castelluccio: solo a partire dalla fine del secolo XIV possiamo
essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare ed incerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto sulle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli,
quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.
[64]
«Decaduta la famiglia Barrese - scrive il frate di Lucca
Sicula - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu concesso a Giovanni Chiaramonte
Barone del Comiso. Federico secondo di questo nome terzogenito di Federico
primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello tutt'ora in gran parte
esistente. Onde si rifiuta l'opinione d'alcuni che pretendono il Castello
costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri confermano la nostra
opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino all’anno 1307 passando,
pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone Federigo con Antonio del
Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben
poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente al presnto dominio dei
Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto Giovanni
Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del lucchese
sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di
Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è
detto che Racalmuto venne alla corte di Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto
e siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva
poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a
giungere in loco. La famiglia agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i
loro occhi a queste terre alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il
territorio del Castelluccio (ma non è certo) e poté benissimo munirlo di una
fortezza; il fratello cadetto Federico II si dichiarò padrone del casale e
dell’agro circostante, non mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure
nella sua embrionalità costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri
cilindriche in quel tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle
maestranze fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la
fondatezza della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri
scavi archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i
ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri
dovessero significare presenze abitative o necropoli medievoli antecedenti al
XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono angusti per
configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri [65] e noi ci accodiamo in tutta umiltà: «Fu alle soglie del
secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi, mancò un controllo inibente da parte
della monarchia, e le concessioni si moltiplicarono, che i loro feudi e la loro
influenza si allargarono; e fu proprio allora che entrò nella vita cittadina un
ramo dei Chiaramonte. Prima, per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il
sopravvento, e particolarmente nelle vicinanze della città, non ebbe larga
parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di
valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valore atto a «infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei
primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges [66]
che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile matrimonio [ e cioè da Federico II
Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza unica figliuola, che nel 1307
nobilmente si casò con Antonino del Carretto; Marchese di Savona, e del Finari,
con ricchissima dote e facendosi il contratto matrimoniale in Girgenti
nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à 11. di Settembre 1307
doppo ratificato in Finari l'istesso anno, come riferisce Barone, [De Maiestat.
Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel suo libro: l'istesso
che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre 10 Ind. e poscia
publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro di Patti con tali
parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus
bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem Nobilis Domini Antonini,
Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae haeredi meae, eius
filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen, quod si forte, quod
absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno impleverit; quod ipsa
haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte
Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur.
2. Venne Costanza per la morte di Federico Padre ad esser
Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo
Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione
della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri
d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta
famiglia Del Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per
l'immatura morte d'Antonino suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi
bella; nel fiore della sua gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con
Branca, altrimente detto, Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia
nobilissima di Genova; e che nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna:
Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui
descese Mazziotta, 2. Matteo, 3. Isabella; moglie di Bonifacio figlio di
Federico Alagona; da cui nacquero Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta
fù Marchisia; che fù moglie di Raimondo Villaragut, delli quali nacquero
Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel quinto luogo nacque Leonora, moglie di
Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la 7. & ultima si fù Genebra.
3. Costanza,
restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo
prima fatto il suo testamento, e publicato il 28 marzo 1350 nominando suoi
esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano
Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la
disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la
testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si
specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il
riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. [67] Si tratta dell’atto transattivo in cui Gerardo cede al
fratello Matteo del Carretto, a titolo oneroso:
«omnia iura omnesque actiones reales et personales,
universales, directas, mixtas perentorias, tacita, civiles et expressas, que et quas praedictus dominus Gerardus,
tamquam primogenitus, habet et habere potest et debet iure successionis et
hereditatis quondam magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam
eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in
baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj
eius fratris/ eius territorio castro et casali, nec non in bonis burgensaticis
videlicet territorio Garamuli et Ruviceto Siguliana terminis, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus
sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum spectantiis in omnibus et singulis bonis stabilibus, castris, villis
baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per
tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio
don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore,
che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i
diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste,
perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo,
come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o
ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua
nonna, nonché per diritto ereditario riveniente dal quondam magnifico signore don Giacomino [Jacobinus]
del Carretto, suo fratello, così pure per diritto di successione ed eredità
riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche per qualunque altro
diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi ragione, occasione o causa
e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei
defunti suoi magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al
pertinente territorio, castello e casale, nonché in ordine ai beni burgensatici
siti nel territorio di Garamoli, Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con i
gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un tale
palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico
Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S.
Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte
orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini.
Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto
nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero
distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e
confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso
gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il
predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi
esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su
tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e
burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giungono anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale
di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei
alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve periodo in cui
la baronia sembra in mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un
documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare -
revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono
di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia
feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo. Racalmuto
subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua strategia
politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattutto la figura femminile
di Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli -
Manfredi, Giovanni il Vecchio, Federico
II - ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il signore di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re Federico
III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella contea di
Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di Napoli e
Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto della
Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri (l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore
presso l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314
capitano giustiziere di Palermo. Muore attorno al 1321, lasciando come suo
erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi.
Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava
Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di
Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria.
Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone [68] ci assicura che «Giovanni
possedette in Girgenti e nel suo territorio case palagi castella, e terreni che
egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo casale Margidirami, o di Raham
come leggesi in alcuni diplomi, colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo
il casale Mussaro, col suo fortilizio coi casamenti, e i terreni che lo
cingevano, perché la chiesa non bastava a mantenerlo e custodirlo. - Così egli
aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze della città.» Sarà stato per
questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che i nostri storici locali hanno
dato la stura a tutta una serie di falsi, propinati ingordamente, sulla baronia
di codesto Giovanni Chiaramonte su Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente:
signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la
figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la
contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa
Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al
nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane.
Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge
l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico
di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investitura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi di sorta per
articolare una qualsiasi risposta. Nel 1351 Manfredi II diviene vicario
generale del Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353,
lasciando erede il figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di
Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di
Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il
fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene
governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista
di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di Messina contro Matteo Polizzi.
Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni
a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei
Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV.
Possiamo solo congetturare che Racalmuto
- stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta
titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei
Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici
divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano
Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona,
costituisce una parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere
di quella schiatta trecentesca siciliana.
Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di Messina del
1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da
Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli
ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della
fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei
Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in
nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi
d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso
Luigi teneva prigioniera a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare
che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore
senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte
sembra non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta
di questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S. Giovanni e
Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico
III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica,
la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del
regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello
di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado
di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo
del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di
Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i
Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni
II (secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze
Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e
Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358
chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente,
nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli
Angioini , all’obbedienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene
onorato della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di
Mistretta, la signoria di Malta, della città di Terranova, di Cefalà. Fu
padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella,
Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre ad altri feudi intorno a Messima. Manfredi
III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino
Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e
Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico
IV di sbarcare in Palermo per l’incoronazione ufficiale. Nel 1375 può
conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronuovo con
Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di
Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari
feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la
minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene
investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la
figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, che però la ripudia dopo la
rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue sostanze le
figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di ascese da capogiro. Con chi non fu concepito in
legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma subito dopo fu
il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di Sicilia della casa
regnante ispana, per il gioco della politica a dimensioni divenute
sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia
delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con
sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona
al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti
catalani. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo
cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi
protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e, dopo la morte di Andrea, si rifugia con aderenti e
amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere locale; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei
Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum (CVIII) e del Villani (XI, 108). [69] Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débâcle. Il
cronista coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che
non uno di essi sfuggì, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale
disfatta vollero rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono
Giovanni Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta,
Orlando d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale
del defunto re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da
Palermo, Vincenzo Manuele da Trapani. E, per quello che a noi più preme, Matteo
Doria. Questi per adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della
libertà dovette vendere la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per
500 onze. [70] Matteo Doria era figlio di Brancaleone Doria e di Costanza
Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo letto Antonio
del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e
Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria
aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei
beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella,
Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna
molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie
femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò
mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto?
Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cognome Del
Carretto annetteva anche la nostra
baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare.
L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che
Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De
Gregorio [71] ci pare in definitiva piuttosto perplesso. Ai fini della nostra
storia, i Doria non ci paiono, comunque, di particolare rilievo, ragion per cui
non abbiamo dedicato molte ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori
genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida pedana per una fortuna feudale
che li fa assurgere a cospicui rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del
Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del
Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica
figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere,
sulla base degli agiografici loro storici alla Inveges o alla Giordano, ogni
effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio
Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla
morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare
sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna
fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone
Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose
enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto -
andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II
Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di
Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate
che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni
dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito
per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti. A Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [72]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli:
«marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso
nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora
le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina
dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene
intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche
Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel
1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà.
Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro
figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del
Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come
Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe
in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la
baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce
qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre
molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto
nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind.
1344, stando alle notizie dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a
Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie
navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del
citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del
Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del
giuramento, di inviare da Genova in Sicilia
tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come
sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso
don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo
padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per
consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione
di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili,
posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle tenute date ed
assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»
[1]) Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari
1947, 9^ ed. pag. 71.
[2]) Denis Mack SMITH, Storia della Sicilia medievale e
moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21. Questo libro e il suo autore furono
cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli storici siciliani fu persino
patetica. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi CORRENTI a pag. 29 della sua
Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a
lodare il Mack Smith per il suo 'stile provocatorio' rimase il solo Leonardo
Sciascia, che però si rifece clamorosamente, facendo decretare al suo amico
inglese gli onori del trionfo, in una speciale manifestazione organizzata a
Palermo il 6 aprile 1970, niente meno
che al palazzo dei Normanni: onore mai concesso a nessuno storico, e
assolutamente sproporzionato al merito dell'opera (e il primo a stupirsene fu
lo stesso Mack Smith).» Secondo il Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe
Giarrizzo, Gaetano Falzone, Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la
bocca di fronte alla storia siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è
oggi universalmente cosiderata un classico, come tante altre opere dello
storico inglese.
[3] ) Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondatori
Milano 1979, p. 12. E potremmo citare “Occhio di Capra” ove l’arabismo
scasciano plana addirittura nell’onirico.
[4]) EDRISI, Sollazzo
per chi si diletta di girare il mondo,
libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele Amari,
Roma 1880.
[5]) «Un problema complesso e contraddittorio», le cui fonti
sono giunte a noi in copie del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana, La monarchia
normanna e sveva, op. cit. pag. 543.
[6]) S. Tramontana, "La monarchia normanna e
sveva", op. cit. pag. 541.
[7]) Secondo i BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM,
collegerunt ac digesserunt Joannes
BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De
S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia", addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud
Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -
autori secondo il COLLURA [op.cit.
p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il
primo vescovo di Agrigento post saraceno
potè essere consacrato
dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi salì
al soglio pontificio (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene
avanzata solo sulla base di un'asserzione
del PIRRO che vuole Gerlando consacrato da Urbano II
"ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini diocesani da parte di Ruggero è però del
successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo documento capitolare di Agrigento - fa
risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento - Libellus, c. 18B - afferma: «complens
duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino vicesimo quinto die mensis februarii [1104]».
Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento dell'archivio di Agrigento porta la data
appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in
proposito del Collura, op. cit., p. XI e
p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma incidentalmente e senza alcun supporto
critico.
[8]) «Ego Rugerius
... in conquisita Sicilia episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est
Agrigentina Ecclesia, cuius episcopus
vocatur GERLANDUS , cui in parochiam assigno quicquid intra fines subscriptos
continetur, [ ... ], videlicet, a
loco ubi oritur flumen de subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth,
et inde tenditur per
divisiones Iatinae et Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde
vero usque ad
flumen Salsum, quod est divisio Panormi
et Therme, et ab ore huius fluminis, ubi cadit in mare, protenditur
haec parochia de iuxta mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc,
ab inde ubi oritur, tenditur ad Pira
de subtus Petram Heliae, atque
inde ad altum montem, qui est supra Pira; inde autem ad flumen Salsum ubi
iungitur cum flumine Petra Helie, et ex hoc flumine sicut ipsum
descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum et Butheriam; atque inde per maritimum usque
ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch tenditur sicut hoc flumen currit usque de subtus Corilionem
, ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione et Termis.»
Questo documento è
pubblicato sub 2) dal Collura, ["Le
più antiche carte ...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto
accurata. Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu
ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA,
GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN,
LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.
cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una
copia incompleta della seconda metà del
XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in
Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae
Regni', I, codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10
febbraio 1509, ed in 'Liber
Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L],
redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del
1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)"
[op. cit. p. 7].
Il FAZELLO, il
religioso di Sciacca nato nel 1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su
questo documento [Tommaso FAZELLO,
"Storia di Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri
bollandisti si avvalsero dell'opera del
Fazello, ma ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione
sul documento e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum
Bollandistorum, op. cit., p. 590 e ss.]. Anche il Picone
[op. cit. appendice I] riporta il testo con note critiche, ma copia
pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia sacra, t. I, p. 695 e 696], non ha sottomano i documenti originali di
Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il documento WINKELMANN, LAURICELLA,
KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono per la falsità: BERNARDO, FULCI,
STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può leggersi, anche, la Bolla di papa
Urbano II di ratifica, del 10 ottobre
del 1098.
Il Pirro utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti
gli altri editori tra cui il MANSI,
il CARUSO, il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura,
op. cit., p. 21]. Nel 1960 il documento viene edito criticamente dal Collura
[op. cit. doc. n. 5, p. 21-24], secondo il quale "nel complesso il testo
della bolla è sincero".
[9] ) I REGISTRI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA - VOL. VIII - A
CURA DI JOLANDA DONSI' GENTILE
-(Ricostruiti da Riccardo FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti
Napoletani) vol. VIII 1271-1272 Napoli 1957
[10] ) Reg. 1271.A,
f. 246. Fonti: De Lellis l.c. Dal Secreto Sicilie - cfr. op. cit. pag. 65 La
località viene nell'indice, a pag. 333, riferita a Racalmuto (veramente sta scritto: Racalnuto). Per De Lellis l.c.
bisogna intendere: Carlo De Lellis, Notamenta ex registris Caroli I. Trattasi
di un manoscritto. Il documento trovavasi già pubblicato in una analoga opera:
REGESTA CHARTARUM ITALIAE - 'GLI ATTI PERDUTI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA' -
transunti da Carlo de LELLIS, pubblicato sotto la direzione di Riccardo Filangieri,
a cura del R. Istituto Storico per il Medio Evo - Roma 1939 - Vol. I a cura di
Bianca Mazzoleni - Il testo palesa molte difformità, sia pure solo formali. [v.
pag. 55]
967 - Petro Negrello de Bellomonte militi, exequtoria
concessionis casalium in pertinenciis Agrigenti, videlicet Rachalgididi, casale
Rachalchamut et Sabuchetti et casale Brissane, nec non domus in qua habitat
Fredericus Musca proditor; que casalia
Rachalgididi, Rachalchamut et Sabuchetti et dicta domus fuerunt Frederici et
casale Brissane devolvit per obitum sine
liberis quondam Iordani de Ceva. - (f. 246)
Vi appunta la
sua attenzione ( ma con qualche inesattezza): Illuminato PERI: Uomini, città e
campagne in Sicilia dall'XI al XIII secolo - Laterza, Bari 1978. Nella nota n.
6 al cap. XXI (cfr. pag. 331 e 332) riduce in questi termini l'assegnazione di
Racalmuto: La nuova lotteria feudale dai
Reg. ang. (e cioè: I Registri della
Cancelleria angioina, ricostruiti da R. Filangieri di Candida e dagli
Archivisti napoletani, Napoli 1950 sgg. - cfr. pag. 294) .......RAHLHAMUD e
altri casali già di Federico Mosca e Giovanni de Ceva ( VIII, pag. 65, a Pietro
Nigrel de Bellomonte) ...
La nota
riguarda il seguente passo di pag. 266: «Erano espressione, nell'insieme, e con
maggiore evidenza i secondi, del movimento nella cerchia dei feudatari di
Sicilia verificatosi sotto Carlo d'Angiò: una lotteria che toccò intiere terre e casali; ma che, se non
mise in circolo una feudalità
irriguardosa per ambizioni fondate su reale potenza, non creò neppure un solido
aggangio alla dinastia. Anche perchè i nuovi signori non foruno accompagnati da
un seguito che avesse presa sul tessuto demico o valesse quanto meno a
contenere prevenzioni e risentimenti, nostalgie seppur strane e aspettative
magari vaghe ...»
[11] ) Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano -
Milano 1886 - vol. I - cap. X pag. 3.
[12] ) Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano -
Milano 1886 - vol. I - cap. IX pag. 339 e pag. 340. Cfr. in particolare la nora
sub 1) di pag. 339 che bene inquadra la questione del diploma del 30 dicembre
1282, base della narrazione dei fatti che vedono tra i protagonisti appunto il
nostro Federico Mosca, indicato come conte di Modica.
[13] ) Illuminato Peri - La Sicilia dopo il Vespro - Uomini,
città e campagne 1282/1376 - Bari 1981, pag. 31.
[14] ) Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op.
cit. p. 345.
[15] ) Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op.
cit. p. 55 e segg.
[16] ) Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op.
cit. p. 65.
[17] ) Arturo Petix - Da Milocca a Milena - Milena 1984,
pag. 27.
[18] ) Nell'inventario dei Registri Angioini compilato nel
1568 al n.12 leggiamo: «Item uno altro registro di carta ut supra intitulato
Registrum Regis Caroli I° anni 1271, comincia 'Scriptum est Bayulis' e finisce
'ultimo augusti XV indictionis' di carte
n. 248.» Cfr. pag. 248: PROVISIONES SEQUENTES DIRIGUNTUR SECRETIS
SICILIAE. - Cfr. pag. 250 : N. 966 Petro Negrello de Bellomonte ... etc. c.s.
Pietro, Conte di Montescaglioso, Camerario del Regno, BEAUMONT (de) o
BELMONTE ( cfr. pag vol. VIII 127, 128, 145, 173, 187, 191, 199 etc.) NEGRELLO
PETRO DE BEAUMONT (cfr. pag. 65 e 182).
Cfr. pag. 145 (n. 246) - Mandatum pro mutuo unc. C cum Petro de BELLOMONTE, Montis Caveosi et Albe Comite,
Regni Siciliae Camerario. Reg.
1272, XV ind. f. LXVIII, t) De Lellis l.c. n. 580.
[19] ) Léon Cadier - L’amministrazione della Sicilia
angioina, a cura di Francesco Giunta - Flaccovio editore Palermo, 1974 -
[20] ) Sul sipario non è poca la letteratura sinora
accumulata. Citiamo a caso: Gaetano Restivo: quel sipario abbandonato, in
Malgradotutto, novembre 1993, f. 2MT; Aldo Scimé: Perché rinasca, in
Malgradotutto, settembre 1994, f. 3MT; Leonardo Sciascia su l’Espresso (1978?)
citato dallo Scimé;
[21] ) Leonardo Sciascia - Il mito del Vespro, Sciacca 1982,
pag. 21.
[22] ) ibidem, pag. 13.
[23] ) ibidem, pag. 14.
[24] ) Ci riferiamo al documento VIII che Giuseppe Silvestri
pubblicò nel 1882 tra i “Documenti per servire alla storia di Sicilia” - Prima
Serie - Diplomatica - vol. V - Palermo 1882 - “De rebus regni Siciliae” (9
settembre 1282-26 agosto 1283). Documenti inediti estratti dall’Archivio della
Corona d’Aragona - Documento VIII - pag. 8 (Palermo 10 settembre 1282, ind. XI)
- «.... universitati RACALBUTI. Archeorum XV».
[25] ) Illuminato Peri - Uomini, città, e campagne in
Sicilia, dall’XI al XII secolo - Bari 1978, pag. 12.
[26] ) Paolo Collura: le più antiche carte dell’Archivio
Capitolare di Agrigento -Agrigento 1961
[27]) Come ebbi a scriverti a pag. 5 e seguenti del mio
precedente malloppo si tratta del seguente passo della Notitia contenuta a pag.
697 della Sicilia Sacra del Pirri: «XIV. Warinus, sive Guarinus eiusdem
coenobii monacus ... in episcopatu Agrigenti, Dragoni successit an. sal. 1105.
uti ipsemet memoriae prodidit in quondam privilegio. Anno incarnationis
dominicae 1108 praesulatus mei anno IV. Rogerii junioris consulatus, forte
comitatus, anno III. Robertus Malconvenant cum Giliberto consanguineo suo
milite perfecis in praedio suo sub honore S. Virginis Margaritae templum,
illudque multis auxit praediis. ac Gilibertus clericali tonsura decoratus illa
bona in praebendam Canonicatus Ecclesiae Agrigentinae dedit, dummodo tres
libras incensi anno quolibet 15. augusti in festo S. Mariae persolveret. De hoc
Roberto Malconvenant domino praedii, quod nunc est oppidum Rayalbuti
[sottolineatura nostra, n.d.r.], atque eius filio Guillelmo Malconvenant
Magistro Justiciario Magn. R. C. ....
[28]) Gli altri due accenni del Collura alla nostra chiesa
di S. Margherita sono: a) Documento n. 27 [pag. 63-65] e b) Libellus (c 16 A
[rectius c.17 a], n.d.r.]), pag. 304.
Il Documento sub a) non ci è di molto aiuto per la nostra
ricostruzione: esso si limita ad includere in uno scarno elenco [pag. 65] la "Ecclesia Sancte Margarite
virginis, incensi libras. III". Per il Collura non vi sarebbero dubbi: si
tratta per lui del beneficio dei nostri due documenti nn. 8 e 9 sopra riportati
[cfr. nota n. 2 di pag. 65 del Collura]. L'elenco si intitola CENSUUM
INDICULUS e viene datato prima del 1177.
Quell'accenno all'onere delle tre libbre d'incenso sembra dargli ragione.
Molto più complesso è il discorso sul documento sub b). Il
riferimento è al «Libellus de successione pontificum agrigenti et institutione
prebendarum et aliarum Ecclesiarum dyocesis, sicut ex relatione cognovimus
precedentium seniorum et ipsi inspeximus in eodem statu». Il Collura data
questo la stesura di questo Libellus
nel "1250 o comunque, giacché il documento più recente (n. 74) è del 1252,
non più tardi del 1260" [pag. XXII]. Il passo che ci interessa è il
seguente: «Sancta Margarita [e qui il Collura annota: "S. Margherita
Belice (cfr. docc. nn. 8-9), n.d.r.] beneficium cuius est terra sua et
burgenses in spiritualibus et temporalibus cum platea et mercedibus». Al
riguardo non son proprio certo che il Collura abbia ragione. Il precedente
passo recita: «Quatuordecim debet habere
Ecclesia Agrigentina et non amplius. Subsequencia fuerunt beneficia: ..» e
segue l'elenco dei benefici tra i quali quello citato di Santa Margherita. Non
si può quindi escludere che prima del 1250 vi sia stata una generale
ristrutturazione di tutti i benefici canonicali della curia Agrigentina (prima
infatti di parla di una prebenda «insituta de camera pro auctoritate legis») e
in quel frangente si attribuì ad un canonicato (che sappiamo dal Pirri essere
stato nel XVII secolo il XVIII°) il beneficio di Racalmuto, denominato più o
meno appropriatamente di Santa Margherita nel ricordo o falsando il vetusto
beneficio del Malcovenant, che peraltro si riferiva a S. Margherita Belice.
Un'astuzia curiale non è poi tanto impensabile ed inconsueta.
[29] ) Nicolò Tinebra-Martorana - Racalmuto, memorie e
tradizioni - Racalmuto 1982, pagg. 55-57.
[30] ) Cfr. l'Appendice al volume del Tinebra-Martorana,
pag. 199.
[31] ) Addirittura elogiativo asserendo il grande scrittore
che «il libro, per i racalmutesi, per me racalmutese, va bene così com'è: col
gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva
l'autore, con l'aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre»
(op. cit. pag. 9).
[32] ) P. Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. Del Monte di
Racalmuto - Racalmuto 1986, pag. 23.
[33]) In effetti si ignora l'anno della morte del Vescovo
Guarino o Warino che addirittura potrebbe essere avvenuta attorno al 1128 (Cfr.
Collura P. , Le più antiche carte..., op. cit. pag. XII)
[34] ) N. Tinebra Martorana, Racalmuto, op. cit. pag. 60 e
segg.
[35]) Vito Maria
Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi secundi pars altera,
Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma pos. 1.24.C. 19/24]
In proposito, il passo in latino di pag. 115 è il seguente: « ... Barresiis
subinde datum [Racalmuto, cioè]; Joannes subinde eiusdem familiae ad
Andegavensium partes deficiens, secum
opida sibi subdita traxit, Petrapretiam, Nasum, Rahalmutum et alia.» Gioacchino Di Marzo ne fece questa
traduzione: « .... dato poscia a' Barresi; poichè Giovanni della medesima
famiglia essendosi ribellato in pro delle parti angioine, seco trasse i
soggetti paesi Pietraperzia, Naso, Racalmuto ed altri.»
[36]) F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile -
parte IV - Forni Editore [copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte
II, libro IV, pag. 199 e segg. Invero, l'A. sembra voglia far ricadere la colpa
al padre Aprile. Noi, a dire il vero, non abbiamo avuto modo di consultare
l'opera di questo storico siciliano che scrisse nel 1725. Disponiamo solo di
una bibliografia del Bresc ovè è così segnato: Francesco Aprile, Della
cronologia universale della Sicilia, Palerme, 1725, XXIV-808 p. [centré sur
Caltagirone]. Vedi Henri Bresc: Un monde méditerranéen - économie et société en
Sicile - 1300-1450 - Palermo 1986, pag. 48. Ad altri studiosi quindi il compito
ed il gusto di correggerci ed eventualmente integrarci.
[37]) Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia
racalmutese dei Barrese, il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli
ereduti di Racalmuto - a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca
[Sicula], non proprio indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del
racconto della 'venuta' della Madonna del Monte. Questi a pag. 2 del suo
libretto Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, testualmente
annota: «L'ultimo di questa dinastia fu Giovanni Barrese, il quale al riferire
del padre Aprile (Cron. Sic. cap. 1 f. 164) [corsivo ns.] si rese indegno del
dono, oscurando col più turpe tradimento la fede siciliana. Nella guerra tra
Carlo d'Angiò Conte di Provenza e Manfredi lo Svevo Re legittimo del regno di
Sicilia e Napoli fu il primo che vilmente desertò le bandiere del suo Re, e
passò al partito Angioino acquistandosi il nefando nome di traditore della patria
e del suo Re, una marca indelebile di eterna infamia, e la perdita totale di
tutti i beni, giusto e ben dovuto premio dei traditori. Ma l'infamia a chi
tocca: il vespere Siciliano manifestò al mondo il valore dei figli di Sicilia,
e la lor fedeltà ai legittimi Sovrani.» La frase che abbiamo riportato in
corsivo svela la totale sudditanza del p. Caruselli dal Villabianca (a parte la
diversa pagina: 164 al posto di 144, evidentemente un mero errore). Ecco
infatti cosa aveva scritto il celebre autore della Sicilia Nobile a pag. 199 e
ss. - parte seconda, libro IV: Racalmuto «credesi indi concessa dal Rè Ruggieri
Normanno figlio del liberatore testè accennato ad ABBO BARRESE in consuso con
quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di esso
Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f. 184
avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di
Giovanni BARRESE, il quale al riferire del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1
[corsivo nostro] fu il primo tra i Baroni del nostro Regno, che nelle guerre
fatte dall'armi dei Collegati Angioini in quest'Isola passasse al loro partito
col suo vassallaggio consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO,
CAPO D'ORLANDO, E MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che
si alza fra la Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicchè
dichiarato fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco.»
(Vedasi: F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni
Editore [Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e
ss. Parte II Libro IV).
Il padre Caruselli sicuramente non consultò il p. Aprile,
come noi del resto. Ma fu abbaglio suo personale quello di credere che Giovanni
Barrese sia stato privato delle sue terre per aver tradito Manfredi a favore di
Carlo d'Angiò, grosso modo tra il giugno del 1265 ed il febbraio del 1266. Le
turbolenze di Giovanni BARRESE avvennero invece nella contesa tra i due
fratelli Federico III e Giacomo II d'Aragona e cioè tra il 1298 ed il 1302,
circa vent'anni dopo il Vespro siciliano: Illuminato Peri (vedasi La Sicilia
dopo il Vespro - uomini, città e campagne 1282/1376 - Laterza Bari 1982, pag.
39) data la dissidenza di quel nobile attorno al 1299 (ed era solo signore di
Pietraperzia, Naso e Capo d'Orlando, come da pag. 39 e nota 44). Il padre
Caruselli non era ovviamente ferrato nella storia medievale della Sicilia, e
l'intrigo degli eventi lo giustifica. Ma quell'accenno ai Vespri Siciliani ebbe
grande fortuna. Il Tinebra Martorana, con la sua «aura romantica e un tantino
melodrammatica», per dirla alla Sciascia, vi si buttò a capofitto vergando il
capitolo IV su Racalmuto e la famiglia Barrese (pag. 58 ed. 1982). Eugenio
Napoleone Messana diviene incontenibile - da pag. 54 a pag. 58 - nella sua
storia su Racalmuto (ed. 1969). Purtroppo anche il valido padre Calogero Salvo
cade nella trappola, in ispecie a pag. 25 del suo Ecco tua Madre - Racalmuto
1994. Non si lascia ingannare, invece,
da quell'ambiguo parlare di un passaggio "ad Andegavensium partes"
dell'Amico l'avv. Francesco San Martino De Spucches: Egli bene inquadra la
congiuntura storica: «Questi [Giovanni Barrese] - scrive a pag. 181 del quadro
783, op. cit. - visse sotto Re Giacomo
d'Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo, divenuto Re
di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i baroni di Racalmuto con numero progressivo...»
[38]) F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS
SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS
INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione.
Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta
via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense
iunio. [Biblioteca Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese
(origine e genealogia) pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus -
cap. Nonum
Hic genus suum ad Abbum Barresium, cuius pater ex
proceribus, qui cum Rogerio Normanno ad propulsandos Sarracenos in Siciliam venerunt, unus fuit,
ut Rogerij Regis diplomate constat, hoc ordine refert. Ex Abbo, qui
Petrapretiam, Nasum, Caput Orlandi, Castaniam, et pleraque alia oppidula à
Rogerio Rege adeptus est, Matthaeus.
[39] ) Leonardo Sciascia - Morte dell’Inquisitore - Bari
1967, pag. 181.
[40] ) Sac. Calogero Salvo - Ecco tua Madre - Racalmuto 1994
- pag. 24.
[41] ) MEMORIE DEL GRAN PRIORATO DI MESSINA - RACCOLTE DA
FRA DON ANDREA MINUTOLO dei baroni del Casale di Callari, e feudi di Boccarrato
- Cavaliero Gerosolimitano 1699 - dedicate all'illustrissimo Eccellentissimo
Signo mio Padrone Colendissimo il Signor Fra D. Giovanni Di Giovanni de
Principi di Tre Castagni ; Gran Priore di Messina, e già di Barletta, Capitan
Generale della Squadra Gerosolimitana, e Condottiero di quella di N.S.
Innocenzo xij nel 1692-1693. In Messina - Nella stamperia camerale di Vincenzo
d'Amico 1699 - Con licenza de' Superiori.
[42]) Avv. Francesco San Martino de Spucches - La storia dei
feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, dalla loro origine ai nostri giorni
(1925) - vol. VI, Palermo 1929, pag. 181 e segg.
[43] ) Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano, vol.
i - Milano 1886, pag. 386.
[44] ) Cfr. l’opera precedentemente citata del Silvestri,
Vol. V Palermo 1882, pag. 9 e segg.
[45] ) cfr. ibidem pag. 12.
[46] ) Leonardo Sciascia, presentazione della mostra di Pietro
d’Asaro, Racalmuto 1984, pag. 20.
[47] ) cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia
di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag.
687.
d ) ) [CARUSO, Storia di Sicilia par. 2. lib. I. f.19].
a ) [Vedensi le Allegazioni del Dottor don Emanuele lo
Giudice fog. 8. e 96. fatte a favore del Principe della Riccia per l'esecuzione
della Chiaramontana reintegrazione stampate in Palermo 1755. f. 96].
[48] ) Francesco M. Emanuele e Gaetani, marchese di Villa
Bianca - DELLA SICILIA NOBILE - Palermo 1759 - Parte Seconda - lib. IV, pag. 4
e segg.
[49] ) Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V
1882, cit. doc. XXI p. 24.
[50] ) cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII.
[51] ) ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI.
[52] )
ibidem, doc. n.° CCXXIX.
[53] )
ibidem pag. 203.
[54] )
ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII.
[55] )
ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV.
[56] ) ibidem pag. 295.
[57] ) Montescaglioso
(Matera), comune: 9900 ab., a 352 m s.m. Centro agricolo tra la valle
del fiume Bradano e la gravina di Matera.
Anticamente si chiamava Severiana. La contessa Emma vi fondò verso la
fine del XII secolo un monastero intitolato a San Michele. L’imperatore
Federico II lo dotò nel 1222
[58] ) Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. Del Monte di
Racalmuto, Racalmuto 1986, pag. 23 ove, tra l’altro, leggesi: «La distanza tra
Casalvecchio (Racalmuto) e la Chiesa di S. Margherita, circa tre chilometri, fa
pensare che a Casalvecchio ci fossero altre chiese officiate da Sacerdoti.»
[59] ) DIZIONARIO COREOGRAFICO DELL'ITALIA a cura del prof. Amato AMATI - Milano (Vallardi) -
(1869) voce: Racalmuto.
[60] ) Su tale collettore pontificio vedi la comunicazione
di M.H. Laurent O.P.: I vescovi di Sicilia e la decima pontificia del
1274-1280, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, anno V n. 1 - gennaio
aprile 1951, pag. 75 e segg. Lo studio serve anche per notizie sui vescovi
agrigentini dell’epoca e per rettifiche di errori del lavoro di P. Sella:
Rationes decimarum Italiae ... Sicilia [= Studi e testi, 112], Bibl. Vaticana
1944. Gli spunti critici vengono rispresi dal Collura (Le più antiche carte
...], libro dal quale traiamo le note sui vescovi agrigentini che
soprintenderono alla tassazione ecclesiastica di Racalmuto a cavallo dei secoli
XIII e XIV.
[61] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e
moderna, Bari 1973, vol. I, pag. 101.
[62] ) Tommaso Fazello - Storia di Sicilia - Presentazione
di Massimo Ganci - Introduzione, traduzione e note di Antonino De Rosalia e
Gianfranco Nuzzo - Vol. I - 1990, Regione Siciliana - Assessorato Beni
culturali - pag. 482. L’originale recita in latino: « Ad duo hinc p.m.
Rayhalmutum sarracenicum oppidum [pag. 231] occurrit: ubi arx est à Frederico
olim Claromontano erecta, quam Gibilina
arx ad 4.p.m. excipit. Et deinde 8.p.m. Cannicatinis pagus....» da F.
TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRADICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC
PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS
Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes
Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad
Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. Il testo
latino distoglie da azzardate ipotesi sulla fortezza “saracena” che la non
felice traduzione del passo potrebbe solleticare.
[63] ) Non c’è ombra di dubbio che il Fazello parlando di un
castello costruito da Manfredi Chiaramonte in Gibillina, intende riferisrsi
alla località del trapanese. «da Misilindini ... verso ponente è lunge tre
miglia Saladonne, e poi dopo un miglio si trova Gibellina castello, dove è una
fortezza fatta da Manfredi di Chiaramonte,» secondo la vetusta traduzione del P.M.
Remigio Fiorentino (Della Storia di Sicilia ... volume primo, pag. 625). E l’Amico (op. cit. pag. 267) sembra alquanto
perplesso ma in definitiva si capisce bene che parla della Gibellina trapanese:
«Et paulo infra Sala Donnae et M. postea pass. Gibellina, ubi arx a Manfredo
Clamonte erecta adhuc extat.» Non sappiamo perché il T.C.I. nella sua guida
della Sicilia del 1968 attribuisca invece il castello a Enrico Ventimiglia, che
l’avrebbe edificato nella 2a metà del ’300 (pag. 241). Del pari si attribuisce
il castelluccio racalmutese ad Abbo Barresi: «a 5 km. si sale a d. sul monte,
ove si trovano avanzi notevoli di una fortezza del Chiaramonte, del sec. XIV,
ma fondata nel ‘200 da Abba (sic) Barresi.»
[64] ) P. Bonaventura Caruselli, minore osservante di Lucca,
Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, pag. 18.
[65] ) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e
del commercio nel Medio Evo - Girgenti porto del sale e del grano - in
Antichità ed alto Medioevo - Studi in onore di A. Fanfani I - Milano 1962 -
pag. 598.
[66] ) A. Inveges - La Cartagine Siciliana, Palermo 1651,
pag. 228-9. Le psotume notizie dell’Inveges sono comunque da accogliere con le
pinze. Anche i diplomi citati possono essere dei colossali falsi. Il Peri mette
sull’avviso quando scrive (vedi op.cit. prima, pag. 607 n. 43) «La natura del
libro dell’Inveges lascia dubitare che la sospetta falsificazione ebbe fini
araldico-celebrativi piuttosto che giuridico patrimoniali.» Il sospetto, il
Peri ce l’ha per il documento di dotazione del monastero di S. Spirito da parte
della madre di Federico II Chiaramonte, Marchisia Prefolio. L’illustre storico,
quel documento segnato dall’Inveges con tanti elementi indicativi, non riuscì a
trovarlo né nei citati archivi del vescovado e del capitolo di Agrigento e
neppure tra le pergamene del monastero di Casamari, «che, a stare al testo del
doc., ne avrebbe ricevuto copia.»
[67] ) ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni
1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 -
[68] ) Giuseppe Picone - Memorie storiche agrigentine -
Agrigento 1982 - pag. 479.
[69] ) Chronicon Siculum = Anonimy Chronicon Siculum ab anno
DCCCXX usque ad MCCCXXVIII (...) et ad annum usque MCCCXLIII, in Bibliotheca,
II, pp. 107-267. Giovanni, Matteo, [Filippo] Villani, Cronica, ed. di Firenze
1823-1825 (Margheri), in 8 voll.
[70] ) A.S.P., Notai, I, 117 - Bartolomeo de Bononia, (ff.
71r-73r dell’8.6.1345, 105r-106r del 13.5.1345 e atti allegati non registrati).
[71] ) Domenico De Gregorio - Cammarata, Agrigento 1886,
pag. 127. Il colto studioso annota: «il Fazello parla di Manfredi: “venne
intanto il re Ludovico a Camerata al governo della quale era Manfredi Doria il
quale era stato fatto anche ammiraglio, essendosi estinta la contumacia di
Ottobon suo fratello” [Fazello o.c. p.475]». Sottolinea le opposte tesi degli
altri storici di Cammarata e,
dubbioso, soggiunge «forse la
cosa potrebbe risolversi ricorrendo all’uso di nominare dei governatori in nome
del vero signore, forse allora Manfredi era governatore e castellano di
Cammarata a nome del fratello Corrado.» Per la genealogia dei Doria, noi
abbiamo seguito - acriticamente - il Picone.
[72] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio
della dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
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