Introduzione. L’erba e le rocce racalmutesi.
Questa
storia di Racalmuto, questa mia microstoria l’ho scritta e riscritta e poi
riscritta e quindi di nuovo scritta. Quando un quarto di secolo fa ho trovato
tra le carte segrete del Vaticano note e notizie vetuste sul mio paese, ebbi
come una folgorazione. Ne nacque una passione direi smodata. Le mie radici che
credevo decomposte nelle latebre del mio sotterraneo esistenziale si sono
risvegliate come vitigni americani. Da allora ricerche e congetture, vuoti ricolmati
con supposizioni magari subito svanite ma anche con scintillii documentari, con
transunti, con diplomi con trascrizioni di processi feudali. Di volta in volta
una nuova Racalmuto nasceva eppure spesso subito appassiva.
Mi accingo
a divulgare una microstoria racalmutese evenienziale, alla francese. So che non
ci riuscirò. Per Racalmuto non vi sono molti fatti narrabili, secondo i crismi
del Castro, come li avrebbe voluti Leonardo Sciascia: Ed anch’io finirei con
l’incappare nella sorniona ironia del grande scrittore. Ricordate? 1982: Mulé
assessore ai Beni Culturali; non ricordo chi fosse il sindaco (non si firmò);
si riuscì a far stilare all’eminente scrittore una sapidissima prefazione alle
memorie e tradizioni racalmutesi scritte da un acerbo ventiduenne alla fine del
XIX secolo. Sciascia esordisce con una monca bibliografia: sarebbero stati
scritti solo tre libri “sulla storia di Racalmuto”. Per uno di questi tre
scritti parla di “una storia … voluminosa, fitta di notizie”. Eppure quel libro
non fu prescelto per la riedizione commemorativa dei lustri racalmutesi. Non contraddittoriamente, ma con la solita
arguzia ed in definitiva bonomia però non compiacente, questa l’amara
conclusione: «limitato è il numero delle notizie che si possono estrarre da libri e
manoscritti» E dire che: «moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono
quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria.»
Già con le
Parrocchie di Regalpetra, e poi con La morte dell’Inquisitore, e poi, qua e
là, con il Mare colore del vino, e soprattutto con Occhio di Capra ed infine, per tacer d’altro, con Fuoco all’Anima, il nostro Compaesano
munse quei succhi gastrici della memoria racalmutese. Avvinto da Américo Castro, dalla sua
storiografia, per Sciascia Racalmuto “emerge [solo] nella prima metà del XVII
secolo a una vita ‘narrabile’, da ‘descrivibile’ che appena e soltanto era.»
Di solito, tutto si racchiude in una vita, pur sempre “tenace e rigogliosa” ma
dimessamente “abbarbicata al dolore ed alla fame come erbe alle rocce”. In
quella visione desolata, il vivere locale fu «per secoli vita appena
“descrivibile” nell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara
povertà di Catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava»
E con empiti
ancora più disperati il Genio racalmutese sillabò che il senso di quella vita
era una lontananza “dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”. Una
Racalmuto né libera né giusta; una Racalmuto nel grembo della follia, dunque.
Altro che paese della ragione; sbagliano certi disattenti quando vorrebbero far
credere che Sciascia credesse in una Regalpetra dimora di chissà quale dea
loica.
Né
ammaliati da sopraffine galassie delle paesane rimembranze e neppure inceppati
da voglie campanilistiche di vicenduole congetturate a maggior gloria del paese
del sale e dello zolfo abbiamo voglia di cogliere davvero molti di quegli
sprazzi di inconsueta intelligenza di cui (lo affermiamo senza tema di
smentita) è ricca Racalmuto e non abbiamo pudori nel far riaffiorare le
propensioni al crimine, al delitto, all’omicidio, alle perversioni, all’usura,
agli illeciti arricchimenti, alla pravità insomma di un paese solfifero, atto a
trasformare quella bionda materia prima in micidiale polvere da sparo; perché
ciò si addice ad una comunità di uomini né angeli né demoni, ma un po’ dell’una
un po’ dell’altra natura; di un popolo che non avendo mai avuto bisogno di eroi
(per non avere guai) di guai ne ha avuti tanti per non avere mai avuto bisogno
di eroi.
Sciascia,
per dirla con Camilleri, non ebbe ‘testa
di storico’: celiando con la ‘tentazione alla visionarietà’ dello storico locale Tinebra Martorana (dopo
averlo accreditato quale autore di una buona storia del paese) un po’ si
assolve ma un po’ si rammarica per non essersi «privato del piacere di
riportare [un] documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle
Parrocchie di Regalpetra». E ci pare – ma forse ci sbagliamo sonoramente – che
ancora nel 1985 il preteso documento lo sussume al rango di fonte storica
quando, nel presentare una mostra di Pietro d’Asaro, ribatte che Racalmuto era
«antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi
arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut,
paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso
l’altipiano che dal paese oggi prende nome (l’altipiano di Racalmuto,
l’altipiano zolfifero).» Non stiamo qui a sottilizzare sulle licenze poetiche
d’indole geologica, visto che di zolfo nell’altipiano vero e proprio non ce
n’è, non avendo avuto modo il vibrio desulfurecans di sciamarvi in epoca del
primo terziario. Saremmo leziosi e supponenti e chissà a quante rampogne
andremmo incontro. Ma almeno non può negarsi l’eco delle statistiche propinate
dall’abate Vella all’Airoldi – tutte notoriamente false e bugiarde – e delle
varie dicerie degli storici secenteschi e settecenteschi, improvvisatisi
arabisti.
Purtroppo
noi siamo tra quelli piccolissimi di per sé e tutti presi dalle angustie della
microstoria che non osiamo indulgere né ai falsi storici né alle fantasiose
dicerie.
Così, cercheremo di scrivere su una Racalmuto né romantica né angelica
e neppure malefica sino ed oltre le soglie dell’inferno. Una Racalmuto umana,
speriamo, ove sono vissuti uomini talora liberi e talora servi; spesso vittime
della giustizia ma anche artefici di iniquità; in definitiva ragionevoli come è
consentito ai consorzi umani cui una più o meno divina provvidenza ha assegnato
un territorio a metà insalubre e pieno di calanchi ed a metà ferace come
l’humus del Pleistocene sa essere. Ed al di là degli allettanti sofismi di
Américo Castro ha tessuto una vicenda umana ‘narrabile’ in misura notevole se
si ha l’uzzolo (e l’umiltà) di scovare e sviscerare la sconfinata
documentazione che giace (spesso polverosa ed inconsulta) in archivi persino di
alto prestigio planetario quali quelli segreti del Vaticano o quelli di
Simancas (magari nelle diramazioni di Madrid e Barcellona), per scendere agli
altri relativamente meno prestigiosi di Palermo, Vienna, Torino, solo per lata
elencazione.
Sfogliamo
un bel libro: Manuel Vázquez Montalbán,
Lo scriba seduto, Frassinelli 1994. Vi baluginano sprazzi di storia
paesana, racalmutese, ma attraverso una duplice e forse triplice lente
deformante (Sciascia, Domenico Porzio e forse il figlio di questi). Il
Vázquez traduce alcuni passaggi di un
volume controverso che accreditato in un primo tempo a Leonardo Sciascia, per
opposizione dei familiari, è persino scomparso dai cataloghi di Mondatori e
cioè Fuoco all’anima. A pagina 178 ci
viene segnalato, senza velami, che Sciascia avrebbe riferito «che
dopo la guerra, quando era impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, venne
chiamato a testimoniare in una causa per una sottrazione di grano commessa da
un arciprete e un contadino. Il contadino aveva frodato meno dell’arciprete, ma
lui venne condannato a due anni di galera e l’arciprete assolto.». Noi
racalmutesi di una certa età conosciamo bene l’incidente, i protagonisti e la
vera genesi del processo. Naturalmente non ci ritroviamo in quella letteraria
versione. La magia della memoria, ci pare, abbia portato lontano, di sicuro
oltre la banalità dell’accadimento storico. L’arciprete, che dopo certe
esecrazioni più di riflesso della impopolarità politica ed amministrativa dei
parenti che per iniquità sua - ed oggi è sacerdote sempre più rimpianto - subì
maliziose perquisizioni di potenti che risorti, dopo l’incubazione per l’intero
periodo fascista, erano ostili al prete per propensione massonica, per tacere
del sospetto di una loro propinquità alle locali aree mafiose.
Quanto al
contadino – che vero contadino non era, ma come si diceva allora burgisi, ed era piuttosto benestante –
se la volle per bizzarria di carattere. I suoi figlioli, notevoli
professionisti fra gli ottimati di Racalmuto, seppero poi rendere pan per
focaccia. E, per la precisione, Sciascia non fu allora impiegato di nessun
Consorzio agrario – solo di un precario organismo postbellico, l’UCSEA, se non
andiamo errati.
Sciascia e
la mafia (racalmutese); Sciascia e la liberazione americana di Racalmuto;
Sciascia e la locale Democrazia cristiana; Sciascia e comunisti e socialisti;
Sciascia che acquista i campi della Noce; Sciascia che vi coltiva viti e ulivi «da cui ricava qualche bottiglia di vino e
poche damigiane di olio, in proprio, a guisa di fluidi vitali che lo legano
alla patria genetica»; sono noticine del libro, deliziose ma molto
incongrue per abbozzi storici o meglio microstorici. Avremmo tanto a che
ridire.
Nell’agosto
del 1990 Domenico Porzio moriva improvvisamente; “stava lavorando alla stesura
definitiva del testo delle sue conversazioni con Leonardo Sciascia”, scrive il
figlio Michele Porzio nell’introdurre Fuoco all’anima. Soggiunge di essere
stato proprio lui ad “impegnarsi nella revisione definitiva del testo”. Non
mancò peraltro di «ringraziare la signora Maria, moglie di Leonardo Sciascia,
per il suo interessamento a questo lavoro e per i preziosi consigli e
chiarimenti profusi durante la realizzazione». Perché poi quel libro – edito da
Mondatori – sia stato ritirato dalle librerie e non più ripubblicato, magari
con rettifica dell’autore in autori e con Sciascia in veste di semplice
intervistato, resta un dilemma.
Il libro è quanto di più bello, semplice,
melanconico possa attribuirsi a Sciascia.
Racalmuto ne possiede due copie: una
sta in biblioteca; l’altra è in dotazione al Circolo Unione.
Da lì
traiamo spunti, guizzi e verosimiglianze di una Racalmuto rievocata, nel punto
estremo dell’occaso da Sciascia: se quanto Michele Porzio mette in bocca al
grande Racalmutese non è vero, è però molto verosimile. E tanto basta al microstorico che qui scrive.
Spesso di Racalmuto, si vuole rappresentare solo ciò che il "grande Racalmutese" ne pensava,ben venga questa "microstoria" che spoglia le vesti a "Regalpetra" facendo apparire "lu paisi" per quello che è,con i suoi pregi e difetti e dove
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