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domenica 12 maggio 2013

bis in idem



 

Scrivo questa nota aciduletta in serenità senza acrimonia, quasi divertito. Certo a venire indispettito da sacerdoti del museo degli errori di Aldo Gabrilelli non è molto sollazzevole. Ah provesso’guarda che non mi importa un fico secco se quale dietro a vocale non si apostrofa, se si parla mascolino. Oltretutto quel lapsus non è mio: è di uno che sta subendo tutti gli oltraggi alla sua umanità, definita ostativa, ma il ridicolo di precari in eterna attesa a passare di ruolo, maniaci di matite bicolori, l’ha potuto almeno quello dribblare. Ma guarda che là hai messo l’accento sulla e che è congiunzione; ma no è volutamente verbo, rafforza il concetto. Ma alle scuole medie non è consentito. Ma che vuoi che ad ottant’anni torni al ginnasio? ci stetti dal 1945 al 1950 (allora i cinque anni si chiamavano così, con bel termine classico; vero che si diceva punto interrogativo che guai a dirlo ora, in tempi di punto di domanda). Pinzillacchere, direbbe Totò: concordo.

Ed eccoci all’erudizione storica: qui le cose si fan ardue. Veneziano non bruciò in un carcere del Santo Ufficio. No, vengo erudito e mi dà tedio:

Non in quelle del Sant'Uffizio ma "nelle prigioni di Castellammare, in Palermo, a causa di una esplosione di polvere da sparo dell'artiglieria, posta nel magazzino delle carceri", come precisa, e questo ti farà piacere, un altro racalmutese, il poeta-notaio Giuseppe Pedalino, in un libretto che contiene i proverbi dialettali del Veneziano e, a conferma della considerazione del suo poetare in siciliano, i versi del Cervantes a lui dedicati: "El cielo que el ingegno vuestro mira...". "Il ciel, che tanto ingegno in te rimira...".

A me Pedalino non piace: prima fa le carte false per farsi dichiarare sansepolcrista e poi strilla se per un omonimo dell’abate Vella di Grotte ha qualche guaio dalle questure (per sua fortuna sottoposte a bravi grandi sbirri racamutesi). Come poeta mi dice nulla: quasi tutti siamo capaci di tradurre dall’italico linguaggio allo sciapito vernacolo. Chi ha letto le quartine del Veneziano si accorge che scrivere versi ispirati in dialetto è tutt’altra cosa.

Io il Veneziano lo ricordo solo per qualche spiegazione datami dal maestro Sciascia, se non ricordo male a proposito del carcere in cui morì un certo inquisitore per le muffole di tal sedicente diacono Matina. Sarà Castellammare il carcere, ma sempre del sant’uffizio era (credo la casa del goliardo a Palermo di fronte al quale c’era un sottoscala ove si mangiava tutto a metà, mezza bruccetta, gridò una volta un irato compaesanuzzu nostro perennemente iscritto a non ricordo quale facoltà – miseria d’altri tempi, la nostra.

Ma sto Pidalinu picchì Sciascia manco lo vede? Non l’aveva letto? Certo Sciascia era stullicusu. Non volle accreditare nessun racalmutese come magari bella promessa del bello scrivere. Perché? Uno, che sol perché aveva un nonno bizzarro, voleva a tutti i costi diventare scrittore, scrisse un manoscritto, lo passò a Giacomino acciocché lo passare all’eremita della noce e lo accreditasse magari ad un attore vernacolo di Catania. Giacomino tentò. Sciascia finse di dare uno sguardo. Forse lo lesse. Poi chiamò Giacomino: e chi ta ddiri; si continua forsi arrinesci! Ta addiri però ca cu sti tempi ca currinu nun cci capisciu nenti; chiddu ca mi pari nnutili, avi un successu assà di tunnu. Donaccillu . eh .. eh ..

Naturalmente ci persi nna vintina di munuti pi diri chiddu ca dissi. (Preciso: qui cerco onomatopaicamente di rendere la lingua parlata, cosa diversa da quella colta o letteraria che dir si voglia. Molto meglio di me qualcosa del genere mi pare che il Sommo ebbe a dirla nel prefazionare OCCHIO DI CAPRA.

Torno al Veneziano. Provocato, cerco di saperne d più. Leggo:

In campo poetico, il petrarchismo allora dominante trova modo di esprimersi sia in dialetto con Antonio Veneziano (1580-1593), autore di un canzoniere in due libri intitolato "Celia", sia in lingua toscaneggiante con le Rime di Argisto Giuffredi (1535-1593).

E qui una folgorazione: Perché Carbone, Petrotto, Taverna, Borsellino. Liotta, Cutaia. Martorana (donna), Barravecchia (donna), Matrona ed altri letterati che non conosco non ci rechiamo a frotta dal Romamo messinese commissario e diciamo noi vogliamo fare opera culturale al Teatro Margherita. Noi mettiamo in scena la “CELIA” del Veneziano. Jannello credo che ci seguirebbe. Gli faremmo fare teatro e così si calma un po’.

A me preme di mettere in scena L’EDIPU di un favarese, testo sublime in lingua della nostra costola staccatasi a Favara. E’ testo che regge il passo a qualsiasi traduzione nell’italico idioma di un tal SOFOCLE, greco.

P.S. – L’unica correzione che mi aspettavo non venne e cioè “un tal di prima” da identificare con “un tal di grado”.

P.S. n.2 -Interpello Giacomino e finalmente mi dice il nome del mancato romanziere negletto da Sciascia: un soggetto molto strambo analfabeta con la mania della scrittura. Non sta più a Racalmuto. Tolto Giacomino, il mio excursus regge tutto e l'ira del neofita romanziere che non riesce a carpire una sollecitazione sciasciana con un grande attore comico catanese resta tutto.

P.S. n. 3 Col provessò le cose si sono tutte addolcite e viviamo entrambi in simbiosi letteraria e bloggistica: bizzarro lui, bizzarro io tutto finisce in bizzarria al quadrato.

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