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martedì 18 giugno 2013

Storia religiosa di Racalmuto (seconda puntata)


GLI ESORDI STORICI


Su interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il PIRRI non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S. Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.

I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso,  e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).

Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.

Nel 1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato in Sicilia per raccogliere il sussidio che  doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’, 3 per le agiate  e cioè ‘qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. PERI I.: LA SICILIA DOPO IL VESPRO  - LATERZA, 1982, pag. 235). Ill 29 marzo del 1375, il pio  collettore (o suoi emissari) giungeva a RACALMUTO e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il ‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto  (cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili.   In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del TINEBRA-MARTORANA hanno una qualche attendibilità - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale  lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al  48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.         

Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.

Abbiamo motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata  sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di   paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai patronimici. 

Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d’Aragona.                            

Non è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico - lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296. 

Per avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti andrebbe più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba.     

        Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo  calcolare in   meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette  verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. PICONE - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del  tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni  dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (SALAMUNI, cfr. atto di matrimonio dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.                                     

        Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il PIRRI, sarebbe stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del COLLURA, prima citato, dissolvono quella tradizione, così gradita al TINEBRA MARTORANA o a EUGENIO NAPOLEONE MESSANA. Il documento che ha dato adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo  momento aveva indotto in errore lo stesso P. Collura.            

        L’analisi attenta fa luce sul fatto che trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali RAHALBIATH’  la quale è gravata verso la curia vescovile di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di ‘Racalmuto, ma di un casale non lungi da Castronovo’ (cfr. Paolo COLLURA, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092  - 1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi  nei secoli, si spiega forse con l’interesse della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si  premette che Roberto di Malconvenant aveva ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita. Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.  

        Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S. Margherita, che probabilmente va identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella  seconda metà del sec. XII pagava come censo tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf. GARUFI: I documenti  inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf. l.c. pp. 190-192) si sarebbe indotti a pensare che essa possa essere localizzata in quella zona; tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza che si tratta di quella chiesa attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il paese di S. Margherita Belice (cf. SCATURRO, I, p. 246)”.

        Svanita la prova di un luogo sacro risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo potesse  sorgere un centro agricolo, per esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto. 

        Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in disarmo,  vi costruisce una chiesa (una chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel 1310 è operante ed il suo presule, MARTUZIO DE SILOFONO, versa un’oncia al papa per le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: ALIBITHUMEN, HBEN EL CHASSAR, SELLEM EBLIS, MIRRIARAPIP ABDELCAI, MAIMON BIN CUIDUEN, hii quinque’. Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ‘ Si quis - aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite  Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis peremniter percipiat’. 

Con siffatta benedizione, anche  Racalmuto ebbe a prosperare.     

Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle RATIONES CALLECTORIE REGNI NEAPOLITANI - 1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter Angilus de Monte Caveoso  pro officio suo sacerdotali quod impendit in Casali RACHALAMUTI solvit pro utraque (decima)......tt. (tarì) IX».     

        Si rammenti che  30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S. Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura  delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’ secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per  due decime dei primi anni dieci  del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.              

Dei saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba, si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che  troviamo negli archivi del cinquecento, seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la  scena e sono l’alta borghesia del paese.   

Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i D’AMELLA, i LA LOMIA, gli UGO, i PIAMONTISI ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di Racalmuto. Alcuni loro eredi  prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì. 

Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. SAVATTERI, BUSCEMI, SCHILLACI, RIZZO, BONGIORNO, CHIAZZA, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi. Lo comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero titolo esemplificativo:  

SAVATTERI (provenienza: Mussomeli  7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di Vito et   Angila Carlino cum Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito D’Amella et di multa quantità di personj».

IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO


Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 ([1]) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente ci interessa in questa sede.([2])

Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.

Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino ([3]):

Il documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. ([4]) Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?

Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

GLI EBREI  A RACALMUTO


La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. ([5])

Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento  interessante e che va riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra. [6]

In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.

Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro  - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -  e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.

L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.

La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che  gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento  con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.

E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.

Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.



[1]) Ci riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401)  pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
 
[2]) Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In particolare, ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
 
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e Marchisia PREFOLIO,  ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato. Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione.  [XI IND.]
 
2. - Costanza CHIARAMONTE,  come figlia unica di Federico suddetto, successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze, Antonino del CARRETTO, M.se di Savona e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti ... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania, agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine Siciliana, f. 228-229).
 
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre, per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli; i beni di Sicilia li cesse al fratello.
 
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R. Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata. Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è segnalato in modo impreciso]. .»
 
 
[3]) Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398 [Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone] «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai  grati riconoscimenti. E così  apprezziamo quelli che sappiamo essere  i morigerati vostri costumi di vita  di cui v’è generale stima e nei quali noi siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda, l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità apostolica.
Ai nunzi ed agli incaricati presso il venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti termini giuridici.
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
 
 
[4]) Il Pirri a pag. 730  "AGRIGENTINAE ECCLESIAE" della sua SICILIA SACRA scrive:
«18. can. S. Margaritae [10° Canonicato di Santa Margherita in Racalmuto], di ejus fundatione in oppido Rhalmuti vide supra ad ann. 1108. an. 1398. ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex Martinus dedit Gerardo de Fimio in lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib. f. 316. habet mediam decimam oppidi unc. 56.»
 Espliciti  in questo passo i richiami ai documenti della Cancelleria e dei Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi si può consultare l'opera pubblicata 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi - BENEFICIA ECCLESIASTICA - a cura di Illuminato Peri - G. Manfredi Editore Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi si legge: «CANONICATUS AGRIGENTINE SEDIS PREBENDA SANCTE MARGARITE RAYALMUTI - [316] - Cum ob rebellionem et nephariam proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum contra serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus agrigentine sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine dioecesis vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte sufficienter impensa canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio patronatu presbitero Gerardo de Fino contulit et concessit, quemadmodum in ipsius domini regis Martini provisione in regie cancellarie libro anni 1398. VI. inditionis in cartis 137 registrata diffusius est videre.
Unde per verba illa, scilicet: 'Auctoritate apostolica in hac parte nobis sufficienter concessa' notandum est quod Sicilie reges a summis pontificibus perpetuam habuerunt prerogativam et potestatem conferendi omnia regni beneficia. invenitur enim reges ipsos non tantum beneficia regii patronatus, verum etiam alia ad prelatorum et aliarum personarum collationem spectantia contulisse, prout superius pluribus in locis expositum est.
Nunc autem anno 1511 currente.»
 
[5]) CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA  - edito  dalla SOCIETA' SICILIANA PER LA STORIA DI SICILIA -  Documenti Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°  12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX - Palermo 7 luglio 1474,  Ind. VII.)
 
[6] ) «Il Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo  diabolico  spiritu dicti  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  la qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu  fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta l’altra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono. et trovandoli cum ydonia  et  sufficiente pligiria de restituirili ad omni simplichi requisicioni di la  regia  curia li restituiriti a li heredi di lu  dictu  iudeu. preterea  perche multi audachi et temerari persuni li quali  poco timino  la iusticia presummino in la chitati di girgenti  parlari et  usari  alcuni prosuncioni et adminanzi ac iniurij  contra  li iudei  di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti  et scandalu  non  senza disservicio di la regia curti.  a  li  quali inconvenienti volendo debitamente providiri actento chi li  iudei sono servi di la regia cammara  et non si divino lassari  indebitamente   vexare ne molestari. vi comandamo chi eciam vi  digiate conferiri  in la dicta chitati di girgenti per li lohi soliti  et consueti  farriti voce preconis emictiri banno puplico  sub  pena vite et publicacionis bonorum et altri a vui meglo visti chi  non sia  persuna  alcuna  digia ne persuna  cuiusvis  condicionis  et gradus  chi digia palam vel oculte de die nec de nocte intus  nec extra civitatem offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.  ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli  ne  loru beni re facto verbo et opere. et  chi  lo  capitaneo iurati  gubernaturi di li iudei et altri officiali  digiano  ipsi iodey  favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite  li volissi offendiri et molestari. lu quali banno post eius  pubblicacionem   farriti reduchiri in scriptis ut appareat in  futurum. et si alcuno volissi dimandari iusticia  oy incusari alcunu iudeu digia  compariri davanti di nui et farrimo debito complimento  di iusticia.  in modo chi cui havira commissu malificio et delicto sarra debitamente castigato. Nam in  premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per  presentes.  per  li  quali comandamo a tutti et  singoli  officiali  et persuni  di  la chitati nec non a lu nobili baruni  officiali  et persuni di lo dicto casali chi in la execucioni di li  sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano obediri  et assistiri  ac  prestari omni aiuto consiglio et  faguri  et  loro brazo  si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti  nec contraveniant aut aliquem contravenire permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco applicandarum. vui vero  in la execucioni di li dicti cosi vi haviriti et  portariti in tali modo et omni quilla diligencia  chi pozati  meritatamente essiri  inanzi  nui comandatu. Dat. panormi die VII  Iulij  VIIe Indicionis  M° CCCCLXXIIII°. post datam. constituimo a vui  dicto nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis  octo pro  quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat.  ut supra.
Lop Ximen Durrea»
Cancelleria, vol. 130, pag. 332 - R. Protonotaro,  vol.  73, pag. 160

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