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venerdì 5 luglio 2013

Agato Bruno, pittore insigne, ha visitato le Favole della Dittatura di L. Sciascia da Racalmuto.

Un imbecille, affetto peraltro da codardia, ha creduto di avere titolo per dileggiare l'opera favolistica di Agato Bruno senza manco averla ancora vista. Usa ovviamente l'anonimato, il colpo di lupara dietro la siepe, giustificando così il provvedimento della Cancellieri.
Al contempo mi accusa di avvalorare pittori e pitture a suo avviso di nessun valore "non degno di me" insomma. Bontà sua. Ma io lo penso, lo dico e lo ridico: non sono critico d'arte. Sono daltonico e non riconosco i colori. Ho solo un po' di scrittura e di questa mi avvalgo per i miei svolazzi microstorici, per le mie diatribe politiche, per le mie censure verso i tanti piccoli, insignificanti manigolducci di paese.
Chiarissimo però che Agato Bruno è un grande pittore di fama internazionale. Riporto qui critiche ed apprezzamenti insigni. L'anonimo detrattore si reputa davvero più colto e più competente delle firme sotto segnate? Arriva a tale punto di follia autoesaltante?
Di mio aggiungo quanto ebbi già modo di scrivere nell'estate del 2006: "Agato Bruno, per me, è sempre sincero sino all'autocritica politica, e credo che ben si ambienti  in questa terra racalmutese satura di contraddizioni, eppure vogliosa di genuinità sino alla macerazione, sino alla tortura dello spirito. Per chi, come Agato, sa anche 'ri-guardare', in grande, con ilare esuberanza cromatica, questi uomini, spesso cupi, così diversi da lui, vengono sussunti ad intimo termine di confronto per quella necessità di contrapporsi a ciò che non ci è simile, che si snoda nel fioco, nel rappreso, nel malinconico dissolversi.
Da qui gli spunti, gli umori, gli ammiccamenti, le volute pittoriche, gli onirici 'ri-sguardi' per una godibilissima pittura, suggestiva, ammaliante che Agato Bruno [volle] esporre al Castello Chiaramontano a futura memoria - diremmo noi maldestri fruitori di luoghi comuni - di questa singolare vicenda umana, di questo approdo nel mondo sciasciano, di uno spirito ilare e profondo, diverso eppure convergente, di un ibrido sconcertante ma rilucente di mirabile mania."





CRITICHE SUL PITTORE AGATO BRUNO





Attorno il pane

Provocatorio in certa misura fu allora, e volutamente in certa misura ambiguo, il titolo “Attorno il Pane” per la mostra che Agato Bruno tenne nel 1983 presso la galleria “Due Ruote” di Vicenza, diretta da Virgilio Scapin. Provocatoriamente  riprendiamo ancora quel titolo, che non tutti compresero, chiarendo – per taluni che si ritengono fini intenditori di letteratura e sono invece schiavi di formule e stereotipi – che né allora né ora siamo ricorsi in un “lapsus calami”,  e tantomeno in imprecisione di scrittura. Non si volle dire “Attorno al Pane” che ripeteva un modo antico (e di alto lignaggio) di titolazione ben acconcio per indicare il tema catalizzatore di riflessione e dialoghi sviluppati su un piano squisitamente letterario e filosofico: pensiamo al “De amicitia”, al “De senectude”, al “De divinazione” di Cicerone per non dire il “De tranquillitate animi” di Seneca e il “De consolazione Philosophie” di Beozio: Si volle dire e affermare- semplicemente o, se volete crudamente- una valenza assertiva, cioè il senso molto più ampio di una presenza soggettiva, rispetto ad una funzione più ridotta come la pura constatazione della presenza o della identità: valenza dunque ben più che dichiarativa, ben più che… amara fronte delle asserzioni magrittiane, ad esempio. Insomma l’argomento era il pane –essenzialmente il pane- nella sua fisicità, nella sua immediata riconoscibilità figurativa, e quindi nella  sua tautologia al di qua e al di là del simbolico ( il simbolismo non costituiva per l’autore, allora, uno specifico punto di partenza o di arrivo per le sue comunicazioni). Ed era sufficiente proprio la tautologia perché dietro ogni elemento materiale, dietro ogni comportamento umano si potesse individuare uno spezzone di racconto,  l’ “incipit” di una storia esistenziale. Il pane, dunque, nella sua prima e vera valenza di fatto esistenziale, rappresentata nella ben conosciuta corporeità figurale e capace di dilatarsi e di espandersi oltre la finitezza fisica. Era questo il senso del lavoro di Bruno, allora. E questo senso interpretò, e in modi  pertinenti sviluppò, la mia poesia stampata su un piccolo tagliere di legno che accompagnò la mostra vicentina. Che quella significanza assertiva fosse coscientemente perseguita nel lavoro di Bruno e con precisione trasferita in un titolo da alcuni contestato, risulta ora confermata dalla nuova antologia pittorica dell’artista casertano che Roma conoscerà in anteprima e per la quale proponiamo il titolo “Attorno il pane  (n° 2)”. Anche qui, ancora qui il pane: il pane intorno a noi non come emblema o simbolo, né come bandiera di una carità pelosa di un filantropismo in ghette, di un populismo ovvio, di una ideologia rivendicativa. Il pane intorno a noi è presenza, non dono, né miracolo, anzi è realtà fattuale, è storia, è conquista, è cultura che permea i giorni e le memorie del presente e del passato per chiunque di noi, per la stessa Maria Antonietta prodiga di “brioches” (e il richiamo alla regina di Francia –come si vedrà- non è gratuito né superfluo). Anche qui, ancora qui il pane, divenuto però il fulcro di una ricerca più raffinata, più sottile e penetrante rispetto a quella condotta nei primissimi anni ’80 quando l’artista si costrinse non solo ad un rapporto monotematico (di chiara valenza esistenziale, come si è detto), si costrinse anche all’impatto duro con la grafica: tra l’esercizio del disegno a china o a matita e l’esercizio dell’incisione con lo scavo del bulino e degli acidi. Si, allora Bruno si costrinse a scavare, con mezzi poveri e rudimentali, e a far emergere la cruda dimensione esistenziale: e furono squarci, interni di case contadine ed operaie ben prossime alla sua formazione umana, con testi popolari e borghesi proprio del suo “habitat”. Dopo quindici anni scanditi da esperienze pittoriche molto ricche, il cui punto di fusione più alto è il telero “Ri(s)guardi” presentato a Gubbio nel 1991 e ad Anagni nel 1995, Agato Bruno torna con i nuovi racconti del pane. I fili che l’artista casertano ora mette insieme per dare struttura e forma ai nuovi racconti sono ben più preziosi, vengono da antiche manifatture, da manifatture illustri sulle quali la storia e l’arte hanno impiantato pagine importanti. Fra questi lacerti emblematici che si chiamava e ancora si chiama “Terra di Lavoro” Bruno ritorna sull’abbrivio del riguardare appunto all’indietro, non per passione di archeologo o storico, ma per compito d’artista che vive e intuisce il presente e dai reciproci riverberi delle stagioni presenti e delle passate trae materia per la sua invenzione/comunicazione artistica. In questo scorcio finale di secolo, che coincide con la conclusione di un millennio, pesanti nubi offuscano l’orizzonte dell’umanità: l’incidere lento e inesorabile del deserto, ad esempio, e gli incrementi demografici mondiali, per non dire di altri rovinosi squilibri che minano il vivere e il sopravvivere sulla faccia della terra. E ancora una volta non può non tornare in primo piano il tema del pane, atavico problema di generazioni e generazioni che ora nuovamente Bruno ripropone come fattore esistenziale, come valore esistenziale, ma anche come elemento di una cultura non solo materiale. Se la nostra storia, se la civiltà dell’uomo non possono prescindere da questo sostegno basilare della vita quotidiana, sappiamo anche che una rivoluzione non si fermò innanzi alla provocatoria offerta di “brioches” da parte di una regina. Quella rivoluzione ebbe il passo lungo, superò le Alpi e dilagò fin nella “Campania Felix”dei Borbone: i francesi a Caserta entrarono nel 1806 e condizionarono perfino la manifattura del pane. Alla tradizionale pagnotta rotonda si aggiunse la “pagnotta alla francese” caratterizzata per alcuni tagli superficiali sulla crosta superiore, e al lungo filoncino napoletano si aggiunse “lo sfilatino alla francese” impastato con fiore di farina, bianchissimo e leggero, dalla crosta croccante per i rilievi e i tagli obliqui nella parte superiore: insomma una versione più larga e più corta della baguette, dal peso di circa 500 grammi(cfr. Domenico Ianniello, “il pane francese a Caserta”, in rivista “Frammenti anno 2° -gennaio 1993). L’innovazione riguardò, quindi, non solo la qualità del pane, ma anche i tipi della panificazione locale. Da poco meno di 200 anni il pane a Caserta si fa cosi. Bruno viene a conoscenza di questo fatto storico e  questo piccolo evento rimette in moto il meccanismo dell’immagine, saldamente ancorato a taluni capisaldi: la Reggia Vanvitelliana, S. Angelo in Formis, le “matres matutae”, le sete di San Leucio. Bruno rivede questa testimonianza e quelle pagine dell’arte /Bosch, Bruegel, Piero della Francesca) che soggiogarono la sua sensibilità e le ricontestualizza trasferendo tutto intero il “peso specifico” dello stralcio architettonico o artistico o artigianale. Cioè gli squarci del Palazzo Reale e della Basilica di S. Angelo in Formis, cosi come le misteriose “madri di tufo” sono state estrapolate e riproposte con tutta la loro forte “personalità”, anche nei dettagli, come “campi” non estrinseci, né refrattari al colloquio con altri capisaldi dell’arte italiana ed europea. Non solo, ma il dialogare di Bruno – che va a sussumere spirito e forma della rivoluzione francese, e di questa anche le propaggini che si attestarono nella città voluta da Carlo III di Borbone –fonde storia e arte, vita e cultura in una reinvenzione talora ludica, talora irridente, talora ironica, talora amara. Il pane come elemento non di mera raffigurazione, ma di reinterpretazione svolge appunto un ruolo “maieutico” con la sua elementarità rispetto a riproposizioni e a ipotesi culturali complesse. Se la sostituzione dei fantolini sulle braccia della madre di tufo si pone in chiave di lettura diretta e immediata (la “mater matuta” come dea della fecondità, dell’abbondanza ecc.), ben pi ù sottile la riflessione pittorica sottesa  al lavoro “ipotesi per una pala” nel quale una “Mater”  è sospesa al filo che discende dalla volta vanvitelliana del balcone reale con evidente richiamo alla pala “Sacra conversazione” di Piero della Francesca conservata a Brera. Se nel vestibolo della Reggia casertana può sorprenderci un cappottone appeso ad una colonna, sovrastato da una coppola che sembra piuttosto una pagnotta tonda, mentre da una tasca fuoriesce una “baguette”  (anzi lo sfilatino alla francese), Bruegel calato al sud celebra (v. “la Mietitura” Metropolitan Museum of Art, New York city) nel parco vanvitelliano la mietitura intorno ad una albero: forse un rinato Albero della Libertà. Opera felicissima questa, intitolata “se Bruegel venuto al sud…”, anche perché  nonostante la serrata trama dei richiami storici – culturali – iconografici l’autore si sente appagato da una propria interna libertà. E cosi via, da “Pioggia di fiori, pioggia di pani, a “Camposerico perché il pane ruoti, fino ancora a “Il pane non ha prezzo” e “Arrivano i francesi”, l’ironia (che è odio-amore) di Bruno quanto più appare legata e legarsi a contesti artisticamente “imperiosi” di per se intangibili, tanto più sorprendentemente trova l’appiglio perché nella visione data o ipotizzata compaia – subdola presenza – lo sfilatino alla francese. Superfluo ogni ulteriore  suggerimento di lettura per la singola opera o per l’intero ciclo, tra l’aristocratica “brioche” di Maria Antonietta e il popolare “rivoluzionario” sfilatino. Ancora  una volta Bruno conferma il più autentico interesse per la condizione e il destino dell’uomo, a partire proprio da quel livello esistenziale – il vivere, il sopravvivere – che è del singolo come dell’intero genere umano. I tempi della storia e della civiltà sono stati quasi sempre contrassegnati dalla lotta per la sopravvivenza, ancor prima delle pagine scritte e delle immagini rupestri; e via via  l’assalto al forno di manzoniana memoria. “Pane amaro” di Silone, la sequenza della conquista del pane  in “Roma città aperta” di Rossellini. Storie di ieri, di oggi purtroppo, e purtroppo di domani. Tutto questo è presente e non soltanto sotteso nei lavori bruniani di questa metà degli anni novanta. Il millennio sta per essere doppiato lasciando alle spalle un secolo ben ricco di rivolgimenti ideologici e culturali. Abbiamo assistito alle mutazioni, agli stravolgimenti e agli snaturamenti della pittura e della scultura fino a ritrovarci nuovamente con pennelli e scalpelli, tra calchi e forme. Non è il caso di ripercorrere qui gli stravolgimenti di una storia complessa, che chiede di essere decantata ancora di scorie e di esibizionismi. Avviandoci alla conclusione, basta qui dire che Bruno no è stato mai in realtà un “a-figurativo”. Si, la sua partecipazione al gruppo “ Proposta 66 – Terra di Lavoro”, come altrove abbiamo rilevato, fu laterale; ed i suoi successivi esercizi d’arte non sono mai pervenuti alla dissoluzione della pittura: se or qui, or li “a-figurale”, ma comunque dilatata o aggrumata su tessiture pittoriche, tra bagliori  accecanti e voluttuose profondità, che non hanno mai inteso annullare la forma, laa figura, la cosa. In queste opere recentissime Bruno porta a sintesi la sua accuratezza costruttiva, il suo dipingere terso, i nodi di luce o di buio in impaginazioni che alla frontalità preferiscono i tagli verticali, i punti di vista obliqui. Rispetto alla staticità , alla stabilità, alla monumentalità (in sostanza) l’artista ci induce a ripercorrere visioni trasversali oppure verticalmente strette che ci consentono di andare un po’ oltre gli strati superficiali ed ufficiali, e di comprendere quindi i meccanismi e le logiche (antiche e meno antiche) del predominio e della conservazione del predominio.

Roma, aprile 1996

 

                                                                                                                             Vincenzo Perna




Agato bruno

Un mondo semplice, chiaro e immediato, espresso attraverso un linguaggio artistico che gli appartiene, quello di Agato Bruno, profondamente legato alla sua terra d’origine dove ora ritorna con questa mostra personale di una ventina di opere realizzate recentemente, alcune della quale pensate proprio per questi spazi. Per certo diventa complicata e direi intenzionalmente  da lui stesso non auspicata una precisa e facile etichettatura della sua produzione che, per tali motivazioni, si connota di un’ evidente originalità. Uno spirito libero, fuori dagli schemi e dalle mode, dotato di una ben precisa identità e sentimento ideologico cui ha mantenuto fede nel tempo, aspetto alquanto raro oggi in quanto siamo sempre più adusi a facili quanto rapide virate e cambiamenti di bandiera, cedendo a opportunismi spiccioli, di ogni genere, che vanificano il credo più autentico e solido. Nell’affrontare alcune considerazioni sulle sue opere avverto la necessità di indugiare sull’uomo Agato Bruno che, cosa altrettanto rara, pienamente coincide con l’artista, inteso ancora in senso tradizionale di uomo –artista, attento e curioso studioso, fine operatore culturale, già docente e preside per molti anni nelle scuole  secondarie di istruzione artistica, che ha relativizzato tutto questo suo bagaglio di esperienze motivanti la sua ricerca attraverso una chiara e coerente appartenenza a un senso civico perseguito eticamente. Un’attività che non può non riconoscersi nella più conseguente appartenenza politica, vissuta on discrezione, comunque, pronta a confrontarsi lealmente e con una predisposizione innata rivolta a garantire il giusto rispetto reciproco, pur nel mantenimento delle rispettive posizioni, anche con chi non la pensa allo stesso modo e magari si trova  ideologicamente agli antipodi. Partendo da tali presupposti possiamo iniziare a prendere in considerazione l’odierna produzione collegata da un sottile ma ineluttabile filo rosso che cuce le opere, alcune delle quali, di primo impatto, così diverse per tecnica di realizzazione e apparentemente di soggetto. Nella sempre presente tematica sociale e politica, è, tuttavia, individuabile quale comune denominatore  di confronto, la natura e tutto ciò che da essa di fatto deriva nel bene e nel male in una sua positiva o deleteria o deleteria gestione. Il tipo di approccio e di osservazione primaria rivolta all’elemento naturale,, così come dovrebbe essere per ogni buon artista, lo conduce a fare arte nel pieno coinvolgimento e diretta partecipazione con quanto gli sta e avviene intorno. Dalla grande passione coltivata nei confronti del variegato intrigante mondo dell’incisione, in particolare di matrice nordica, soprattutto espressionista, solitamente dettagliata nei particolari e nelle  avvertito dall’autore dichiarate scelte ideologiche e politiche di denuncia, gli deriva la notevole attenzione rivolta sia agli strumenti di narrazione dei contenuti sia ai valori simbolici e formali nel rimando ai significati analogici dall’autore privilegiati. Così anche nei dipinti, come con parole appuntate su un quaderno che poi diventa libro, Agato Bruno parte da valutazioni espresse in merito a una natura matrigna e resa ancora più caotica dall’intervento interessato, avido e corruttore dell’uomo, utilizzando colori accesi a riempimento di un segno veloce che descrive pesci con bocche spalancate e biforcute terminanti con punte che ricordano tiare vescovili, edifici piacentini ani porticati in bilico e pendenti, giganteschi uccelli incombenti o rapaci sullo sfondo. Tutto sembra ricomporsi nella parte dell’orizzonte retrostante dove predominano tinte uniformi di colorazione oscillanti nelle diverse gradazioni del rosa e dell’azzurro. Dal primo olio si passa ai vellutati pastelli dove si avverte un soffuso richiamo all’astrattismo di Kandinskij, risolto, tuttavia, in un’accezione di maggiore consapevolezza interpretativa per quanto  concerne uno slancio sentimentale avvertito dall’autore a contatto con il paesaggio, espressione di una natura, in questo caso, senza dubbio  rigenerativa. Se nella crescita la natura viene costretta e avvolta da un drappo, essa riesce, tuttavia, a riaffiorare e a farsi strada creandosi un varco, e fuor di metafora, nonostante le ottusità di un potere becero e finalizzato esclusivamente a mantenere e potenziare all’inverosimile i propri esiziali interessi che proprio recentemente hanno portato l’Italia e gli italiani, come esplicitamente ci suggerisce Bruno, “alla frutta”. Da qui si passa ai palazzi rappresentativi del sistema, pubblico e privato si confondono, da Palazzo Chigi  al Grazioli, di triste, seppur recente, memoria, dalla villa di Arcore a quella in Sardegna trasformata per l’occasione, in discarica pubblica della mondezza già a suo tempo accumulata in eccesso nelle strade di Napoli, al Quirinale, sede del Presidente della Repubblica Italiana, ultimo baluardo e freno a una dilagante volgarità diffusa e che ancora si richiama con orgoglio a un’unità nazionale riecheggiata nei festoni e nei drappi tricolori srotolati sulla piazza antistante l’edificio. Questi ultimi lavori rivolti a descrivere la recente triste commedia umana di un berlusconismo imperante ma ora al capolinea, sono realizzati da Bruno cona la tecnica dell’acquerello, una tecnica difficile da padroneggiare ma molto sentita e ben assimilata dall’autore che, in tal senso, ottiene effetti di fattura briosa, raggiungendo risultati freschi e allo stesso tempo caldamente coinvolgenti risolti in un’armonia compositiva sapiente ed efficace, come d’altronde e parimente evidente nelle opere esposte per questa sua coinvolgente e interessante rassegna.

Simi  Saverio de Burgis



Caro Bruno,

 sembra che il mio destino sia sempre quello di sostituire all’ultimo istante le presentazioni, promesse agli amici, con brevi  lettere di augurio, causa pesanti e sempre più onerosi impegni di lavori imposti dal mio ufficio. Una sorta di piccolo “escamotage” non privo, per taluni, forse, del sapore, un po’ amaro d’una piccola presa i n giro, anche se ciò non è stato mai nelle mie intenzioni. Tanto meno per quanto di riguarda.

E’ vero che nel tuo caso avevo tentato disperatamente, anche perché conscio del periodo rappresentato dall’incauto ascolto di certi canti di sirene, ad esempio di quelli provenienti, in maniera così suadente, da talune persone come ad esempio il mio fraterno amico Mario ABIS docente di storia dell’arte all’Accademia di BB.AA. di Venezia, di prendere le dovute distanze e precisare i termini di un impegno in una prospettiva di tempo assai elastica. Poi, sollecitato dell’interesse, assai notevole, che molti dei tuoi disegni, tra l’altro, a mio avviso, destinati a riscontrare la loro definitiva, maggiore e più funzionale conclusione in soluzioni incisorie, ebbero a suscitare nel mio animo, commisi il malaugurato e imperdonabile errore di definire i tempi di questo mio impegno.

Ora la tua mostra non soltanto è definita nelle scadenze, ma ormai bussa alle porte, senza che abbia avuto la facoltà di stendere una sola parola.

Che dirti? Che fare se non , ancora una volta, chiedere scusa e ricorrere al solito “trucco” della formuletta legata alla letterina propiziatoria, non fosse altro che per riempire, in un modo o nell’altro, una parte dello spazio già preventivato e calcolato, per la presentazione, nella impaginazione del catalogo e dirti, ora tuttavia, con maggiore serietà, che gli auguri in questi casi, come nel tuo, ho sempre sentito di doversi esprimere non gratuitamente, ma soltanto a coloro in cui credevo.

Ritengo, infatti, che in questi tuoi fogli, dalla grafia intensamente elaborata e tecnicamente già assai raffinata, attestante, già, del possesso di un mestiere non trascurabile, portato a procedere in profondità, in precisi e costanti, crescenti verifiche, ritengo, ripeto, che in queste pagine vi sia, senza alcun dubbio, la testimonianza di un non comune impegno umano . Un impegno teso, in una, ci sembra, coraggiosa e chiara consapevolezza di scelte ineluttabili e necessarie, nella prospettiva di uno sforzo doloroso e drammatico di redenzione e di riscatto, di liberazione delle genti da condizioni millenarie sottomissioni, di rinunce, di paure e di angosce lontane, di pregiudizi, qui tradotti nella forte suggestione di cupe allucinazioni di una atmosfera che sembra chiaramente richiamarsi alla visione di un BOSCH.

Quell’impegno che, particolarmente in momenti come questi  di così sconvolgente travaglio di una nostra società in crisi, e nella misura del potenziale di fiducia dell’uomo in esso implicito, non può non suscitare profondo interesse e commossa tensione in quanti ancora fermamente credono nel possibile recupero dell’individuo avvertito nello spazio e nelle dimensioni di una sua reale autonomia e di una sua nuova, autentica dignità. Certo si tratta di una strada dura e di scelte che, come sempre si dovrà e dovrai pagare caramente.

La coerenza e il coraggio, ne sono convinto, tuttavia, non ti mancano e altrettanto convinto sono che, pur attraverso anche errori inevitabili e difficoltà, saprai garantire alla tua ricerca il costante punto focale di riferimento e di certezza nella verifica, rappresentato dall’uomo. Quell’uomo che oggi, non scordiamolo, è considerato il vero autentico e reale nemico di quella civiltà dei consumi, non disposta ad ammettere e ad acconsentire autonomie e libertà decisionali di sorta, in cui si identificano tragicamente i termini sempre più esasperati, e senza vie d’uscita, della crisi insanabile della società borghese.

Quindi, ancora una volta, auguri vivissimi pregandoti di perdonare il carattere maldestro, forse anche sgrammaticato e scorretto, di queste mie brevi e affrettate, ma sincere parole.

 

 

                                                                                                                                              Giorgio Trentin

 

Venezia, 23 marzo 1979    

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