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venerdì 6 settembre 2013

In definitiva, la vicenda emblematica di fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia


Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale locale. Non ci sembra un sacerdote molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.

Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano tutore in veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.

 

L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:

 

Die 28 octobris XI ind. 1597

Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.

 

Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.

 

Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne   (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).

 

L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo


 

 

Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora resta il mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.

 

Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui è disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza anticlericalismi incolti.

In una memoria del 1738 [1], quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.

 

Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).

 

Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.

 

 

La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.

Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.

Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto. Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni blasfema ironia..

 

Fra Diego La Matina (secondo noi).


 

 

Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere). Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti  riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([2]) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.

 

Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([3]).

 

Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.

 

Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti  .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»

 

Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il  presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([4]) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ammiccanti relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([5]).

 

Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella contemplata e suffragata dallo scrittore. Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.

 

Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».

 

 

Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.

Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.  Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ([6])

Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([7])

 

Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.

«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista,  e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [8]

E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.

La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica. Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.

 

 

Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente così letto:

Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do  [Gerlando] di Gueli.

 

Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego -  di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.

 

In definitiva, la vicenda emblematica di fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente gonfiate. Un fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece,  - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.

 

 

 


 

 

Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte dietro la nuca.

L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note [9] di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)

Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.

Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea. Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:

[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]

 

Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.

 

Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni. Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.

Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue preferenze.

Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova.

 



[1] ) Archivio di Stato Palermo: Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
 
[n.° 3] Relationes  Burgentium Terrae Racalmuti [f. 141-149]
[2]) Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della Matrice di Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore il padre fra Giovan Battista FALLETTA degli Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di santità, che solo in questi ultimi tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole oblio. Per volontà del vescovo agrigentino fra Ferdinando Sancèz de Cuellar, invero in esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso, per carenza di uomini e di mezzi.  Fra Giovan Battista Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre, anziché a S. Giuliano, dato che, come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre Congregationis per decretum sub die 26 augusti 1667». Ma il Convento riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
[3]) Leggasi quanto almanaccato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione Laterza 1982. Per inciso, è tutt’altro che provata la storia del priore agostiniano mandante dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e non 6) maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non della stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto.
[4]) Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno 1602: positiones D-M.
[5]) ASV - SCVR -  anno 1601: positiones  G-M.
[6]) ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28; 2169; 2170.
[7]) ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza: tutto però induce a pensare che si trattasse della parte antistante l’attuale Piazzetta Crispi. Il toponimo tradizionale del «cuddaro» sembra comprovarlo. L’attribuzione di quel macabro posto alle male esecuzioni dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di astioso anticlericalismo.
[8]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro quarto, pag. 335. Per un approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi: Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio  - pp. 255   e 262-263. 
[9] ) Cfr. catalogo su Pietro d’Asaro “il Monocolo di Racalmuto - Racalmuto 1985 - pag. 72.

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