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lunedì 18 novembre 2013

altre pagine di storia racalmutese



 

Possiamo essere sicuri che da settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con i contributi dell’AIMA.

Ma era la scena politica che si andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.

Approdiamo a momenti storici racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante. Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi, forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano. Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO  fu Ignazio,’  il 18 gennaio del 1875 un racalmutese, che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella appunto osannata da SCIASCIA. Negli ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria. Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi lo aveva  apertamente sottoscritto e rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del consigliere Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza far nulla', Paolo Baeri .  etc. Ma il libello, che viene recapitato il 25 maggio del 1896  a Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'.  In una reiterata lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso stile delle denunce di MALGRADOTUTTO  la successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un sistema indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani. Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore di 'una spesa barocca'   per distruggere la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi può essere più desolante situazione?»

Riconosco di avere sempre sospettato che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -,  abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi riesce incomprensibile il passo della sua  introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno, ... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada, edificandovi una casetta: ora è un secolo. »  Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.

Certo, povero lui!, molto ancora dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo 1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto 1621 (indizione anticipata, in  uso negli atti ecclesiastici dell'agrigentino).  Se «il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni astrologici che avevano presieduto alla nascita   ... del  mostro» V. pag. 182 della Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».

Fra Diego La Matina, poi, non potè essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180): questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno 1621 (IV IND.)  Sciascia non riuscì a leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma «iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il racalmutese che  tenne a battesimo il futuro frate agostiniano. 

Noi gli imputiamo anche l'avere ignorato che la madre di Diego la Matina era una  RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi con  Vincenzo la Matina il 7 ottobre 1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651 andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova, si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni  e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i conforti religiosi da P. Bonaventura da  'Cannigatti'.

Nell'anno 1620 - precedente a quello di nascita di Fra Diego - era invece nato Don  Federico La Matina figlio di  Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina  fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a pag. 197 op. cit. - va  riabilitata.

Sciascia ebbe ad equivocare maldestramente tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di Marc'Antonio Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto di battesimo del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra i registri  della Matrice di Racalmuto. Giuseppe TROISI, all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia  intento a comporre una versione  corredata da fotografie della MORTE DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA,  ne trasse persino una interessante fotografia. E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un articolo  pubblicato da MALGRADOTUTTO, su MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.  Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN, verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.

Se Sciascia lo avesse appena scorso, lo avrebbe senza dubbio fustigato.

A questo punto, il mio acre censore Nicolò Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole? Pedanterie?  Grette minchionerie?

Senza dubbio. Ma è appunto per questo che mi sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio in casa di MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo giornaletto locale mi ha impudentemente censurato.

Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se è uno dei due Petrotto Nicolò (figlio di  Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto'  nelle contestate colonie dei 'balilla' racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.

Non sono di antico lignaggio racalmutese i PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza' della Terra del Sale.  Questa famiglia  appare nei registri della Matrice solo sul finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo un ceppo affine che si fa chiamare GULPI PITROTTO .  Di un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo traccia negli atti di morte del l'11/10/1648 ed il primo di maggio del 1656 viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi Pitrotto figlia di Francesco e Giovanna Gulpi Pitrotto.  Un Gulpi Pitrotto lo troviamo addirittura quale teste nel matrimonio tra Chiazza Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il 9/5/1618.

Incomprensibilmente, a partire dal novembre del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di Giovanna di anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il cognome nel solo PITROTTO e da allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e - sia chiaro - onorevolmente nella Terra di Racalmuto.

 

Solo che chi scrive, alla stregua degli Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare presenze racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che risalgono, a seconda delle letture, al 1554 o al 1564.  Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per linea materna anche un PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue locale parlando le cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto» nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.

Questa "querelle" tra me ed il PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non può apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo agli scontro della fine dell’Ottocento.

«Si informa  - scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873 l'Ufficiale di P.S. in missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi di maggio  p.p.   i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e Stanislao D'Amico da Girgenti,  nelle ore del mattino vennero in questa, ove si  riunirono a certo Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual socio appaltatore dei Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso giorno, insieme al detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai nominati Ferrara Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato  in Grotte, civile, ed INGRAO  Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia  Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro , ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli stessi furono imputati e sottoposti a mandati di cattura  per la rivolta politica avvenuta in Grotte, nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono una condotta tanto riservata da non farsi colpire  dai rigori della legge e da qualunque possibile  vigilanza.»

 

E a Racalmuto? «In Racalmuto questo partito [repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è beffeggiato».

 

«Maestà, siamo alle Grotte» - citiamo da Rerversibilità di Sciascia - «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti - disse all'ufficiale di scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini che hanno sofferto il carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi prosperano la letteratura e le sardoniche rime in vernacolo.

 

Nelle sale del circolo tutte quelle “mene” ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle solatie ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e della tarda sera.  Una rissa mia, paesana, acidula con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare per dare il ritmo, se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei galantuomini nostrani.

 

*   *   *

 

Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente non colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo per capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della “riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi - nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano “scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo proviamo ancora, con una qualche ingordigia.

Racalmuto si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma  Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore.  Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai:  Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.

 

Il quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63  esercenti di miniere di zolfo (per converso solo  4 esercenti di miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e  quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma  molti sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella,   etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni  Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento. 

 

Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani   accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.

«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali  o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»

 

Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese  fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto di quella seconda metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo  scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro  ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.

«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]

«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda.  [...]

«Qua e là, tra le distese grigie del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il minerale grezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!

«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»

 

Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola:  «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavoro sui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»

L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ()

Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Saranno i primi a passare al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso nuovo regime. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilateralmente decisa dagli esercenti.  Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ()

Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesta sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali?: Risponde: Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.»

 

Racalmuto si consegnarà al fascismo dopo una frenetica corsa allo zolfo. Un indice è quello demografico che è bene qui segnare:

Abitanti di Racalmuto

Anno
N.ro abit.
Indici 1825 =100
1825
7.170
100
1831
7.806
108,87
1852
9.030
125,94
1869
12.252
170,88
1894
13.384
186,67
1901
16.029
223,56
1911
14.398
200,81
1921
13.045
181,94
1931
14.044
195,87
1936
13.061
182,16
1951
12.623
176,05
1961
11.293
157,50
1980
10.000
139,47


In  quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:

Comune di Racalmuto

Periodi
 
Incremento totale
incremento naturale
saldo migratorio
1861 -1 871
3,6
8,86
-5,26
1871 - 1881
20
18,43
1,55
1881 - 1901
09,65
13,26
-4,64
1901 - 1911
-10,8
11,32
-22,12
1911 - 1921
-14,6
4,19
-18,79
1921 - 1931
11,4
9,93
1,47
1931 - 1951
-06,72
9,97
-16,69

 

 


 

Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del 18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).

Rispetto alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:

Anno
abit. Racalmuto (A)
N.ro ind.
 (B).
abitanti prov. Ag. (C)
N.ro ind.
 (D)
Rapporto %
A/C
Rapporto % B/D
1901
16.029
100
371.638
100
4,313
100
1911
14.398
89,825
393.804
105,96
3,656
84,77
1921
13.045
90,603
369.856
93,92
3,527
96,47
1931
14.044
107,658
398.886
107,85
3,521
99,82
1936
13.061
93,001
407.759
102,22
3,203
90,98
1951
12.623
96,647
461.660
113,22
2,734
85,36
1961
11.293
89,464
447.458
96,92
2,524
92,30
1980
10.000
88,550
449.699
100,50
2,224
88,11

 

Rispetto al territorio dell’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.  Eugenio Napoleone Messana , lo storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al 1961». Quasi si trattasse di un fenomeno iniziato in pieno fascismo. Era invece, come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine dell’Ottocento.

*   *   *

Si è visto come per desiderio di Garibaldi sia salito al parlamento di Torino il deputato La Porta: un personaggio battagliero, talora equivoco, protagonista comunque di non poche battaglie parlamentari. I fatti del 1862 ebbero risonanza e risonanza arroventata in parlamento. Nella torna del 7 aprile del 1962 s’incardina la discussione sull’interpellanza del La Porta.  Si tratta dell’ «andamento amministrativo nella Sicilia». Il focoso giovane deputato siciliano è dispersivo, logorroico e non riesce a mordere  come vorrebbe. Molti prolissi periodi gli occorrono prima di introdurre l’oggetto della sua interpellanza: «noi deplorammo il favoritismo, la protezione governativa, la preferenza che il Governo accordava all’elemento della scacciata dinastia in tutti gli uffizi» finalmente inizia ad accusare per riprendere le fila del discorso sull’onda del ricordo «noi rimproverammo gli abusi, le violenze che alcuni agenti del potere esecutivo in Sicilia perpetravano a danno dell’elemento liberale, a danno di quell’elemento che godeva e gode la simpatia delle popolazioni.» Il riferimento al prefetto Falconcini è palpabile; l’eco della persecuzione del racalmutese Matrona, evidente. Ma abbiamo visto che il Matrona opportunisticamente ebbe invece ad accordarsi con il prefetto, scagionandolo da ogni accusa: la convenienza fece aggio sulla verità, segno non proprio di grande elevatezza morale dei conclamati Matrona.

Per l’on. La Porta, era stato vessato proprio quell’elemento che «rappresentò in Sicilia la iniziativa della rivoluzione del 1860, la capitanò, guidò il popolo al plebiscito del 21 ottobre e, qualunque volta la causa dell’unità nazionale o dall’opera dei retrivi  o dagli errori del Governo sia compromessa nell’isola, malgrado i torti ricevuti, non mancò mai al suo dovere.»

Il Laporta infierisce. «noi abbiamo accusato la lentezza, la trascuratezza governativa in materia di opere pubbliche; le strade, i ponti, i porti, o non iniziati, o lentamente o deplorevolmente avviati; il denaro pubblico con poca utilità speso; le leggi votate dal Parlamento per quelle provincie, sterile e derisoria parola.» Un ritornello, una posta del rosario che spesse volte, fino alla noia, verrà dopo ripetuta, in tutte le epoche, sotto i vari governi, persino fino ai nostri giorni. Dopo un anno e mezzo, francamente era solo retorica esigere chissà quali miracoli governativi. Ma dopo, col tempo, quel rosario amaro verrà recitato con ben più solida fondatezza.

Certo ha ragione La Porta ad ironizzare sui «rapporti dei prefetti che descrivevano l’isola beata e tranquilla e quasi inneggiante un cantico di benedizione ai ministri costituzionali.» In effetti c’era da fare una «requisitoria dello stato d’assedio, per dimostrare alla Camera quale fu specialmente il terreno, ove quel Ministero [il dimissionario Governo Rattazzi, n.d.r.]  esercitò le sue violenze, le doportazioni in massa, le fucilazioni senza giudizio, ogni atto, non dirò di Governo assoluto, ma dirò un’altra parola, dirò di despotismo ...» Qualche esagerazione, senza dubbio; ma un quadro nella sostanza terribilmente rispondente al vero. Altro che Falconcini, vittima di chissà quali ingiustizie!

Il La Porta scende a dettagli: «Il tenente dei carabinieri in Naro, provincia di Girgenti, annunziò pubblicamente che aveva bisogno di un esempio durante lo stato d’ssaedio in quella città; manifestò volere la fucilazione di un infelice Puleri Manto, e quella fucilazione fu eseguita. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Marsala è quello stesso che arrestava il signor Andrea Danna, il primo cittadino di quel paese. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Misilmeri [procedeva a ] 37 arresti che fece per pure ire personali. ... Gli arrestati dopo pochi giorni, riconosciuti innocenti, furono messi in libertà.»

Ma il quadro dell’ordine pubblico era in ogni caso desolante. «La sicurezza pubblica in Sicilia è ridotta ad un’amara delusione. Migliaia di renitenti alla leva, migliaia di evasi dalle prigioni battono la campagna; e già alcune bande si sono organizzate e specialmnete nelle provincie di Palermo, di Siracusa, di Girgenti, alcune bande che spargono il terrore in tutti i proprietari, che rubano, assassinano ad ogni momento.» E quanto ad Agrigento, «i proprietari stanno rinchiusi in casa; nemmeno si attentano di uscire in città. E’ raro che uno dei grossi proprietari di quel circondario non abbia già ricevuto un biglietto di scrocco, e non tema di uscire dalla casa per non incorrere nella vendetta di coloro che hanno richiesto una somma di danaro e che essi non si trovano in grado di pagare. Il barone Genoardi è stato tassato per cento mila lire. Il signor Vincenzo Mendolia è stato tassato per duecento mila lire, e così molti altri. [...] Il numero dei renitenti alla leva in quel circondario ascende a 600 per la leva del 1842, oltre poi quelli del 1840,1841 ed oltre 900 altri. In tutto tra renitenti alla leva ed evasi dalle prigioni sono 1650 nel solo circondario di Girgenti. [...] A pochi passi dalla città di Girgenti vi è un ladroneggio  organizzato colla sua burocrazia: coloro che trasportano zolfo appena usciti dalla città trovano cinque o sei ladri che ne notano il nome e impongono loro una taglia; al ritorno la taglia è esatta e il nome cancellato.»

Prende quindi la parola il deputato Ricciardi per ragguagliare su talune amenità: « Ho avvicinato ed interrogato ogni ceto di persone, cominciando dal principe e terminando all’artigiano, non ho udito mai voce che lodasse l’opera del Governo. [..] Quest’isola godeva sotto i Borboni di alcuni privilegi, i quali naturalmente doveva perdere all’apparire della libertà e dell’unità nazionale. Certamente un paese dove non esisteva la leva e che ha dovuto sobbarcarsi alla medesima, deve essere assai malcontento; quindi i cinque o sei mila refrattari di cui è forza deplorar l’esistenza. In Sicilia non v’era carta da bollo, ora non vi è solo questo, sìbene il registro ed il bollo, che han rovinato tutte le classi le quali viveano del foro. [...] Debbo dirvi ora una parola intorno alle carceri di Palermo ... Signori, in quelle carceri ho scorto cose degne del medio evo, cioè 1400 detenuti, di cui pochissimi condannati, i più tenuti a disposizione della questura, e non interrogati da tre, da sei, da diciotto mesi! Alcuni tenuti in celle nelle quali passeggiano come fiere in gabbia, e senza lavoro! Altri, tenuti in vastissimi cameroni in numero di 100 o 150, senza un misero pagliariccio; dormono avvolti in mantelli, e lascio immaginare a loro, signori, che cosa debba avvenire la notte in quei cameroni.»

La risposta del ministro Peruzzi è scontata: burocratica, evasiva, legittimista. Ma quelche spunto è degno di menzione: «... debbo osservare come disgraziatamente siasi verificato che taluni proprietari adoperano pei lavori di campagna preferibilmente dei renitenti alla leva ed altri che trovansi in questo stato extralegale, perché fanno pagar loro questa irregolarità di condizioni col prestar loro una mercede minore di quella che accordano agli altri lavoranti.»

Noi non abbiamo dubbi: a Racalmuto i galantuomini, grandi proprietari di terra, fecero fortuna a sfruttare quei poveri renitenti. Chissà i commenti al circolo di compagnia.

Il Peruzzi è tagliente nello stigmatizzare la manomorta ecclesiastica agrigentina. « La provincia di Girgenti è quella dove la maggior parte dei beni sono nelle mani delle corporazioni religiose e del clero. Io stesso, visitando la provincia di Girgenti, ho dovuto maravigliarmi, come dopo aver veduto una quantità di solfare vicine l’una all’altra, dovessi poi attraversare lungo tratto di paese senza vederne una. Ebbene, quel lungo tratto di paese era proprietà della mensa arcivescovile, o vescovile non so, di Girgenti. Quella mensa non voleva dare ad altri la facoltà di ricercare depositi di zolfo, né coltivarli né tampoco li ricercava e  coltivava essa stessa. L’industria stessa degli zolfi, o signori, non contribuisce per avventura alla maggior moralità di quelle popolazioni, e di questo possono convoncersi tutti quelli che hanno esaminato le condizioni nelle quali quell’industria viene esercitata.

«Inoltre la provincia di Girgenti ha avuta la disgrazia d’avere un’evasione di detenuti, dei quali una piccolissima porzione si è potuta riprendere, mentre degli altri che è egli avvenuto? Si sono forse costituite delle bande armate in quella provincia? Niente affatto. Tutte le ricerche fatte dalla forza militare sono riuscite inutili, ed ho quindi  motivo di credere che anche questi siano stati, per così dire, riassorbiti dal apese, che si siano sparsi per le barie borgate, per le varie masserie, per le varie solfare, e che di là facilmente si muovano a commettere i delitti. [...] Io ho cambiato il prefetto di quella provincia perché ho creduto che questa misura fosse indispensabile. Ho invitato il prefetto a propormi il cambiamento di delegati e di altri funzionari sotto i suoi ordini, scioglimenti di Consigli comunali e di guardie nazionali, ed egli mi ha risposto che effettivamente conviene adottare siffatte disposizioni. »

*   *   *

Bisogna dare atto ad Eugenio Napoleone Messa di avere bene inquadrato l’avvicendarsi dei sindaci di Racalmuto dopo l’Unità d’Italia. La successione dei sindaci nel ventennio successivo alla venuta di Garibaldi l’abbiamo vista prima. Oltre ai dati di cronaca del Messana, noi disponiamo di queste risultanze d’archivio.

Maggio del 1860

Al convento dei Minori sotto titolo di S. Francesco di Assisi di Racalmuto (convento di S. Francesco), dimorano questi frati: 1° fra Michele Antonio Garafalo, guardiano; 2° fra Salvatore Mirisola; 3° padre Luigi Scibetta.

1864

Nel convento di S. Francesco ora l’organico dei monaci era composto dal solito fra Scibetta, da fra Pietro Calamera, dal p. Fracesco Mulé, da fra Giuseppe Scimè detto Cicolino, tìlaico terziario e da fra Antonio Chiodo:

1866

Il 24 agosto 1866 abbiamo l’ultima registrazione del convento di S. Francesco. Poi tutto passa in mano laica per le note leggi eversive. Fra Francesco Mulè sottoscrive ricevuta “a buon conto del mio vestiario della somma di onze 16, dico 16). Si chiude la gloriosa storia del convento di S. Francesco di Racalmuto: l’eremo dei Minori di S. Francesco chiude i battenti per volontà degli estranei piemontesi. Le terre - appetibilissime - passano in mano ai furbi e fedifraghi notabili locali.

1869

27 giugno 1869 “Mene mazziniane (lettera da Firenze): «il partito mazziniano a tentato, tenta , ed in ogni modo studia per avere degli affigliati nelle vie ferrate e negli uffici telegrafici».

11 agosto 1869 «Avendo con la massima riservatezza e circospezione indagato sulla condotta di questo Ufficiale telegrafico sig. Tulumello Salvatore di Luigi non ho osservato sinora dal suo contegno alcun indizio da cui desumere che fosse un affigliato o cooperatore del partito Mazziniano», Il delegato Morra (?) al Prefetto [dall’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Racalmuto].

1870

Racalmuto 14 giugno 1870 «...Venendo agli uffici pubblici, incominciando dalla Pretura diretta da qualche mese dal vice pretore, procede regolarmente, però sarebbe desiderabile che venisse al più presto possibile il nuovo Pretore titolare sig. Ripollina, che si attende, per dare maggiormente spinta ed attività al regolare andamento dell’amministrazione della giustizia. Sui Reali Carabinieri non v’è cosa di proposito da osservare in contrario; sarebbe però utile che il comandante della stazione sig. Bertelli, bravo giovane, spiegasse maggiore energia per disciplina sui propri dipendenti, i quali profittandosi della bontà del loro capo sono un po’ rilassati nel servizio, non prestando con quella attività che si richiede; attività indispensabile per potere alla meglio sorvegliare il territorio, e l’abitato che sono vasti, mentre la forza è ristrettissima, per cui si dovrebbe aumentare la Stazione almeno di altri due Carabinieri non essendocene che quattro, con altrettanti soldati: forza la quale rimane quasi esclusivamente in continuazione per la scorta delle due corriere postali che transitano in questo stradale ogni giorno.

«Il servizio delle due guardie campestri esistenti Deleo e Vinci, è del tutto trascurato da poiché il Municipio invece di farli disimpegnare il proprio incarico li lascia praticamente addetti ai propri particolari e di scorta al sig. Sindaco, sig. Matrona, Giunta, parenti e amici. Si dice pure che i suaccennati agenti spalleggiati dall’Autorità Comunale commettono scrocchi, ma nulla si può accertare di positivo.

«Gli Uffici del registro, telegrafico e poste non danno motivo a lagnanza nel pubblico, però ci vorrebbe un poco più di attività in quest’ultimo servizio, e che il capo dell’Ufficio sig. Borsellino non fosse trascurato nel prescritto orario di tenere aperta la Posta, e non abbandonasse quasi totalmente il servizio al suo commesso sig. Grillo Calogero buon giovane, ma piuttosto inesperto e distratto. L Delegato [firma illeggibile].»

Il sindaco che nel 1870 si serviva di quella guardia campestre, che poi vedremo sinistra protagonista in casa Matrona, era il notaio Michele Angelo Alaimo che precede don Gasparino che sindaco lo diventa nel 1872: frattanto quel Matrona era consigliere provinciale (dal 1868 al 1871): tanto bastava per dirottare la non proprio pacifica guardia Vinci a seguire ed avere in custodia l’intera famiglia dei già arroganti Matrona. Borsellino aveva in mano la Posta ma l’affidava ad un giovane definito «inespero e distratto»: Calogero Grillo. Uno spaccato dellA Racalmuto del 1870 non proprio esaltante.

Ma vi era maretta in Municipio. «...l’assessore sig. Matrona Paolino ha dichiarato alla Presidenza lo stsesso non volere far più parte della Giunta Municipale, manifestando essere stato fin oggi in carica, perché il dovere lo chiamava di sentire prima cerziorata la gestione, onde potere al caso rispondere contro ogni insidia e scandaloso mendacio. Il consigliere Gaspare Matrona presa indi la parola, come nel paese vaghe e insidiose calunnie spinte da spirito di parte siano circolate ad appuntarel’integrità del Sindaco e del Corpo Municipale. Per quanto calunniosi ed insensati siano gli appunti, lo provano al Consiglio i presentati conti; la reputazione delle individualità che hanno fin oggi composto la giunta municipale e quando parlo di individualità, egli dice, io non scendo a determinare quella del sig. Matrona Paolino, mentre lo stesso all’oggi dà sicura del nome, unisce solo a scuola dei maldicenti, l’aversi trovato una sola famiglia componente la giunta municipale, essere stato il solo estranei fra tre fratelli cognati sindaco ed assessore. Signori, egli dice, non è mia arte, né bisogno l’assegnare la nostra famiglia Matrona a promotore di ogni bene del paese. L’invidia, la reazione, il regressismo, sono stati questi spettri dell’avvilito stato di questo Comune, che bene spesso ci han gettato il guanto della sfida; e noi l’abbiamo sempre accettato. Al regresso abbiamo risposto, collo spingere per quanto in noi è stata la forza, il progresso; alla reazione coll’arme alla mano del 6 settembre 1862 abbiamo risposto colle armi; alle invidie e calunnie che circolansi nel paese contro l’onestà, risponderemo nella possibilità di provare, colla traduzione innanzi ai tribunali dei colpevoli. Solo mi è dolorosotanta mia opera essere difficile, perché i vili in questo sono astuti e circospetti per scoprirsi; la loro voce [non attacca]; loro non si mostrano di fronte all’onestà ed il loro rantolo d’infamia come cupo e sepolcrale rombo priva anche i più ... attenti a poterne diffinitivamente discercare il movente e segnarne il calunniatore.

«Il consigliere Cavallaro sig. Felice presa la parola ha significato al sig. Matrona che nella difficile arena municipale non si è mai risparmiato d’insidiosamente attentare l’onestà dei rappresentati: e che chi si ha avuto la rappresentanza municipale  in qualunque epoca, è stato sempre segno di calunnia.

«Conto dell’entrata e dell’uscita del comune di Racalmuto - per l’esercizio reso dal suo esattore e tesoriere il signor Leopoldo Muratori - [popolazione abitanti n.° 12.500]: dai licenzi dei dazi appaltati al sig. Agrò Alfano Baldassare L. 1.118; da Pietro Buscemi fu Vincenzo appaltatore dei dazi sopra le tegole, mattoni, gesso, calce, tavole, legname e ferro L. 1.238; da Petrotto Giuseppe fu Nicolò appaltatore del dazio sopra la paglia L. 98.»

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