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lunedì 25 novembre 2013

L'Edipu di un favorese (Giudice) - grande poeta in venacolo - mettiamolo in scena.


Io il Veneziano lo ricordo solo per qualche spiegazione datami dal maestro Sciascia, se non ricordo male a proposito del carcere in cui morì un certo inquisitore per le muffole di tal sedicente diacono Matina. Sarà Castellammare il carcere, ma sempre del sant’uffizio era (credo la casa del goliardo a Palermo di fronte al quale c’era un sottoscala ove si mangiava tutto a metà, mezza bruccetta, gridò una volta un irato compaesanuzzu nostro perennemente iscritto a non ricordo quale facoltà – miseria d’altri tempi, la nostra.

Ma sto Pidalinu picchì Sciascia manco lo vede? Non l’aveva letto? Certo Sciascia era stullicusu. Non volle accreditare nessun racalmutese come magari bella promessa del bello scrivere. Perché? Uno, che sol perché aveva un nonno bizzarro, voleva a tutti i costi diventare scrittore, scrisse un manoscritto, lo passò a Giacomino acciocché lo passare all’eremita della noce e lo accreditasse magari ad un attore vernacolo di Catania. Giacomino tentò. Sciascia finse di dare uno sguardo. Forse lo lesse. Poi chiamò Giacomino: e chi ta ddiri; si continua forsi arrinesci! Ta addiri però ca cu sti tempi ca currinu nun cci capisciu nenti; chiddu ca mi pari nnutili, avi un successu assà di tunnu. Donaccillu . eh .. eh ..

Naturalmente ci persi nna vintina di munuti pi diri chiddu ca dissi. (Preciso: qui cerco onomatopaicamente di rendere la lingua parlata, cosa diversa da quella colta o letteraria che dir si voglia. Molto meglio di me qualcosa del genere mi pare che il Sommo ebbe a dirla nel prefazionare OCCHIO DI CAPRA.

Torno al Veneziano. Provocato, cerco di saperne d più. Leggo:

In campo poetico, il petrarchismo allora dominante trova modo di esprimersi sia in dialetto con Antonio Veneziano (1580-1593), autore di un canzoniere in due libri intitolato "Celia", sia in lingua toscaneggiante con le Rime di Argisto Giuffredi (1535-1593).

E qui una folgorazione: Perché Carbone, Petrotto, Taverna, Borsellino. Liotta, Cutaia. Martorana (donna), Barravecchia (donna), Matrona ed altri letterati che non conosco non ci rechiamo a frotta dal Romamo messinese commissario e diciamo noi vogliamo fare opera culturale al Teatro Margherita. Noi mettiamo in scena la “CELIA” del Veneziano. Jannello credo che ci seguirebbe. Gli faremmo fare teatro e così si calma un po’.

A me preme di mettere in scena L’EDIPU di un favarese, testo sublime in lingua della nostra costola staccatasi a Favara. E’ testo che regge il passo a qualsiasi traduzione nell’italico idioma di un tal SOFOCLE, greco.

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