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martedì 26 novembre 2013

Racalmuto di n tempo: al basso medioevo


IL TEMPO DEI BIZANTINI

 

 

 

 

 

 

 

Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là dei divieti codificati dalle Autorità a difesa di una asserita rilevanza archeologia, in tale contrada nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E dire che le ricerche dei privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa pensare che il tesoretto fu nell’antichità nascosto in zona disabitata per comprensibile cautela. Il centro abitativo era discosto, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.

 

 

 

Per Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a beneficio pare di un giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio archeologico d’incommensurabile portata storica.  Ma la zona resta pur sempre archeologicamente ricca e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo di storia racalmutese, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([1][28])  retrocede la datazione dellle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)

 

 

 

A seguito della scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento abitativo in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.

 

 

 

Biagio Pace, invero, accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto»  ([2][29]) Nostre personali ricerche ci portano a ritenere che l’importante notizia poggia su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui  - per esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie  o pertinenze di 'massae'  soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio.  Sulla scia di autorevoli storici  ([3][30]) è pur congetturabile una sorta di continuità  tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena  a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.

 

 

 

Ma l'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto,  ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([4][31]), secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio  II - Héracleonas».. ([5][32])  Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del  Museo Agrigento,  quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione ([6][33]).


 

 

 

RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO

 

 

 

 

 

 

 

Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.

 

 

 

Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove. Nessuna reperto attesta il sopravvivere in questa zona della comunità bizantina, dopo il consolidarsi del dominio arabo. E se diamo credito alla toponomastica, una località chiamata Saracino è segnata nelle mappe catastali al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio - ospitante l’antico villaggio greco - vi è indicata coi nn. 47-48, a testimonianza della non stretta contiguità dei due luoghi d’insediamento.

 

 

 

E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere verso tesi di eclissi della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna. Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([7][34]) per non propendere per questa seconda tesi. Pianse costui con accenti che trafiggono ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:

 

 

 

 

 

 

 

«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.

 

 

 

«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,

 

 

 

«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?

 

 

 

«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.»

 

 

 

 «Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?

 

 

 

«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.

 

 

 

«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.

 

 

 

«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»

 

 

 

 

 

 

 

Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione era costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita  e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.

 

 

 

Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi, le donne, i vecchi ed i bambini.

 

 

 

Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([8][35]) per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto anche per le vicende arabe locali.

 

 

 

«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quella incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.

 

 

 

«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.

 

 

 

«Pertanto a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([9][36]

 

 

 

Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredevano ogni parte dell’isola. »

 

 

 

Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...] a memoria perenne.»

 

 

 

Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un’apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.

 

 

 

 Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta,  nel 937 contro il delegato distaccato da Sàlim in quel territorio accusato di soprusi. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono adire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.

 

 

 

Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia dej Kalbiti.  Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo sospettare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.

 

 

 

Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania  s’indussero ad  appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61. Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.

 

 

 

Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare  che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluc­cio, vuoi  'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette -  era sotto il domi­nio di Chamuth.

 

 

 

Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predo­ni normanni.

 

 

 

«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si appa­recchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regna­to un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appun­to in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtú, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.

 

 

 

«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchi­ne; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, ([10][37]) Bifara, Micolufa, Naro, Caltanis­setta, Licata, Ravenusa; ([11][38]) di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([12][39])

 

 

 

E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino ([13][40]). Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui,  caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjunge­batur, in posterum sibi non interdicetur».  In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guer­rieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigen­tini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte pianse­ro per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, anghe­rie, iattanze, arroganza del potere. Sono la lingua  degli uomini del potere  che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfrut­tamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di  'Le Parrocchie di Regalpetra' (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).

 

 

 

Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.

 

 

 

A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Abbiamo accennato alla poca verosimiglianza delle notizie  di un governatore di Rahal-Almut  a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emi­ro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racal­muto nell'anno 998;  di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcidiacono Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'pale­arum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigola­ture sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.

 

 

 

I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.

 

 

 

Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, ineludibilmente.

 

 

 

Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Mala­terra, ma ne stravolge senso e giudizi:

 

 

 

«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già col musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente poté, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospet­tasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiogra­fo normanno.»

 

 

 

Di quei cento lancieri al seguito di Ruggiero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racal­muto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggiero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.

 

 

 

L'Amari è aspro nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH. Ma costui aveva già moglie e figli in mano dei Cristiani a Gir­genti. Il Malaterra, monaco benedettino, intorbidisce ancor più la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Rug­gero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qual­che dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in  giuventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua mentalità claustrale. Ed allora la sua settaria cronaca si lascia andare a pesanti giudizi morali contro i suoi.

 

 

 

Quando, però, si tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulma­ni, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.

 

 

 

Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera citata. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde nor­manne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la crona­ca del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchi­ti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali della loro avventuriera giovinezza.

 

 

 

Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleg­giare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.

 

 

 

Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino.  Questi dice che il Conte Ruggiero aveva già debellato tutti i potenti di Sicilia, eccetto Chamuto. La voglia di annientarlo era tanta ma l'impresa non era agevole e ciò costituiva un cruccio per il Normanno. Ruggero non intende demordere; sa però che non è sul campo che può avere ragione del musulmano. Pensa, quindi, a batterlo con l'astuzia e l'inganno. L'ablativo assoluto adoperato dal Malaterra è efficace: «ipso circumveniendo debella­to». Lo si può debellare solo circuendolo. Chamuth allora non è l'imbelle che ama descrivere M. Amari. Per vincere il Musulmano, il conte Ruggero assalta l'impreparata Girgenti ove sa che dimorano la moglie ed i figli di costui. Prende la città, la fortifi­ca. Principalmente si preoccupa della sorte della moglie di Chamuth. Questa viene sottratta da ogni «dehonestatione» e viene messa sotto diretta tutela del conte normanno, il quale è consa­pevole che in tal modo il Saraceno può venire ricattato ed essere facile preda del nemico. Il conte Ruggiero è proprio «sciens Chamutum sibi facilius reconciliari», afferma il Malaterra; ciò equivale a dire che così sarebbe stato più facilmente soggiogabi­le.

 

 

 

Per fare terra bruciata attorno al nostro  Chamuto, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggiro. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.

 

 

 

Se poi il Chamuto si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.

 

 

 

Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni  ci convince molto di più delle ingenuità narrati­ve del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.

 

 

 

Il Chamuth venne in seguito rammentato con qualche tono di esal­tazione. A Sciacca per secoli si pensò di possedere il fonte battesimale in cui era battezzato l'ultimo potente arabo di Girgenti, e si era fieri di ciò. Un certo Vincenzo VENUTI aveva scritto una memoria in tal senso. A stroncar tutto è il solito Michele Amari che la reputa una mera credenza volta ad onorare un immeritevole CHAMUTH , dal canto suo, «degenere nipote di 'Ali». Per il resto, il libro del Venuti sarebbe stato corredato da «diplomi che puzzano di falso, negli opuscoli di autori Siciliani [V. Venuti, t. VII, p. 16 - Palermo, 1762]».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.




[1][28]) Il Griffo (op. cit.) accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali (ben 207 pezzi) del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta occasionale del 1940. » A suo dire il medagliere  sarebbe stato oggetto di «un accurato inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò, che s’era preso anche carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem, pag. 317). Abbiamo cercato di saperne di più presso il Museo di Agrigento, ma siamo stati sgarbatamente messi alla porta come importuni scocciatori.
[2][29])  B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica IV,  p.174.
[3][30]) V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[4][31]) André Guillou,  L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,  Vol. I, Torino 1980, pag. 316.
[5][32])  Cfr. Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149
[6][33])  P. Griffo, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, 1987,  pag.192.
[7][34]) Ibn Hamdis: poeta arabo,  nato a Siracusa verso il 1053 e morto in Africa nel 1133. Vedi Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 - pagg. 312 e ss.
[8][35]) Umberto Rizzitano: Gli Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol. III, pagg. 384 e ss.
[9][36]) «Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita. Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle operazioni militari. Cfr. Ibn al-Athìr, Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS, I, 482.
[10][37]) Su tale toponimo RAHL abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con il sintetico titolo HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATER­RAE. Il Muratori dà la lezione RACEL e in calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL..., distinguendolo comunque da BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo, oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in Sicilia; trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F 12 della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97 della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI adottò la lezione RASELFIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR. Nel 1937, Carlo Alfonso NALLINO, nell’ integrare le note della STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA di M. AMARI contro­batteva al PONTIERI e reinterpretava il passo malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op. cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra (Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno 'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del 1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p. 144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'. Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri, ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente è rahl (racel, racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.]  Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigen­tini presi all'arabo CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso pedante e tedioso. Ma è l'unico proba­bile appiglio ad una fonte storica delle origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia della nostra terra.  
[11][38]) A completamento del discorso sui toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicu­ramente in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella appellazione generi­ca, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La conquista di Sicilia' recente­mente uscito alla luce (Collezione d'opere inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera, appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catala­nixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo 'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.). Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[12][39]) Michele AMARI - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lette­ra dell'alfabeto arabico, fu resa per lo piú, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine ch; e il d, ottava lettera, piú spesso con una t che con una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855]. Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del regno di Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane vantano discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammiraglio fra i Saraceni dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazioni di una nobildonna di quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio continuano a chia­marsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO, principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda, l'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia il tempo che trova.
[13][40])  Trascriviamo qui per eventuali cultori delle fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius, omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO, seper­stite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo debellato, omnem sibi de caetero Sici­liam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agri­gentinam urbem obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto [l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans, diutina oppressione lacessivit; studioque machina­mentis ad urbem capiendam apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hosti­bus, patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque, pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit. Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne completa conoscenza, deve  consultare l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss.  A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente, intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa.

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